Giovane ragazzo/ragazza o ragazzo/ragazza giovane? Storia di un’apparente ridondanza linguistica

Da varie parti – parlanti comuni, insegnanti e giovani utenti dei social – ci è stato posto un quesito solo apparentemente semplice, relativo a espressioni oggi assai frequenti: giovane ragazzo, giovane ragazza, giovani ragazzi/e.

Risposta

Il costrutto giovane ragazzo, più spesso declinato al femminile giovane ragazza, pur rientrando in una casistica di espressioni ridondanti che vanno diffondendosi dal linguaggio dei media, si distingue da moduli consimili perché affonda in una remota tradizione d’uso. Ripercorrere, seppur sommariamente, la filiera delle attestazioni restituiteci da vocabolari e da archivi testuali del web può aiutarci a capire le reali motivazioni di questa scelta stilistico-espressiva e a valutarne la pertinenza o meno.

Un primo, utile approccio argomentativo può consistere nell’analizzare singolarmente i componenti del costrutto, per verificarne la specifica valenza semantica: l’aggettivo giovane (con la variante letteraria giovine) è chiosato dal GDLI, s.v., come attributo di persona “che è nell’età della giovinezza e, in genere, nella prima età della vita”. Una prima, notissima occorrenza di giovane in assetto sintagmatico e con veste latineggiante (cfr. lat. iuvenis), è la sequenza petrarchesca: “Giovene donna sotto un verde lauro / vidi, più bianca e più fredda che neve / non percossa dal sol molti e molt’anni” (Canzoniere, 30-1); nei secoli successivi, oltreché a donna, giovane si abbina a dama, a pastorello, ma non a ragazzo/ragazza. Sembrano avvicinarsi all’uso odierno le seguenti attestazioni trecentesche accompagnate dalla specificazione dell’età:

Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, (ed. a cura di Alfredo Schiaffini, Firenze, Sansoni, 1954, p. 141): Si trovò morto uno garzone giovane di xv anni.

Boccaccio, Decameron, giornata III, nov. IV (ed. a cura di Vittore Branca, Milano, Mondadori, 1976, p. 296): Monna Isabetta avea nome, giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta che pareva una mela casolana.

I due contesti risultano informativi sia sul piano del significante sia su quello del significato. Da una parte infatti testimoniano un costrutto ormai desueto, in cui all’aggettivo seguiva la specificazione dell’età: il garzone (equivalente del nostro ragazzo) è definito giovane perché si trova nella fascia dei teen ager, mentre monna Isabetta è considerata ancora attraente per il suo aspetto giovanile nonostante sia vicina alla trentina. In entrambi i casi la definizione dell’età è aggregata a pieno titolo all’aggettivo (“giovane di 15 anni”; “giovane ancora di ventotto in trenta anni”), ma nei Testi fiorentini abbiamo un sintagma nominale, come nei casi qui in esame, mentre nel testo di Boccaccio la forma giovane si presenta come semplice attributo. Se dunque nella lingua attuale il costrutto con espansione determinativa è ammissibile solo dopo un aggettivo sostantivato (es: “è un giovane di 15 anni”) come nel francese (Il s’agit d’un jeune homme de 15 ans), nell’italiano antico il senso dell’aggettivo giovane con espansione determinativa appare simile a quello dell’inglese old per esprimere l’età: He is a 15-year-old young man.

Sul piano del significato le attestazioni lessicografiche ci forniscono indizi interessanti per le soglie anagrafiche dell’idea di “gioventù” nella lingua antica. L’accezione di giovane anche per ‘molto piccolo, bambino’ si evince da un esempio della Bibbia volgare (V-709), risalente a fine Trecento: “Il giovane fanciullo tanto come egli è piccolo, è buono castigarlo e insegnarli”. Rappresentativo per noi il referente nominale fanciullo, termine che rinvia agli anni infantili, laddove ragazzo implicherà, come vedremo, l’approssimarsi all’età adolescenziale. Come si è anticipato, inoltre, l’esempio citato del Decameron ci informa sul persistere nella signora Isabetta dei requisiti estetici per considerarla giovane nonostante fosse vicina alla trentina, fattore abbastanza insolito per le valutazioni sociali dell’epoca. Come controesempio per il mutamento di prospettiva già nel secolo scorso possiamo citare il trafiletto della copertina di un noto rotocalco, con cui si commenta la foto di una famosa attrice: “La Ralli, sebbene ancora giovane (ha appena compiuto 30 anni), è nel cinema dal 1942” (“Oggi” del 7 ottobre 1965). Tengo a precisare che devo questo e altri dati che citerò più avanti a Milena Romano, che ha conseguito il dottorato in Filologia Moderna-indirizzo editing presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania nell’a.a. 2012-2013, con una tesi di dottorato sul linguaggio dei rotocalchi “Oggi” e “Gente” nei decenni 1950-80.

