La supervisora supervisiona, non supervede!

Diverse lettrici e alcuni lettori chiedono come ci si debba riferire a una donna che ha un compito di supervisione, ovvero quale sia la forma femminile corrispondente a supervisore, in particolare nel campo della psicoterapia e della didattica universitaria.

Risposta

Le soluzioni citate nei quesiti, per lo più con l’indicazione dei motivi per i quali l’una o l’altra non appare convincente, costituiscono un catalogo completo delle soluzioni immaginabili; le presenteremo e commenteremo dopo aver inquadrato il problema più ampiamente (per le molte altre risposte su nomi di professioni riferiti a donne si veda qui).

Il sostantivo maschile supervisore è definito dai principali dizionari dell’italiano come “chi controlla l’esecuzione di un’opera, di un lavoro” (GRADIT; simile la definizione dello Zingarelli 2020); il DISC aggiunge un dettaglio: “Chi è responsabile della realizzazione di un'opera e controlla anche il lavoro altrui”; il GDLI dà una definizione più interessante per i nostri fini: “Chi svolge mansioni di supervisione di un’attività, di una fase di essa”. Qui il nome d’agente supervisore viene esplicitamente connesso al nome d’azione supervisione. I dizionari sono unanimi nel datare la prima attestazione in italiano di supervisore al 1931 (solo il GDLI indica un testo di Emilio Cecchi del 1940) e di supervisione al 1932 (GDLI 1943), e nel considerare queste voci entrate in italiano su modello dei corrispondenti termini inglesi supervisor e supervision, a loro volta formati con elementi latini, o addirittura adattamenti di termini attestati nel latino medievale.

Veniamo ora al problema della formazione del nome femminile corrispondente al maschile supervisore. La Grammatica italiana di Luca Serianni (Serianni 1989, cap. III, § 67) dà le seguenti indicazioni:

I nomi che al maschile terminano in ‑sore (perlopiù nomi d’agente deverbali: per es. aggredire → aggressore ‘chi aggredisce’), formano quasi sempre il femminile in ‑itrice, partendo dalla radice dell’infinito, terminante per d: difensore (difend‑ere) → difenditrice [...].
Il suffisso popolare ‑sora si affianca talvolta a ‑itrice: uccisore → ucciditrice e uccisora [...].

Tuttavia, nel nostro caso, non è applicabile la formazione di un deverbale in ‑itrice, dato che manca un verbo base con radice dell’infinito terminante in d‑. Non si è infatti affermato supervedere nel senso di ‘svolgere attività di supervisione’, anche se qualche isolata attestazione se ne trova: ne citiamo una coeva alle prime attestazioni italiane di supervisore e supervisione, dalla “Rivista di politica economica” del 1935:

Nel caso che un ufficio regionale non possa risolvere una controversia specialmente per la sua natura o per la sua importanza, ne riferirà all'ufficio centrale, il quale d’altra parte si riserva di supervedere le decisioni degli uffici regionali [...]. (Giovanni Fontana, I Codici Roosevelt di leale concorrenza – I. La legge 16 giugno 1933 e la National Recovery Administration, pp. 303-313: p. 313)

Una lettrice considera la formazione di superveditrice per il senso che ci interessa, ma lo scarta in quanto “suona un po' troppo ingombrante”. Il difetto di questa formazione, più che un’ipotetica “ingombranza”, è la mancanza di relazione trasparente con il verbo base, che non è in uso.

