Ci sono giunte alcune domande sull'uso di attimino per 'breve spazio di tempo' o anche, più genericamente, per 'un po''.
Ha resistito un po’ più di un attimino...
Il 22 dicembre del 1991, sulle pagine del "Corriere della Sera", Giulio Nascimbeni definiva attimino “la parola che ha fatto crollare l’impero del ‘cioè’”: dopo il tormentone che aveva caratterizzato l’italiano parlato degli anni Settanta/Ottanta, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, l’attimino ha cominciato a infiltrarsi nelle conversazioni con simile tenacia e pervasività. È stato immediatamente notato e ha provocato non poche perplessità e numerosi appelli ai linguisti affinché tentassero di scongiurarne, quasi fosse una pericolosa epidemia, la propagazione nell’uso. Già nel 1988 così ne aveva parlato Gian Luigi Beccaria (Italiano. Antico e Nuovo, Garzanti, 1988, p. 151): «Invece quando mi chiedono lumi su quell’insopportabile attimino che sul modello di momentino si sta affermando ogni giorno di più, non mi sento di condannarlo, anche se non è affatto logico (un attimo è già una frazione di tempo minima e non si dovrebbe ulteriormente frazionare), e anche se a me non piace e mai lo userò perché non mi piaccioni i pargoleggianti diminutivi in genere (e talvolta neppure gli aggettivi: il cielo è più pregnante di il cielo blu). Non ho comunque ragioni valide (perché quelle della logica e quelle del gusto personale non sono scientifiche in fatto di lingua) per condannarlo. Attimino rientra nell’uso oggi frequente nell’italiano parlato-colloquiale di diminutivi con valore attenuativo, di cortesia (aspetti un momentino) o di “disimpegno nell’affermazione” (G. Berruto), come è un bel posticino, è bellino ecc. Perseguire un disegno razionale per modifiche e correzioni di ciò che sta avvenendo, è un criterio non raccomandabile, comunque inutile. S’è già detto a proposito della pronuncia. La lingua cambia, cresce, come un organismo vivente. Il popolo dei parlanti conduce l’uso. Il grammatico può assistere all’uso, descriverlo, suggerire, ma difficilmente può governare il movimento».
Una delle prime registrazioni di attimino è stata senz’altro quella di Ornella Castellani Pollidori che, nel suo La lingua di plastica (Napoli, Morano, 1995, pp. 218-219), riferiva di aver compilato una scheda il 4 febbraio 1985 per aver sentito la parola utilizzata da un esperto di spumanti nella trasmissione televisiva Di tasca nostra nell’espressione “un attimino di zucchero”. Era quindi già in circolazione l’accezione estesa di ‘un po’, un pochino’. Da parte sua, Paolo D’Achille, in Parole nuove e datate (Firenze, Cesati 2012, p. 102), ha segnalato un’attestazione cinematografica del 1967 (“devo andare un attimino in America”) e in Parole: al muro e in scena (Firenze, Cesati, 2012, p. 266) un esempio di un attimo con il valore di ‘un poco’ in uno sketch di Franca Valeri sicuramente anteriore al 1968 (“l’appartamento […] me lo sposti un attimo rispetto all’asse dell’anno scorso”).
E, in effetti, attimino, come abbiamo appena visto, si è ben presto “modificato”: dall’originario valore esclusivamente temporale, nel giro di qualche anno di intensa circolazione ha esteso il suo spettro semantico fino a comprendere il valore della qualità/modalità (sostituibile nella maggior parte dei casi dal semplice ma efficace un po’, in frasi come sono un attimino stanca, la casa è un attimino in disordine), sempre conservando il sapore dolciastro dell’intento di mostrarsi cortesi e di attenuare la portata di quanto enunciato. Oltre a questa modificazione interna, l’abuso mediatico dell’attimino ha favorito il ricorso, sempre più frequente quanto inconsapevole, ad altrettanto fastidiosi diminutivi: l’aiutino di molti quiz televisivi e, di ambito radicalmente diverso e con scopi decisamente più insidiosi, le manovrine e le stangatine a metà anni Novanta. Come aveva già notato la stessa Castellani Pollidori, si è verificato un effetto che potremmo definire di trascinamento a catena: il notevole aumento della frequenza nel parlato, in particolare radiotelevisivo, di diminutivi come momentino (già comunque presente nella tradizione lessicografica toscana dal Giorgini-Broglio, e poi nel Petrocchi e nel Rigutini-Fanfani), insieme a gocciolino, filino, nel corso degli anni Settanta e Ottanta può aver aperto la strada anche ad attimino, seguito, a sua volta, da una nutrita schiera di diminutivi con valore attenuativo.