Tornando all’età medievale, per i maschi la qualifica di giovane sembra abbassarsi di qualche anno, come si ricava da un altro esempio del Decameron (Introduzione alla I giornata, ed. cit, p. 59):

Mentre tra le donne erano così fatti ragionamenti, ed ecco entrar nella chiesa tre giovani, non per ciò tanto che meno di venticinque anni fosse l’età di colui che più giovane era di loro.

Come parametro per tempi più vicini a noi possiamo rifarci al romanzo Senilità (1898) di Italo Svevo, in cui i protagonisti erano considerati e si sentivano vecchi pur essendo poco più che trentenni. La paraletteratura ci restituisce un’ulteriore percezione per la prima metà del Novecento: i romanzi seriali di Luciana Peverelli, intitolati Signorine e giovinotti nel ventennio 1932-1952 hanno per protagonisti ragazzi e ragazze tra i 18 e i 30 anni; Rossella O’Hara, notissima eroina di Via col vento (1936), era considerata una donna matura a 28 anni, e suo marito Rhett Butler è considerato un uomo di età avanzata all’età di 45.

Sempre dal GDLI apprendiamo che, con semantica ossimorica, in Romagna si denotava come giovane antico un signore anziano rimasto celibe (s.v. giovane), e in Toscana il giovanevecchio, con grafia univerbata, si riferiva a un ultracinquantenne non sposato (GDLI, s.v.).

Sempre nel rapido excursus sui singoli elementi del costrutto in esame, esploriamo poi la tradizione d’uso restituitaci dal GDLI, ss.vv. ragazzo e ragazza. Il maschile è chiosato come persona “nell’età che va dall’infanzia alla giovinezza; giovanetto; adolescente”, con alcune esemplificazioni rappresentative ai nostri fini, da quella storica di ragazzo del ’99 (“ciascuno degli ultimi arruolati della classe 1899, nella prima guerra mondiale, partito per il fronte all’età di diciotto anni”), a quelle della lessicografia ottocentesca, che ci restituiscono accezioni vicine a quella del nostro costrutto. Così Pietro Fanfani, nel Vocabolario dell’uso toscano (Firenze, Barbera, 1863) ci avverte che «anche di un uomo fatto si dice nell’uso “È un buon ragazzo” quando occorra lodarlo famigliarmente di bontà». E Tommaseo aggiunge che «ragazzo dicesi di persona che non abbia gran senno e sia un po’ leggiera. “È un po’ ragazzo, ma poi è buono”. […] Per disprezzo o commiserazione, ma con poca stima: “È un ragazzo”» (Tommaseo-Bellini s.v.). Un valore estremo è attestato da Igino Ugo Tarchetti: “Ribellatevi una volta a questa falsa sensibilità che vi nuoce; sarete così sempre un vecchio ragazzo” (I. U. Tarchetti [1839-1869], Una nobile follia, in Id., Tutte le opere, a cura di Enrico Ghidetti, 2 voll., Milano, 1967, vol. I, p. 542). In altri sottolemmi si adduce il senso di ‘garzone’ e ‘mozzo di stalla’, con vari esempi d’autore.

