In fermo restando, fermo non resta fermo...

Ci sono pervenuti vari quesiti che chiedono se nell’espressione fermo restando l’aggettivo debba restare invariato o no quando segue un nome femminile o plurale; altri chiedono se a fermo restando non sia preferibile fermo restante.

Risposta

Le domande su fermo restando sono due. La prima chiede se invece del gerundio si può usare il participio presente: fermo restando o fermo restante? La seconda se fermo va concordato col soggetto cui si riferisce. Dicendo soggetto ho già anticipato una parte della risposta, perché il costrutto in questione è quello di una frase copulativa (restare ha il valore copulativo di essere) di forma implicita, in cui il complemento predicativo (fermo) concorda col soggetto ed essendo un aggettivo lo fa in genere e in numero. Perciò se il soggetto è maschile o femminile singolare o plurale fermo si declina in parallelo.

Il verbo va al gerundio, modo tipico di questa tipologia di frasi subordinate, pienamente verbale anche se mascherata dalla rigidità polirematica (cioè dall’essere ormai quasi una locuzione fissa). Vediamone qualche esempio impeccabile (attinto al corpus DIA-Coris) da usi di lingua molto formale come quella burocratico-amministrativa:

A decorrere dal 1 º gennaio 1999 per il personale iscritto al Fondo che alla data del 31 dicembre 1995 può far valere un’anzianità contributiva inferiore a diciotto anni interi il contributo di cui al comma 2 è ulteriormente ridotto nella misura dell’1,56 per cento di cui dello 0,514 per cento quello a carico del lavoratore e dell’1,046 per cento quello a carico del datore di lavoro, ferma restando la condizione di cui al comma 3.5.

Anche nei romanzi si leggono casi ineccepibili come questo:

una donna deve conservare gelosamente il proprio carattere, attraverso tutte le mode, che accetterà correggerà o respingerà a seconda del gusto o capriccio, ma fermo restando il carattere di donna, in modo inequivocabile, sicuro, la propria femminilità. (Aldo Palazzeschi, I fratelli Cuccoli).

L’obbligo della concordanza si vede bene se si riscrive la stessa frase in forma esplicita, cioè con verbo di modo finito. A una frase come questa:

Le Associazioni nazionali si riservano di studiare la possibilità di realizzare la contabilità nazionale delle posizioni dei singoli operai agli effetti del presente istituto. Rimangono ferme le determinazioni locali per la misura dei contributi e la gestione dei fondi.

corrisponderebbe una implicita come la seguente:

Le Associazioni nazionali si riservano di studiare la possibilità di realizzare la contabilità nazionale delle posizioni dei singoli operai agli effetti del presente istituto, ferme restando le determinazioni locali per la misura dei contributi e la gestione dei fondi. 

Dunque concordanza del complemento predicativo col soggetto. Quando però il soggetto del verbo è espanso in un’intera frase (“fermo restando quanto (è stato) stabilito dagli articoli precedenti ecc.”) o è esso stesso un’intera frase (soggettiva appunto), ha valore neutro e quindi esige per fermo il maschile singolare, come in questo esempio:

essi si lanciavano contestazioni e improperi, che qui riferisco a caso, senza più riuscire ad attribuirne la paternità, e fermo restando che le frasi non furono pronunciate a turno, come avverrebbe in una disputa nelle mie terre, ma all'uso mediterraneo, l'una che si accavalla all'altra, come le onde di un mare rabbioso (Umberto Eco, Il Nome della rosa).

Anche se i soggetti pronominali espansi in una frase o le frasi soggettive stesse sono più d’una, fermo rimane al maschile singolare:

fermo restando quanto sopra convenuto e quanto pattuito nel contratto del….

fermo restando che gli accordi presi non si modificano e che gli acconti versati non si restituiscono, si conviene che ecc.

Forse è questo frequente costrutto con soggettiva o soggettive a favorire il dubbio sulla concordanza con soggetti nominali, rafforzato però anche dalla collocazione colta delle parole, che anticipa un complemento (fermo) in genere meno lontano dal soggetto cui si riferisce (la frase standard è: “restano ferme le disposizioni…”) e quindi, in un certo senso, lo sgancia dal nome con cui dovrebbe concordare. Ma basta costruire la frase al modo finito o sostituire fermo con un aggettivo dal significato simile, ad esempio valido, per notare che nessuno direbbe mai: “*restano fermo gli accordi/ le decisioni precedenti” oppure “*valido restando gli accordi/ le decisioni precedenti”.