Per creare un verbo che esprima il senso che ci interessa, l’inglese e l’italiano hanno preso strade diverse: in inglese si è ricorso a una retroformazione, supervise, attestata fin dal XVI secolo (OED online); in italiano, invece, si è affermato un verbo denominale derivato dal nome d’azione, supervisionare. I dizionari considerano supervisionare attestato solo dalla fine del XX secolo (Zingarelli dal 1985, GRADIT e Devoto-Oli dal 1986, GDLI dal 1991), ma è possibile retrodatare almeno alla metà del Novecento il suo uso, come dimostrano le due attestazioni seguenti, reperite grazie a una ricerca su Google Ngram Viewer:

Come già sappiamo, nel 1922 Theo van Doesburg è a Berlino insieme a El Lissitzky che, giunto da Mosca, supervisiona la mostra del costruttivismo e del suprematismo russo
(Bruno Zevi, Poetica dell'architettura neoplastica, Milano, Tamburini, 1953, p. 128)

Esso non governa direttamente, ma supervisiona e controlla l’azione del governo giapponese
(Indro Montanelli, I rapaci in cortile, Milano, Longanesi, 1953, p. 264)

Dunque se volessimo creare un deverbale per indicare ‘colei che supervisiona’, potremmo ricorrere a supervisionatrice, forma presa in considerazione da una lettrice di Brescia, che però osserva che “suona molto strano”.

La “stranezza” di supervisionatrice risiede anche nel fatto che la forma risulta molto lontana dal maschile supervisore, e non simmetrica ad esso. Analogo difetto ha la forma supervisoressa, citata da un lettore che scrive da Napoli, il quale però subito osserva che la forma appare “ironica”: è ben noto che i femminili in ‑essa derivati da maschili hanno per lo più valore ironico e spregiativo, fatta esclusione per le tre forme di uso comune dottoressa, professoressa e studentessa (Lepschy, Lepschy & Sanson 2002).

Per formare un femminile simmetrico al maschile supervisore la soluzione ideale è supervisora, che è anche quella implicitamente suggerita dalle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, dove si legge:

Il problema [...] si pone con quasi tutti i sostantivi in ‑sore, per i quali non esistono varianti femminili precisamente corrispondenti [...]
Tale vuoto lessicale sembra assai strano, in quanto donne che evadono, che difendono, che possiedono e che… evertono non mancano di certo. Ma ancor più strano sembra che di tale vuoto lessicale non ci si renda generalmente conto. Riteniamo quindi che sia indispensabile disporre di una corrente forma femminile: ci sembra che quella in ‑sora, benché finora connotata come popolare, vada rivalutata con un uso regolare per la sua funzionalità. (Sabatini 1987, pp. 119-120)

È evidente che il discorso qui svolto si applica perfettamente al nostro caso: si raccomanda supervisora, che è anche la forma indicata come femminile corrispondente a supervisore da GRADIT, Zingarelli e Devoto-Oli. Non è facilissimo stabilire da quando sia attestata questa forma in italiano, dato che i dizionari ancora oggi non indicano una data di prima attestazione per molti nomi d’agente femminili, spesso non lemmatizzati ma inseriti solo come indicazione grammaticale nel corpo della voce relativa al maschile corrispondente. Se ne trova un’attestazione letteraria di fine XX secolo in questo testo di Aldo Busi:

Sempre che sugli ori della morticina e del secco stecchito non abbia messo gli occhi suor Lucia, la supervisora di ogni capocchia di spillo che transea qui all’ospizio (Aldo Busi, Suicidi dovuti, Milano, Frassinelli, 1996, p. 53)

Nei primi anni Duemila le attestazioni aumentano, e la parola è usata con riferimento a figure operanti in vari contesti lavorativi:

in più occasioni peraltro è stato beccato da qualche supervisora a dare consigli sulle tariffe migliori della concorrenza (Pino Cacucci, La memoria fugge in là...: parole per resistere, Bologna, Perdisa, 2005, p. 64)

La figura dell’ostetrica supervisora, con il giusto potere istituzionale, potrebbe quindi rappresentare una figura chiave in una riorganizzazione dell’assistenza ostetrica (Verena Schmid, Salute e nascita. La salutogenesi in gravidanza, Milano, Urra, 2007, p. 371)

Una sera di giugno del 1991, la Prof.ssa Paola Vianello, ordinaria di letteratura greca alla Facoltà di Filosofia e Lettere dell’UNAM e supervisora della mia tesi di laurea su Pitagora (allora in fieri), mi telefonò (Umbria-Messico, Perugia-UNAM: frammenti di una lunga amicizia. Testimonianze raccolte da Livio Rossetti, Perugia, Morlacchi, ©2007, stampa 2006, p. 15)

Si noti che nel terzo degli esempi qui sopra il contesto fa riferimento a una docente che opera all’UNAM, cioè l’Universidad Nacional Autónoma de México, istituzione di lingua spagnola; in spagnolo i nomi d’agente femminili in -sora corrispondenti ai maschili in ‑sor sono di uso comune (si usa, per esempio, anche profesora ‘professoressa’).