Simmetrica la trafila semantica di ragazza: “Persona di sesso femminile nell’età che va dall’infanzia alla giovinezza (arrivando anche fino al principio della maturità, se non si è contratto matrimonio); giovanetta, giovane donna non sposata”. Ai significati secondari di “figlia, commessa, giovane lavorante” si integravano al sottolemma 5 i valori aggettivali del sostantivo, presente nel senso di ‘giovane’ in Carlo Gozzi: “Per dirvi tutto, io l’aveva nel zero, / né so dir come rabbia sopportata, / ché le puzzava il fiato ed era pazza, / ed anche anche non molto ragazza” (La Marfisa bizzarra, 1772), e nel senso di ‘nubile’ in Mario Pratesi: “Quanto era meglio se fosse rimasta sempre ragazza!” (Il dottor Febo, 1883); Giovanni Pascoli: “L’Armida Fiori è ragazza avanti la legge ma religiosamente sposata a un bravo giovane Pieroni” (Lettere ad Alfredo Caselli, 1912-1920); Bruno Cicognani: “Ora la Bice era arrivata all’età in cui ogni giorno che passa è un capello bianco per la madre: l’idea che la figliola rimanga ragazza” (Villa Beatrice, 1931); Riccardo Bacchelli: “Per essere ragazza la sai lunga, mordace e sfrontata! Ma che ne sai tu dell’amore?” (Il figlio di Ettore, 1958). In questa stessa accezione il termine figura nel costrutto determinativo ragazza madre.

Un’informazione indiretta sulla fascia d’età cui tra Otto e Novecento si ascrivevano le ragazze è data dalla qualificazione perifrastica ragazza delle pulizie attribuita alle giovanissime colf che dalla provincia agraria di tutta Italia andavano a servizio presso le famiglie altoborghesi di città. Puntualmente il GDLI, s.v. ragazzetta − definita come “ragazza di giovane età o di piccola e minuta corporatura (e ha per lo più una connotazione vezzegg. o anche un poco spreg.); ragazzina; fanciulla” −, forniva attestazioni di Giuseppe Mazzini: “Il 20 di questo mese deve andar via la domestica: ragazzétta di quindici anni che considero come perduta” (Epistolario, anno 1841). Sul fronte anagrafico ci orienta invece Alberto Moravia: “A quella grotta, quando ero bambina e poi ragazzétta e poi ragazza, io ci andavo tutti i giorni” (La ciociara, 1957). Quest’ultima attestazione ci conferma che il senso relativo allo stato civile è ormai inattuale, mentre è giunto inalterato fino a noi quello afferente all’età anagrafica e alla sua percezione psico-sociale, testimoniato da Gozzi e dalla goldoniana Mirandolina: “Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non sono bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente la mia libertà” (Carlo Goldoni La locandiera, a cura di Giovanni Antonucci, Roma, Tascabili Economici Newton, 1993, p. 40).

Quanto all’abbinamento da noi preso in esame, la lessicografia storica ne adduce due sole occorrenze, entrambe novecentesche. La versione al maschile si riscontra nella lingua letteraria, in particolare in Primo Levi (GDLI, s.v. semplicismo): “Egli avrebbe potuto, senza contraddire il suo ingenuo semplicismo di giovane ragazzo di buona fa­miglia, uccidere, rubare, fare la spia, e forse anche morire” (Cristo si è fermato a Eboli, 1945). Al femminile il sintagma è registrato nel Supplemento 2004 del GDLI, in un esempio ricavato dal settimanale “Panorama” del 14/10/1990 in cui, s.v. upper class, si allude a “una storia sadomaso fra un uomo della upperclass e una giovane ragazza”.

Di fronte al silenzio della tradizione lessicografica per giovane ragazzo/ragazza, Google libri ci offre una folta serie di attestazioni nelle più varie tipologie testuali, dalla narrativa e dal teatro alla trattatistica tecnico-scientifica e sociologica, al giornalismo. Vale la pena di ripercorrerla, seppur sommariamente, scusandoci in anticipo per il lungo ma necessario florilegio.