Resta ora da vedere perché, invece del gerundio dovuto, capita di veder usato il participio presente così spesso da generare dubbi nei nostri lettori. Cerchiamo qualche esempio di fermo restante. Google non ne ha pochi. Ad esempio nel documento di una società di informatica del Salernitano si trova:

Il software permette la definizione delle prestazioni e la quantificazione di un corrispettivo base facendo riferimento al DM 140/2012, fermo restante la determinazione del Corrispettivo pattuito rispettando la volontà negoziale tra le parti,

con participio e senza accordo col soggetto. Si legge anche che il Lions Club Giarre-Riposto ha istituito nell’ottobre 2016 un concorso per uno studio dal titolo: “Quale futuro per le due Città se queste, fermo restante il nome Giarre-Riposto, decidessero di unificarsi anche amministrativamente”. Uno sconcertante “Fermo restante gli incarichi” si legge nel verbale di una scuola di Procida (che pur in presenza di un soggetto plurale mantiene il singolare non solo in fermo ma anche nel participio).
Insomma, sembrerebbe che l’uso del participio presente in luogo del gerundio sia un tratto dell’italiano meridionale, se Google libri non ce ne desse testimonianza ai primi dell’Ottocento anche in norme pubblicate dal governo imperiale delle Venezie (cioè in lingua burocratica) e i dubbi dei nostri lettori non venissero anche dal Nord.

Il fatto è che gerundio presente e participio presente hanno vari tratti in comune e nell’italiano antico, come Maria Corti ha dimostrato in due insuperati saggi (Participio presente + essere e Uso del gerundio, in La lingua poetica avanti lo stilnovo, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005), la loro sovrapposizione non era infrequente. Il verso di Chiaro Davanzati, poeta fiorentino del Duecento: “li tempi contrariosi sono venenti” equivale, spiegava la studiosa, all’odierno “i tempi contrari stanno venendo”.
Il gerundio ha una più spiccata dimensione verbale, il participio invece nominale; col tempo il primo ha soppiantato il secondo (di registro più colto e letterario) nelle perifrasi con essere o stare. Ma basterebbe confrontare due esempi come questi “I problemi sorgenti a ogni piè sospinto ci inducono alla cautela” e “I problemi, sorgendo a ogni piè sospinto, ci inducono alla cautela” o pensare che in francese la morfologia del participe présent corrisponde a quella del gérondif, che vuole però la preposizione en (“en jouant Pierre a marqué un but surprenant”, “giocando, Pierre ha segnato un magnifico goal”), per ricordare la vicinanza delle due forme e quindi spiegarci certi slittamenti tra i due modi.

Ma forse, per il nostro caso, si può scavare manzonianamente anche più vicino e pensare che il timore meridionale per la sonorizzazione dopo nasale, sentita, come in effetti è, un tratto regionale da evitare, può spingere ipercorrettisticamente alla grafia (e pure alla pronuncia) sorda anche di consonanti sonore e favorire quindi, come è stato ripetutamente documentato, lo slittamento di -nd- a -nt-, che, specie se vi si aggiunge il frequente esito indistinto della vocale finale nei dialetti meridionali, potrebbe generare la trasformazione di restando in restantǝ e quindi in restante, reinterpretato inevitabilmente come participio presente.

Ma le ragioni spiegano l’errore. Non lo giustificano. In italiano, la confusione va evitata e si deve usare il gerundio perché la frase è verbale, anche se l’irrigidimento polirematico della sequenza fermo restando tende a trasformarla in una locuzione congiunzionale di valore limitativo-concessivo, con un processo di grammaticalizzazione che in altri casi è già avvenuto o sta avvenendo ancor più decisamente (durante, participio presente di durare, ormai usato quasi solo come preposizione, eccetto, da excipere, e, ancorché più raramente, eccettuato, da eccettuare, anch’essi in funzione preposizionale e quindi invariabili).

Vittorio Coletti

 

7 giugno 2019


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