Marco B. scrive all’Accademia segnalandoci l’uso, riscontrato durante la sua attività di pratica forense, dell'imperfetto narrativo nella redazione degli atti giuridici (es. Tizio in data X si recava nel luogo Y e stipulava un contratto ecc.); si chiede se sia un uso corretto, eventualmente al fine di dilatare il tempo della narrazione, o se invece lo si possa considerare un “vezzo anacronistico” da sostituire con l'impiego del passato remoto o prossimo. Risponde Stefano Ondelli, docente presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche, del Linguaggio, dell'Interpretazione e della Traduzione dell'Università degli Studi di Trieste.
Uso dell'imperfetto narrativo
Innanzi tutto mi complimento con Marco B. per il suo spirito di osservazione. L’uso dell’imperfetto quando ci aspetteremmo dei perfetti (passato prossimo e passato remoto) va sotto il nome di “imperfetto narrativo”, come egli ha giustamente ricordato. Si tratta di un impiego particolare che ha avuto origine nella lingua letteraria della seconda metà dell’800, poi stabilizzatosi solo in testi di tipo istituzionale e di registro elevato, per esempio nei discorsi commemorativi e, solo parzialmente, nella cronaca dei giornali. Oggi è praticamente la norma l’italiano dei testi giuridici e burocratico/amministrativi.
La domanda riguarda la “correttezza” di questo tratto: in tal caso la risposta è che, se praticamente tutti i magistrati e gli avvocati che redigono testi lo usano, è difficile considerarlo “scorretto”. Altra questione è chiedersi se vi sia una giustificazione o se questo tipo di imperfetto sia solo un “vezzo anacronistico”, che immagino possa essere interpretato come “una complicazione inutile che magari fa sembrare una sentenza o un atto più elegante ma in realtà li rende meno comprensibili”. Allora si potrebbe propendere per la seconda ipotesi.
Come il nostro lettore certamente sa benissimo, la legge prescrive i contenuti degli atti ma, a differenza di ciò che avviene in altri Paesi (per es. la Germania), non specifica come questi contenuti vadano espressi (per le sentenze, cfr. l’art. 546 del Codice di procedura penale). Quindi qualsiasi laureato in giurisprudenza impara dai Codici che in una sentenza è necessario raccontare (concisamente) i motivi in fatto e in diritto, ma l’obbligo di usare un tempo verbale molto particolare come l’imperfetto narrativo sembra dipendere dalla consuetudine (sicuramente non dai Codici).
Nella pratica, nel caso delle sentenze, la tendenza dei giudici estensori pare essere di usare l’imperfetto narrativo nella narrazione dello svolgimento del processo (nelle sentenze di appello o Cassazione) o dell’iter giudiziario precedente al giudizio; fatti i debiti aggiustamenti, lo stesso avviene in altri tipi di atti. Quando però il documento diventa particolarmente lungo e complesso, l’imperfetto narrativo può “invadere” altre parti del testo e crea inevitabilmente confusione (insomma, è come narrare un intero racconto usando solo l’imperfetto: non si capisce cosa viene prima e dopo).
Ora, perché l’imperfetto narrativo è diventato così comune? Si potrebbe pensare che sia stata la Corte di Cassazione a fornire un modello prestigioso da seguire; tuttavia, l’analisi delle sentenze pubblicate sul Foro Italiano dall’Unità d’Italia a oggi dimostra che questo tempo verbale si è imposto a partire dall’inizio degli anni ’70, probabilmente come segnale di eleganza e formalità; prima, semplicemente, non esisteva (come molti altri fenomeni linguistici che distinguono l’italiano giuridico dalla lingua comune), o perlomeno era molto raro.
Per concludere, è difficile stabilire se, come Marco B. chiede, “sia da preferirsi l’utilizzo del passato prossimo o remoto”. Tanto per cominciare, dovremmo domandarci: quali dei due? (ognuno può avere le sue idee in proposito, ma l’uso è alquanto erratico). Forse sarebbe giusto chiedere ai giuristi (magari con una consulenza dei linguisti) di stabilire ufficialmente come usare i tempi verbali in certi documenti.
Stefano Ondelli
Piazza delle lingue: Lingua e saperi
5 dicembre 2017
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