Iniziamo dalla lingua letteraria e dello spettacolo. Nella letteratura del dopoguerra si segnala il romanzo Ragazza partigiana di Elsa Oliva (Firenze, La Nuova Italia, 1974), in cui la protagonista parla di un “giovane ragazzo di appena diciassette anni. Coraggioso ed impulsivo” (p. 38). In Emilia sulla diga di Milena Milani (Milano, Rusconi, 1981), si trovano ben tre attestazioni del costrutto. Più frequenti occorrenze si riscontrano nella letteratura degli ultimi trent’anni destinata a un pubblico giovanile. Ne rammentiamo solo alcune: da “Tuttestorie”, sorta di bollettino di Edizioni 4-7 del 1995, si estrae la trama di un romanzetto in cui una “giovane ragazza raggiunge la maturità” nel periodo della contestazione studentesca, crescendo accanto alla figura “dell’affascinante nonna e al suo giovane amante, di cui è innamorata fin dall’infanzia, in conflitto con la madre”. Il costrutto affiora addirittura nel titolo del thriller di Alexandra Burt Giovane ragazza scomparsa (Roma, Newton Compton, 2016). E persino nella Collezione Harmony si parla di una giovane ragazza e giovane modella protagonista di Ammaliante tentazione di Julia James (Milano, Harlequin Mondadori, 2015). Nel recentissimo La ragazza della fontana dell’Olmo di Giuseppina Morano (s. l., Booksprint, 2024), i personaggi sono introdotti con una caratterizzazione quasi anagrafica:

Il giovane e la ragazza arrivarono al punto dov’erano i tre, lui un po’ spavaldo li salutò facendogli l’occhiolino e proseguì assieme alla giovane ragazza. (p. 33)

Dalla memorialistica si ricava il frammento di una lettera inviata al Duce da un “giovane ragazzo dell’Italia Fascista e Imperiale” (Patrizia Dogliani, L’Italia fascista, 1922-1940, Firenze, Sansoni, 1999, p. 171). Nella versione italiana del Bildwörterbuch, più noto come Duden, di Otto Weith (Leipzig, Bibliographisches institut, 1939) si descriveva in dettaglio l’abbigliamento di un “giovane ragazzo” iscritto alla Gioventù Hitleriana (p. 428). Così nella ricostruzione storiografica romanzata di uno dei più tragici eventi successivi all’8 settembre, uno dei protagonisti si rammenta del “giovane ragazzo che era stato. Un marinaio di vent’anni, inviato su un’isola greca. Un ragazzo coraggioso e fiducioso. Speranzoso. Un ragazzo costretto a farsi uomo prima del tempo. Portatore di grande dignità e umanità” (Alfio Caruso, Italiani dovete morire. II massacro della divisione Acqui a Cefalonia, Milano, Longanesi 2000 e Vicenza, Neri Pozza, 2021, s.i.p.).

Passando alla lingua dello spettacolo, la rivista periodica “Letture drammatiche: teatro delle giovani” ci testimonia nel 1954 la distinzione dei personaggi in “giovane”, “ragazzo” e “mulatto” nel copione di E la luce fu, di Gaj Magli (p. 12). In “Filmcritica” del 1961 si legge dell’amore, raccontato «in maniera perfetta», di un «giovane ragazzo patrizio, vissuto all’ombra del vecchio palazzo, a Parma, per una popolana, ragazza “di vita”, istintiva e festosa» (p. 157).

Il linguaggio della critica letteraria ci restituisce addirittura un antecedente latino del nostro costrutto: nella traduzione italiana che Augusto di Cossilla realizzò a partire dal Petrarca di Ludwig Geiger (Milano, Manini, 1877), si legge che il poeta, nelle sue confessioni, “parlando di Laura, al tempo in cui l’amava, la qualifica adolescentula, giovane ragazza”. E ancora nelle Osservazioni sulla Matelda svelata di J. A. Scartazzini redatte da Antonio Lubin (Graz, tip. Leykam-Josefsthal, 1878), si focalizza l’argomentazione sul nostro costrutto:

Ella procede cantando e sceglie fiori, occupazione che conviene molto bene ad una giovane ragazza, non però ad una veneranda matrona. Dante indirizzandosi a lei, le dice, bella donna: espressione molto propria s’egli avea innanzi a sè una giovane ragazza; all’incontro impropria del tutto s’egli si trovava di fronte ad una vecchia dama e sommamente impropria se di fronte ad una monaca. La vista di lei ricorda a Dante Proserpina nel momento che fu rapita da Plutone. Anche da ciò segue, che Matelda non è né una veneranda matrona né una monaca; ma bensì una bella e giovane ragazza. (p. 10)

Un filone testuale tra i più produttivi è risultato quello della storiografia artistica. In una recente biografia di Leonardo: Genio senza pace, scritta da Antonio Forcellino (Roma-Bari, Laterza, 2016) si legge di una rete di adulti che abusavano frequentemente dell’artista, quand’era un “giovane ragazzo, certamente consenziente ma troppo giovane per prendere da solo la responsabilità di quei giochi” (p. 7). E a un ritratto di Beethoven giovane ragazzo si accenna in uno studio sulle immagini del musicista (Benedetta Saglietti, Beethoven, ritratti e immagini: uno studio sull’iconografia, Torino, EDT, 2010, p. 5). Al femminile il sintagma figura in una monografia su Edvard Munch del 2005, che menziona una prima versione del ritratto di una giovane ragazza poi distrutta in un incendio (Øivind Storm Bjerke, Munch, 1863-1944, Losanna, Skira p. 174).

