Il dottor Roberto Catalano ci interroga sul femminile di questore e di prefetto e commenta: "Mi sembra veramente una forzatura obbedire alla prassi che [...] ci spinge a rivolgerci o a scrivere al Signor Questore o al Signor Prefetto, pur essendo [nel caso specifico] entrambe le figure di sesso femminile".
Benché a tutt’oggi il "correttore ortografico" le segnali come forme errate, fin dal 1987 Alma Sabatini, nel suo Il sessismo nella lingua italiana (Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato), raccomandava di usare i femminili prefetta e questrice o questora (rispettivamente pp. 113 e 115).
Se non ci sono dubbi per prefetta, questore prevede, infatti, la possibilità della doppia uscita al femminile. D’altronde anche su questo stesso sito già Luca Serianni si è soffermato sul femminile dei nomi in -tore e -sore.
Questrice rientra in una serie di titoli professionali di ruoli "alti", che ormai si stanno acclimatando sulla stampa e nell’uso diffuso: ambasciatrice, governatrice, procuratrice, rettrice, senatrice, ecc. (su cui cfr. anche Stefania Cavagnoli, Linguaggio giuridico e lingua di genere: una simbiosi possibile, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2013). Tuttavia, dato che in questore il suffisso -tore è preceduto da consonante diversa da t, è possibile e legittimo anche il femminile in -tora, come in pastora, impostora, fattora, tintora, ecc. La serie di agentivi in -tora di più antica attestazione si riferisce per lo più a professioni "basse" per cause primariamente extralinguistiche, ma anche perché – come ha osservato ancora Luca Serianni (SERIANNI 1989) – "Nel suffisso -trice la desinenza -e non reca un esplicito contrassegno del femminile, e di conseguenza la lingua popolare tende ad utilizzare il maschile -tore, mutandone la terminazione in -a. Si ha in questi casi un'opposizione -tore / -tora, più regolare e immediata".
Il dottor Giuseppe Catalano opportunamente si/ci chiede poi anche: «Perché esistono il pastore e la pastora, il direttore e la direttrice [...] e non possono essere legittimati altri neologismi per l’evolversi del progresso sociale che giustamente legittima le donne ad assumere incarichi un tempo riservati per legge solo agli uomini? Ormai da diversi lustri esistono le donne magistrato, poliziotto, etc. Perché permane questo orientamento linguistico "al maschile" e non si accetta l’evolversi della lingua anche per questi ruoli femminili? Io faccio fatica a rivolgermi alla donna che dirige la mia questura chiamandola Signor Questore. Avrei qualche spazio linguistico da Voi legittimato per rispettare il suo essere donna?».
Il dottor Catalano ha dalla sua il favore concorde dei linguisti, che da anni vanno denunciando il sessismo linguistico che sottende l’uso del maschile inclusivo nei titoli professionali. Cecilia Robustelli (Il sessismo nella lingua italiana in Treccani.it. L’Enciclopedia Italiana) ricorda che: "Con l’espressione sessismo linguistico si fa riferimento alla nozione linguistic sexism elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti nell’ambito degli studi sulla manifestazione della differenza sessuale nel linguaggio. Era emersa infatti una profonda discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia soprattutto in ambito semiotico e filosofico". D’altronde fin dal 1986 Patrizia Violi, (L’infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio, Verona, Essedue, p. 41) giustamente puntualizzava che: "Il genere non è soltanto una categoria grammaticale che regola fatti puramente meccanici di concordanza, ma è al contrario una categoria semantica che manifesta entro la lingua un profondo simbolismo".
Già nel 1993 il noto Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche (Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato), promosso dall’allora Ministro Sabino Cassese, dedicava il paragrafo 4 (pp. 49-50) proprio all’uso non discriminatorio e non sessista della lingua italiana e autorevolmente denunciava: "il fatto che in italiano il genere grammaticale maschile sia considerato il genere base non marcato, cioè [...] valido per entrambi i sessi, può comportare sul piano sociale un forte effetto di esclusione e di rafforzamento di stereotipi. [...] l’amministrazione pubblica, attraverso i suoi atti, appare un mondo di uomini in cui è uomo non solo chi autorizza, certifica, giudica, ma lo è anche chi denuncia, possiede immobili, dichiara, ecc." (p. 49).
Proprio per questo sono state molte le iniziative e le raccomandazioni istituzionali e pubbliche – nazionali e internazionali – tese a promuovere l’uso di titoli professionali femminili in modo da non oscurare la presenza delle donne.
Se nelle abitudini e propensioni diffuse l’uso sessuato della lingua tarda a imporsi – non di rado anche ad opera delle stesse donne – proprio nelle funzioni più "alte" della società, ciò è dovuto a una errata intenzione di sottolineare ancora per omologazione il prestigio di ruoli un tempo raggiunti solo dagli uomini. Come già osservava su questo stesso sito Cecilia Robustelli, in un contributo dal significativo titolo Infermiera sì, ingegnera no?: "sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adattare il linguaggio alla nuova realtà sociale sono ancora forti e così, per esempio, donne ormai diventate professioniste acclamate e prestigiose, salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali, vengono definite con titoli di genere maschile: il ministro Elsa Fornero, il magistrato Ilda Boccassini, l’avvocato Giulia Bongiorno, il rettore Stefania Giannini". Analogamente Stefania Cavagnoli (Linguaggio giuridico cit., p. 51) rileva per la stampa "uno stato di dinamismo, di flessibilità, di confusione, sicuramente di non coerenza nell’uso del femminile relativo alle cariche politiche e alle professioni (a certe professioni). [...] si trovano esempi in cui tutte le regole di una comunicazione di genere vengono infrante [...]. Si trovano però, per fortuna, anche alcuni esempi positivi di trattamento equilibrato fra uomo e donna [...]. In generale, si assiste ad una grande oscillazione legata soprattutto alla maggior presenza [...] di donne in posizione dirigenziale e governativa".
Quando si afferma – come spesso succede – che il femminile di un titolo professionale prestigioso "suona male", lo si fa non su base linguistica ma per un soggiacente stereotipo – e pregiudizio – culturale. La domanda sorgiva del dottor Catalano, dunque, non può che confortarci.
Per approfondimenti:
Patrizia Bellucci
Piazza delle lingue: Lingua e diritto
17 marzo 2014
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