Le opzioni possibili e attestate non sono ancora finite: Devoto-Oli e DISC segnalano che supervisore al maschile è spesso usato “anche con riferimento a donna”. L’uso di nomi maschili con riferimento a donna (il tipo “il ministro Cartabia”) è (purtroppo, a parere di chi scrive) ancora diffuso, ma non è quello consigliato dalle varie Raccomandazioni per usi linguistici rispettosi della parità di genere (si vedano almeno Sabatini 1987 e Robustelli 2014). Usare un nome di genere grammaticale maschile con riferimento a una donna, infatti, ha l’effetto di oscurare l’esistenza di donne che ricoprono il ruolo o svolgono la professione in questione.

Altre alternative proposte da lettori e lettrici sono l’uso di supervisore come nome di genere comune, accompagnato da articoli e altri elementi in accordo al femminile, per es. in contesti come “la mia nuova supervisore”. Questo uso mi trova personalmente in disaccordo, in quanto il suffisso ‑sore è nella mia sensibilità linguistica decisamente maschile. Tuttavia è stato proposto da alcuni, per esempio da Luciano Satta, che scrive:

Per i nomi in ‑sore, fatta salva la professoressa, [...] forse non sarebbe male, per il femminile, ascriverli alla categoria dei nomi in ‑e, con tanto di articolo femminile, come la prefata preside: a noi sembra che non ci sia niente di male a dire “la nota incisore”, pur se in realtà avvertiamo qualcosa che non torna. (Satta 19742, p. 149)

Lo stesso Satta, dunque, si dichiara dubbioso, avvertendo “qualcosa che non torna”. La causa di ciò che “non torna”, a mio parere, è la contraddizione tra il valore inerentemente maschile del suffisso ‑sore e il sesso femminile del referente. Tutto torna, invece, se si usa un femminile in ‑sora, come appunto supervisora.

Infine, mi pare valga la pena di segnalare che due usi delle voci supervisore e supervisora ricordati nei quesiti posti non sono trattati con accezioni proprie nei dizionari, ma forse meriterebbero di esserlo. Si tratta dell’uso in didattica, dove la forme si riferiscono a chi dirige un lavoro di tirocinio o di ricerca, come una tesi di dottorato, e dell’uso in psicoterapia e psicoanalisi, dove la supervisione da parte di un o una collega più esperta è parte ineliminabile dell’attività professionale dell’analista.

I dizionari registrano quasi tutti un’accezione tecnica propria della cinematografia, spesso un’accezione tecnica in radiofonia e televisione, e a volte anche altre, ma non queste due accezioni che recentemente si sono affermate nel lessico settoriale della didattica e della psicoterapia.

Nota bibliografica:

  • Lepschy, Lepschy & Sanson 2002: Anna Laura Lepschy, Giulio Lepschy & Helena Sanson. A proposito di -essa, in L’Accademia della Crusca per Giovanni Nencioni, pp. 397-409, Firenze, Le Lettere, 2002.
  • Robustelli 2014: Cecilia Robustelli, Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano. Gi.U.Li.A. Giornaliste, 2014.
  • Sabatini 1987: Alma Sabatini (con la collaborazione di Marcella Mariani e la partecipazione alla ricerca di Edda Billi), Il sessismo nella lingua italiana, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri1987.
  • Satta 19742: Luciano Satta, Come si dice. Uso e abuso della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 19742.


Anna M. Thornton

14 luglio 2023


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