Anche il linguaggio della moda rivela varie occorrenze tra Otto e Novecento. Basti citare il “giovane ragazzo con pantalone bianco rigato blu, o bianco, bottoni blu scuro, giacca nera, cappello di feltro, panciotto Calzature Rivoluzione” menzionato da Franco Nicolini (Moda femminile e stoffe decorative da Luigi XVI a Napoleone I, Savona, Sabatelli, 1982, p. 104).

Giovane ragazzo/a appare di frequente nei manuali di italiano per stranieri (per es. in Antonella Pease, Italiano in diretta. An Introductory course, New York, Random House, 1989, p. 302).

La sociologia si rivela forse l’àmbito più fecondo di esempi, soprattutto nelle ultime decadi. Nella pubblicistica recente, che contamina testo narrativo e denuncia sociale, si affronta il tema scottante della sopraffazione a scuola, attraverso testimonianze raccolte sul campo, come quella di “un giovane ragazzo di seconda media”:

Chiudevo gli occhi. Trattenevo il fiato. Le mani strette in un pugno inumano con le unghia [sic] conficcate nella carne. Il sudore era come ghiaccio sulla mia pelle. Sentivo pulsare il mio sangue nelle vene. Scorreva veloce, risucchiato alle tempie. Speravo, pregavo, urlavo in me e per me. Quando avrebbero finito di dirmi “frocio”? I loro volti erano ghigni, deformati e deformi. Né umani né animali. Attraverso loro non riconoscevo più chi o cosa fossi (Davide Viola, Il ragazzo dai capelli rosa. Esercitazioni per la prevenzione dell’omofobia e del bullismo omofobico, Milano, Ferrari Sinibaldi, 2012)

Antonio Giangrande cura una pubblicazione annuale dedicata a Femmine e lgbti, in cui i soggetti con problemi di identità di genere vengono definiti giovani ragazzi o ragazze (2020, 2022 e 2023). In particolare si sofferma sul caso di una “giovane ragazza” diciottenne abusata da conducenti di autobus urbani a Taranto tra il 2020 e il 2022. In Un paese perfetto: storia e memoria di una comunità di Gloria Nemec (Gorizia, Libreria editrice goriziana, 1998) si cita una giovane ragazza di circa 20-22 anni che, essendo povera, andava a dormire con un’altra signora che era sola, che aveva un’osteria ed era considerata “una ragazza anziana” (p. 184). Uno spaccato di lingua parlata è fornito da un corposo volume che riporta conversazioni reali, tra cui varie telefonate al 911, numero di emergenza degli USA (Marco Pacori, Il linguaggio della menzogna, Milano, Sperling & Kupfer, 2012).

Tra sociologia ed etnologia si colloca un ragguaglio sul rituale di fidanzamento, in cui si precisa che in alcune società tribali, quando un “giovane ragazzo o ragazza compie 17-18 anni, alla famiglia cominciano ad arrivare gli intermediari, i quali propongono ai genitori il fidanzamento con una ragazza o un ragazzo descrivendo le doti di questi ultimi e delle loro” (Alessandro Ramberti, Roberta Sangiorgi, Memorie in valigia, Sant’Arcangelo di Romagna, Fara, 1997, p. 205).