Senza dubbio attimino ha interessato principalmente l’uso parlato ed è entrato nella lingua scritta prevalentemente in due modalità: o come “caso linguistico” trattato da linguisti, scrittori, giornalisti per lo più per criticarne l’uso, oppure in stralci di “parlato riportato” all’interno di interviste o trascrizioni di parlato di vario genere (abbastanza frequente nelle intercettazioni telefoniche). Nonostante le immediate e pungenti critiche subite, l’attimino ha caratterizzato la superficie della lingua degli anni Novanta a tal punto che anche osservatori attenti l’hanno scambiato per un segnale inequivocabile di trasformazione linguistica “profonda”; sul "Corriere della Sera" del 25 febbraio 1999, Isabella Bossi Fedrigotti, a proposito di trasformazione linguistica, scriveva: «Viene in mente solo la televisione, vero nuovo istituto della parola, nuova dispensatrice di formule magiche e, a volte, misteriose, da ripetere, da imitare, da introdurre, volenti o nolenti, nei quotidiani discorsi. Del resto, non conoscono già tutti i bambini d’Italia gli slogan e i “jingle” delle pubblicità televisive? E quegli “attimini”, quegli “aiutini” di vallette e presentatrici non sono già entrati, tristemente, nel linguaggio come anche i vezzi e i modi di dire di animatori e conduttori? Probabilmente siamo solo all’inizio di un grande stravolgimento linguistico che, sempre più, finirà per farci parlare, in casa e fuori, come se stessimo nel talk-show, nel telegiornale, nella previsione del tempo o in qualche varietà».
Oggi, su una distanza temporale un po’ più ampia possiamo però notare che, almeno in questo caso, le cose sono andate diversamente e che attimino ha tracciato una parabola discendente. Attualmente, grazie alla realizzazione di due corpora, il LIR (Lessico dell’Italiano radiofonico, 1995-2003) e il LIT (Lessico dell’Italiano televisivo, 2006), è possibile avere un quadro, almeno indicativo, del peso della frequenza mediatica (per il parlato radiofonico e televisivo) delle parole. Interrogando il LIR si ottengono 12 occorrenze di attimino con una distribuzione molto significativa: 5 nel 1995, 5 nel 1996 e soltanto 2 nel 2003; nel LIT (che raccoglie parlato televisivo del 2006) le occorrenze sono soltanto 4, due delle quali attribuibili alla stessa persona (Pupo nella trasmissione di intrattenimento Affari tuoi). Questa indagine va quindi a confermare un picco dell’uso mediatico di attimino tra il 1995 e il 1996 con poi una chiara tendenza alla diminuzione.
Più difficile individuare le cause di questa graduale flessione: in parte avranno inciso le forti critiche che ha sollevato, ma molto più semplicemente sembra proprio che ci sia stata una sorta di saturazione, che sia venuto a noia, quasi che progressivamente ma inesorabilmente ne sia risultata ben visibile l’inutilità, e che sia stato anche percepito come parola-specchio del periodo che l’ha visto in auge, quegli anni Novanta che pochi anni fa Stefano Bartezzaghi ha definito “la stagione effimera dell’attimino” ("Corriere della Sera", 10 gennaio 2011). Sempre nel 2011, a proposito degli effetti della televisione sulle abitudini linguistiche degli italiani, Enzo Biagi, intevistato da Curzio Maltese ("La Repubblica", 18 febbraio 2011) offriva un quadro complessivo molto più conciliante rispetto a quello tracciato più di dieci anni prima da Isabella Bossi Fedrigotti (riportato poco sopra): «E che cos’è la Rai per uno che ci ha lavorato quarant’anni? È lo specchio, un po' deformato, di questo Paese, con pregi e difetti. È stata una delle migliori televisioni del mondo da un punto di vista tecnico e fino a un certo punto anche della qualità. Dico quando ancora non era colonizzata dai format stranieri e dal modello berlusconiano. E poi ha unificato il Paese, nel bene e nel male, come diceva Pasolini. Con tutte le differenze che ci sono in Italia, per esempio fra Nord e Sud, in realtà la gente veste, mangia, viaggia in modo simile, e soprattutto si capisce grazie all’italiano imparato con la Rai. Non è un risultato da poco, per un Paese dove le classi dirigenti sono state quello che sappiamo. Anche se poi dicono tutti attimino e aiutino, pazienza»: in definitiva, il dilagare di forme come attimino, aiutino, ecc. è un effetto collaterale del tutto tollerabile se lo paragoniamo al ruolo che la televisione italiana ha svolto nel processo di unificazione linguistica del nostro Paese. In prospettiva storica, quelle di Enzo Biagi sono osservazioni pienamente condivisibili, che non escludono però la responsabilità dei linguisti di descrivere, contestualizzare, interpretare fenomeni che diventano abitudini e vezzi diffusi grazie alla potenza di amplificazione e propagazione dei mass media.
