Perché in italiano non si segnalano con l'accento le parole che hanno una grafia ambigua (come ad esempio prìncipi e princìpi)? Al quesito, posto da vari frequentatori del nostro sito, è stata data risposta da Luca Serianni ne La Crusca per voi, n. 19, ottobre 1999, p. 8. Si riporta qui di seguito il testo.
Indicazione dell'accento in parole dalla grafia ambigua
«Perché in italiano l'accento è obbligatorio solo sull'ultima sillaba "e non quando cade sulla terzultima, ingenerando talora problemi di interpretazione" come prìncipi / princìpi? Si potrebbero mantenere senza accento grafico solo le parole piane che sono la maggioranza.
Il dott. Chignola tocca un aspetto assai interessante, sia in sé sia per i suoi risvolti di politica linguistica.
Partiamo da una domanda preliminare: quali sono le condizioni che rendono praticabile una riforma dell'ortografia? La prima è la centralizzazione e l'ufficialità della riforma: "A una soluzione si arriverà soltanto il giorno in cui un decreto prescriverà per tutte le pubblicazioni dello Stato l'adozione di una norma precisa" (così Bruno Migliorini, in "Lingua Nostra", III 1941, p. 70). È poi necessario che le nuove norme siano immediatamente applicabili da tutti i cittadini alfabeti, anche da quelli con istruzione elementare: i criteri ispiratori devono dunque essere chiari e di immediata evidenza.
Il punto di forza di un'eventuale riforma è naturalmente l'urgenza con cui un certo problema è avvertito dalla collettività; ora, non c'è dubbio che la limitata prevedibilità della posizione dell'accento è il problema più spinoso dell'ortografia italiana e l'unico condiviso da tutti i parlanti, senza differenze regionali: spinoso, perché gli errori accentuativi sono particolarmente incresciosi (chiunque conosca la pronuncia di un nome di luogo ha un moto di fastidio quando l'annunciatore e l'annunciatrice di turno dice in televisione Nicotèra invece di Nicòtera o Euganèi invece di Eugànei); condiviso, perché su altre incertezze della grafia italiana, come la mancata distinzione di e, o aperte e chiuse o di s e z sorde e sonore, la norma toscana è ben lontana dall'essere avvertita come imperativa da parte degl'italiani di altre regioni, i quali non capirebbero la necessità di abbandonare l'ortografia corrente.
Come si può ricavare da un saggio di Nicoletta Maraschio (Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi, 1993-1994, I, alle pp. 211-227), i grammatici del Cinquecento che proposero, senza successo, riforme dell'alfabeto italiano erano scarsamente interessati al problema della posizione dell'accento. Poco economica, d'altra parte, è la riforma applicata in due trattatelli stampati a Firenze in grafia ortofonica per i tipi di Neri Dortelata nel 1544: si introduceva "l'accento acuto su tutti i polisillabi, l'accento circonflesso sulle vocali finali tronche (gradî) e di alcuni monosillabi (ô 'ho', fâ 'poco fa')" (Maraschio, p. 218). Nell'Ottocento e nel Novecento le proposte non sono mancate. Quella che a me pare più ragionevole e della quale mi sentirei di caldeggiare l'introduzione si deve a Giuseppe Malagoli e si può leggere nei particolari nel suo aureo volumetto L'accentazione italiana, Firenze, Sansoni, 1968o', pp. 32-39. In breve si tratterebbe di tener conto non della sillaba, ma della vocale (senza distinguere tra vocali con valore fonetico, come la i di càmice, e con valore soltanto grafico, come la seconda i di camicie) e d'indicare l'accento nei seguenti casi: 1) nei polisillabi tronchi in vocale (come oggi) e anche nei pochi polisillabi tronchi terminanti in consonante (Carrèr, Macomèr); 2) nella terzultima (o quartultima o quintultima) vocale dei polisillabi (làuro, fèrreo, depòsito, esàutorano). Unica eccezione: le parole in -ia, -ie, -io, -ii e quelle in -ua, -ue, -uo, -ui, per le quali è più economico segnare l'accento solo quando cade sulla primultima vocale, cioè sulla i o sulla u (malìa, brontolìi, Ferrùa)...»
30 settembre 2002
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