Nella trattatistica socio-politica di stampo positivista si riferiva, come caso di automatismo dei movimenti diurni replicati inconsapevolmente nel sonno, quello di “una giovane ragazza in un esercizio di osteria aveva dovuto affaticare lavorando a preparare tagliatelli [sic] più giorni di seguito in occasione di affluenza eccezionale di avventori” (Antonio Marro, La Pubertà studiata nell’uomo e nella donna in rapporto all’antropologia, alla psichiatria, alla pedagogia ed alla sociologia, Torino, Bocca, 1898, p. 344). Altrove si approfondiva, a partire da un trattato coevo (Theophile Roussel, Enquête sur les Orphelinats, Paris, Mounillet, 1882, p. 65) la storia un po’ pruriginosa di una giovane prostituta:

In questa stessa città [Boulogne sur la Mer] la Commissione d’inchiesta rinvenne una giovane ragazza, i cui parenti erano ricchi proprietari di Lilla. Uscita a 13 anni da un educatorio, fuggì con un giovane che i parenti non vollero accettare per genero. Abbandonata dopo 10 mesi, entrò nella casa di tolleranza, ove fu trovata dai membri dell’inchiesta. Essa confessava di compiacersi della posizione che occupava, avendo sempre avuto dei gusti che essa era allora ben felice di soddisfare, onde, quand’anche i suoi parenti avessero voluto riceverla, essa non avrebbe voluto fare ad essi ritorno.

Similmente, come traduzione un po’ troppo letterale di jeune-fille, giovane ragazza figurava in numerosi articoli di fine Ottocento pubblicati in riviste divulgative come l’“Illustrazione popolare” italiana del 1896, in cui si riportava la traduzione dal francese di un articolo del Dott. Liébeault su una quattordicenne trattata con terapia ipnotica, e definita “giovane ragazza”.

Rappresentativi gli annunci pubblicati su riviste specialistiche, come il seguente, tratto dall’“Archivio di psichiatria” del 1902: “Giovane ragazza mosaica, giovane di buona famiglia, che manca di amicizia, cerca una giovane ragazza”.

Ma la fonte più informativa è il linguaggio giornalistico, nelle sue varie declinazioni, dalle riviste culturali, alla cronaca nera alla cronaca politica. Già a metà Ottocento il triestino “Diavoletto” menzionava giovani ragazzi o ragazze nelle sue “Cose locali”: così, ad es., nel 1855 riportava il caso di un furto con probabile omicidio, in cui una giovane ragazza era ritenuta complice degli assassini (p. 75). Ancora, nella “Nuova Antologia” del 1868 si recensiva The Grand Mugijk di Tolstoj, rilevando che il protagonista si invaghisce di una “giovane ragazza di negozio, la sposa, e lascia che il romanzo colla Stein si risolva di per sé” (p. 570). Ancora, nella “Domenica”, giornale illustrato del 1888 si segnalava la Vita di Antonio Rosmini, prete roveretano, scritta da William Lockart, e tradotta dall’inglese “con modificazioni ed aggiunte” da Luigi Sernagiotto (Venezia, Tipografia di M.S. Fra, 1888), in cui una “giovane ragazza, appena sedicenne”, è assassinata dal fidanzato, che la fa precipitare in un burrone e simula un incidente. E “L’Asino”, settimanale illustrato, narrava nel 1913 la vicenda di una giovane ragazza che faceva la cameriera in una casa privata, e che aveva bruciato il materasso in un accesso di rabbia. “Il Mondo”, rivista illustrata per tutti, pubblicava nel 1920 la novella di Renata Erdos intitolata L’attrice, in cui si narrava di una donna di teatro che non poteva avere figli e venne tradita dal marito, che si era invaghito di “una giovane ragazza”. Il foglio progressista “Noi donne” nel 1944 additava come modello una “giovane ragazza” che aveva superato con successo gli esami di diploma, passando da semplice contadina a “operaia qualificata”.

Anche la memorialistica di viaggio è generosa di occorrenze, come dimostra, tra l’altro, l’opera di Giglioli, pseudonimo di Enrico Hillyer, e autore di un Viaggio intorno al globo della regia pirocorvetta italiana (Milano, V. Maisner e Compagnia, 1875). Vi si rammentava la vicenda di una musúme o “giovane ragazza” giapponese, rapita da un occidentale, che però “ricusò di cedere alle sue voglie giacché amava un altro” (p. 517).