E allora vediamo come è stato trattato attimino dai grammatici e dai lessicografi. Dal punto di vista morfologico si tratta di un regolarissimo diminutivo formato sulla base del nome attimo con il suffisso -ino (del tipo minutino, momentino, per restare nello stesso campo semantico): niente da dire quindi rispetto alla modalità di formazione, mentre le perplessità restano sul versante del significato che, in un’interpretazione rigidamente logica, rimanderebbe a un’entità temporale più piccola dell’attimo. In realtà abbiamo visto quante altre funzioni connotative, positive o negative a seconda dei casi, possa assumere questo diminutivo: cortesia, leziosità, gentilezza affettata, quando non addirittura tentativo di illudere e ingannare il proprio interlocutore. Nella Grammatica italiana Treccani (2012), su attimino troviamo: «ammesso, soprattutto nella lingua parlata, il diminutivo con valore temporale; del tutto sconsigliato sia nello scritto che nel parlato, l’uso con valore modale al posto di ‘un po’, davvero’, ecc. ». Sabina Canobbio, che ha curato la voce intercalari per l’Enciclopedia dell’italiano Treccani, ne ha messo in luce il carattere di segnale discorsivo usato, in particolari contesti, come intercalare (del tipo di cioè, praticamente, insomma, non so, come dire, ecc.): quando una parola assume la funzione di intercalare, diventando un “tormentone” ricorrente, subisce, di pari passo, una sorta di svuotamento semantico che può renderla disponibile per essere “riempita” di significati che prima non aveva. Così può spiegarsi anche il sorgere di quell’attimino modale/quantitativo (con significato generico di ‘un poco’) che resta fortemente avversato da molti linguisti.
Anche i lessicografi si sono posti il problema di registrare attimino come nuova forma in espansione nell’uso parlato, unica varietà, abbiamo visto, in cui è stato accolto e, talvolta, legittimato.
Attimino è presente, corredato da citazioni (la prima del 1991) tratte dai giornali, nel volume Parole degli anni Novanta, una raccolta di materiali e ricerche per il Devoto-Oli realizzata da Andrea Bencini e Eugenia Citernesi nel 1992. Più di dieci anni dopo Edoardo Sanguineti (in un’intervista rilasciata a Beatrice Manetti apparsa su "La Repubblica" il 7 novembre 2004), in occasione della presentazione del nuovo Devoto-Oli, notava: «Ci sono parole nuove che hanno una strepitosa fortuna e altre che incontrano una strepitosa ostilità. Prenda “attimino”: quando è nata aveva un sapore scherzoso, ma nel momento in cui ha cominciato a sostituirsi a tutti gli altri modi per esprimere lo stesso concetto, è stata condannata come qualcosa di pestilenziale».
Nonostante le numerose e aperte avversioni, attimino non solo appariva nel 1992 come una novità da appuntare in vista delle nuove edizioni del vocabolario, ma fu assolutamente legittimato da molti dizionari dell’uso che lo accolsero addirittura a lemma e non solo come eventuale diminutivo all’interno della voce attimo. Primo lo ZINGARELLI del 1994, che lo registra come sostantivo maschile di ambito familiare nell’accezione di ‘spazio breve di tempo’ e con funzione avverbiale, sempre di ambito familiare, nel significato di ‘un po’’; a ruota segue il Sabatini-Coletti del 1997 e solo nell’edizione del 2002-2003 anche il Devoto-Oli attua la stessa scelta; ultimo, forse anche un po’ tardivo vista la parabola della parola, il Vocabolario Treccani 2014 (Giunti Scuola) che però lo definisce “diminutivo di attimo, familiare ‘brevissimo spazio di tempo’”, e a seguire aggiunge, tra le espressioni e locuzioni, il significato di ‘un po’, appena appena’.
Più dell’ingresso della parola nei dizionari, colpisce la sua promozione a lemma: le norme lessicografiche prevedono che i diminutivi non abbiano uno statuto autonomo, ma che siano segnalati all’interno della parola base, criterio che ci avrebbe indotto ad aspettarci attimino semmai a margine della voce attimo; e invece forse dobbiamo chiederci perché non sia trattato come un semplice diminutivo. La risposta potrebbe essere nella nuova funzione avverbiale che attimino ha progressivamente assunto e che lo ha, almeno in parte, allontanato e differenziato semanticamente dal suo sostantivo di base; a conferma di questa ipotesi possiamo segnalare che negli stessi dizionari consultati sono messi a lemma anche momentino e, in alcuni casi, addirittura minutino.
E allora, per quanto possiamo continuare a sentirlo “brutto” e a evitare di usarlo, l’attimino, del tutto regolare morfologicamente e legittimato dai dizionari, almeno per il parlato familiare, continua a riproporsi come rimedio, aleatorio anche sotto il profilo linguistico, all’affannosa ricerca di una velocità crescente che impone quindi tempi sempre più ridotti. Ma fino a quanto?
Per approfondimenti:
A cura di Raffaella Setti
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
Piazza delle lingue: Media
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