La trattatistica medica pullulava di malattie immaginarie, come quello del presunto diabete di “una giovane ragazza” che “per farsi interessante, come amano le isteriche”, si riteneva che avesse simulato la poliuria tipica del diabete “aggiungendo dell’acqua alle orine, o sia, ciò che è anche più probabile, tacendo buona parte di quello che introduceva realmente” (Arnaldo Cantani, Patologia e terapia del ricambio materiale: Corso di lezioni cliniche, Milano, Vallardi, 1876, p. 59). L’età delle pazienti etichettate come giovane ragazza variava dai 23 anni di una malata di nefrite (“Gazzetta Medica Italiana Lombarda”, 1882), ai meno di 20 di una “da lungo tempo travagliata da espettorazione” (“Giornale della Regia Accademia Medica di Torino”, 1871, p. 231), ai 17 o 13 di pazienti operate da specialisti, di cui trattava, con accurati dati statistici, l’“Archivio italiano di chirurgia” (1920).

Il sintagma è frutto della traduzione dal francese nel “Giornale di medicina militare” del 1884, che riprendeva dalla “Gazette des Hopitaux” un articolo intitolato Della stenosi della valvola mitrale, in cui si tracciava l’intera parabola dello sviluppo puberale:

Così quando la giovane ragazza diventa donna, quando la mestruazione si stabilisce, quando la giovane diventa incinta, quanto la giovane puerpera si è fatta nutrice, gli umori diventano meno alcalini in conseguenza di modificazioni, di rallentamento nella nutrizione. (pp. 240-241)

Nel nostro millennio si registrano ben 1.471 del costrutto al plurale giovani ragazzi nel sito CoLIWeb della Stazione Lessicografica dell’Accademia della Crusca, in contesti relativi a cronache di bullismo o a storie di minori extracomunitari, come nel brano seguente, datato 25/2/2008, rappresentativo di una nutrita serie:

Un gruppo di giovani ragazzi italiani, nordafricani e dell’Est Europa, tra i 18 e i 20 anni, avvicinavano i loro coetanei minacciandoli con coltelli per farsi consegnare denaro, telefonini e oggetti preziosi.

Simmetrico il caso del femminile, che occorre ben 1.910 volte, tra cui citiamo quella in uno stralcio di cronaca del 4/10/2012:

Avevano organizzato un vero e proprio traffico di giovani ragazze nigeriane ridotte in schiavitù, che costringevano a prestazioni sessuali. La Squadra mobile di Frosinone ha bloccato l’organizzazione criminale ed ha arrestato 7 nigeriani.

Altri esempi riguardano trame di film americani, e sembrano quindi calcati sull’inglese young boy.

Nella burocrazia scolastica e nella comunicazione mediatica i costrutti giovane ragazzo e giovane ragazza sono documentati dal 2008. Quest’ultima casistica ci consente di concludere con alcune notazioni interpretative rispetto all’insieme delle citazioni finora prodotte, che comunque sembrano un po’ tutte dello stesso tenore.

In definitiva il costrutto con focus su ragazzo/ragazza/ragazzi/ragazze sembra conservare una sua congruenza e consistenza semantica nel linguaggio burocratico, o sociologico, in cui sembra effettivamente trovare senso nel reticolo oppositivo a giovane adulto, giovane uomo, giovane donna e simili. Da tale sottocodice il sintagma è poi slittato nel linguaggio giornalistico e da questo nel linguaggio comune, secondo la nota dinamica della “sfocatura” dei tecnicismi, tipica dell’italiano contemporaneo (cfr. Daria Motta, La lingua “sfocata”. Espressioni tecniche desettorializzate nell’italiano contemporaneo (1950-2000), in “Studi di lessicografia italiana”, XXI, 2004, pp. 274-329). In ultima analisi allora possiamo ipotizzare che giovane ragazzo/a sia l’evoluzione naturale di un antico costrutto determinativo, testimoniato dal trecentesco giovane garzone, e rinforzato negli ultimi due o tre secoli dalla duplice convergenza tra i consimili sintagmi francesi – e ultimamente inglesi – (jeune fille, jeune garçon, e young boy, young girl – con i tecnicismi che nel linguaggio sociologico e medico designano i soggetti di giovane età.

L’incrementarsi delle occorrenze in queste ultime decadi indurrebbe a pensare a usi innovativi, probabilmente per interferenza di altre lingue attraverso la paraletteratura e i media. Rappresentativa una recente occorrenza televisiva. Nella cronaca della visita di Papa Francesco in Corsica avvenuta il 15/11/2024, un sacerdote italo-francese, di nome Padre Biagio, intervistato dal giornalista Rai sullo svolgimento della mattinata, rispondeva: “Sentiremo poi nella Messa che la ragazza giovane si rallegra e canta”. L’inversione del costrutto sembra significativa in un parlante bilingue, che avverte e quindi marca la differenza tra il sintagma bloccato jeune-fille, percepito come unità lessicale indivisibile e inanalizzabile, e il sintagma italiano giovane ragazza, che, posponendo l’aggettivo, può acquisire una maggiore marcatezza semantica relativamente all’età della corista.

Lo aveva avvertito, da par suo, Luca Serianni nella Prima lezione di grammatica (Roma-Bari, Laterza, 2008) commentando, nell’àmbito dei “costrutti saturi” del tipo piccolo paesino, piccola casetta, il sintagma, frequente nella cronaca nera, ragazzo di 28 anni. Effettivamente, nel giornalismo odierno, che riflette inevitabilmente la tendenza diffusissima a ritardare l’accesso all’età adulta, constatiamo come si esasperi invece la connotazione dell’età ancora immatura e precoce. Così un dodicenne ucciso dal fratello diciassettenne il 31 agosto 2024, viene designato come giovane fratellino nel TG7 del 13/9/2024. Simile designazione era impensabile nei rotocalchi degli anni degli anni ’50 e ’60, in cui fra i 20 e i 30 anni si parlava tutt’al più di giovani uomini e donne.

L’input per rispondere concretamente al quesito che si è cercato di affrontare in queste pagine ci è dato dallo stesso Serianni, che nel manualetto citato (p. 76) rammentava come già quindici anni fa suscitassero le censure dei lettori della “Crusca per voi” ridondanze semantiche come una sorpresa inaspettata, un falso pretesto, un breve cenno, il protagonista principale, e un giovane ragazzo. Il grande linguista specificava poi che nel parlato quotidiano simili incongruenze possono giustificarsi per “la scarsa pianificazione e la più marcata espressività proprie del codice orale”, e in rapporto al sistema lingua “nella sua interezza”, ma non sono ammissibili nel linguaggio di “chi è tenuto a un uso sorvegliato (in particolare chi scrive per il pubblico)”. Sarebbero da evitare perciò nella scrittura giornalistica o nel parlato televisivo, in cui, come si è visto, continuano invece a proliferare. Per eliminare l’inopportuna ridondanza basterà allora sfruttare una delle risorse espressive più tipiche e produttive della nostra lingua, “collocando l’aggettivo dopo il sostantivo, cioè in posizione distintiva”: così il costrutto marcato un ragazzo giovane, “ovviando all’attuale dilatazione semantica del vocabolo”, realizzerà l’intento comunicativo corretto, di «alludere a un adolescente, cioè a un “vero” ragazzo, non a un trentenne». Si veda in merito: Paolo D’Achille, Per una storia del concetto di giovane: aspetti e problemi linguistici, in Giovani, lingue e dialetti, Atti del Convegno. Sappada\Plodn (Belluno), 29 giugno - 3 luglio 2005, a cura di Gianna Marcato, Padova, Unipress, 2006, pp. 5-17.

Siamo così tornati al punto di partenza della nostra argomentazione, e possiamo ipotizzare, alla luce di quanto si è visto, che costrutti letterari come il trecentesco giovane garzone, cui si può accostare il settecentesco giovin signore di Giuseppe Parini, siano portatori di una semantica attenuativa, al pari dell’odierno giovane ragazzo/ragazza, che si applicano addirittura ai/alle quarantenni, nell’ottica del dilagante giovanilismo.

Chiuderei allora con una domanda, che non vuol essere retorica: si può supporre che, in seguito a questa dinamica di slittamento e sfocatura semantico-lessicali, ragazzo/a si avvii a diventare il determinante e non il determinato? Si può cioè pensare che serva a denotare un giovane o una giovane che è ancora ragazzo/a nella nostra società in cui persino l’età anagrafica è diventata un fattore liquido? Se, come scriveva argutamente Serianni commentando e sconsigliando l’uso di giovane ragazzo, “è difficile incontrare ragazzi vecchi”, è anche vero che nel mondo di oggi si è irreversibilmente neutralizzato il topos etico del puer senex.

Gabriella Alfieri

11 giugno 2025


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