Lasceremo, non lascieremo, perdere quella i

Sono davvero molti i lettori che ci chiedono se nelle forme del futuro o del condizionale di verbi come associare, baciare, lasciare, pronunciare, schiacciare… si debba o no mantenere la i prima della desinenza.

Risposta

La risposta ai dubbi dei lettori viene dalla storia delle grafie. In latino la lettera C aveva valore velare anche davanti a vocale palatale come testimoniano senza eccezione i grammatici classici e inoltre lasciano intuire le parole latine passate in lingue come il greco, il germanico, il basco, ecc. (nelle quali il suono velare è sempre conservato). Solo dopo il terzo secolo dell’era volgare comincia a farsi strada l’intacco di C davanti alle vocali palatali, inizio di un processo che ha avuto esisti diversi nelle varie lingue romanze e in italiano ha portato alla nascita dell’affricata palatale sorda /ʧ/, fonema inesistente in latino. Per questo fonema agli scriventi dei primi secoli si pose il problema di inventare (se così possiamo dire) un’adeguata strategia di rappresentazione grafica.

Dopo molte oscillazioni che caratterizzarono i sistemi grafici degli antichi testi italiani, la soluzione prevalente (poi divenuta generale) fu la seguente: ci (con aggiunta di una i diacritica) davanti ad a, o, u (ciabatta, ciò, ciuco); la semplice c davanti a e, i (cena, cigno). Il sistema grafico non è perfettamente coerente perché c rappresenta anche l’occlusiva velare sorda /k/, come in casa, colle, cubo. La cosa non deve stupire, i sistemi delle lingue reali possono avere carattere di antieconomicità e di polifunzionalità, senza perdere di efficacia.

La stessa condizione riguarda la lettera G, essa pure in latino aveva sempre valore velare. Per rendere il “nuovo” suono italiano della affricata palatale sonora /ʤ/ si è fatto ricorso alla grafia gi (con i diacritica) davanti ad a, o, u (giada, gioco, giugno); alla semplice g davanti a e, i (gelo, giro). Come già abbiamo visto a proposito del duplice valore fonetico che assume nella grafia c, il segno g rappresenta anche l’occlusiva velare sonora /ɡ/, come in gatto, gola, gufo.

Il processo che ha portato alla individuazione di grafie idonee a rappresentare il suono della costrittiva palatale sorda /ʃ/ (anch’esso inesistente in latino) presenta analogie rispetto quanto abbiamo già visto: sci (con i diacritica) davanti ad a, o, u (sciame, sciocco, sciupio); sc davanti a e, i (scena, scimmia). In linea generale, processi di neoconiazione (con consistenti oscillazioni) rispetto all’alfabeto latino si verificano nell’italiano (come nelle altre lingue romanze) quando si tratta di rappresentare graficamente fonemi innovanti rispetto all’inventario fonematico della lingua latina, vale a dire non dotati di una rappresentazione grafica tradizionale, consolidata nel tempo e tendenzialmente stabile. Oltre quelli già visti, anche /ʎ/, /ɲ/, /ts/.

Luca Serianni nella Grammatica storica (Serianni 1988 e successive, I.143) osserva che la norma va soggetta a oscillazioni nell’uso e la i può trovarsi nei plurali dei nomi in -cia e in -gia (camicie, valigie), nelle 4e persone dell’indicativo e del congiuntivo dei verbi in -gnare (sogniamo) e nella 5a persona del congiuntivo (sogniate, contro sognate indicativo). Piuttosto diffuse le forme senza i, più conformi alla fonetica, anche se sacrificano, nella scrittura, la riconoscibilità delle desinenze verbali -iamo, -iate. A tal proposito, Nicoletta Maraschio, nel n. 4 (aprile 1992) della rivista “La Crusca per voi”, p. 11, giudica accompagnamo e guadagnamo forme “altrettanto plausibili” di accompagniamo e guadagniamo, nelle quali la i è un “semplice contrassegno morfologico e non ha alcuna rilevanza fonetica”.

Per concludere. A rigore, nei casi discussi, quelli da cui siamo partiti per rispondere alle domande dei lettori e altri via via esaminati, la i diacritica va usata davanti ad a, o, u, non quando alla consonante segue e (improponibile la sequenza di due i). Operando questa scelta, ci mostriamo consapevoli della storia della nostra lingua, senza che la funzionalità della comunicazione scritta venga minimamente intaccata (anzi ne risulta accresciuta). Nei testi che aspirano a una certa formalità tale regola andrebbe rispettata; anche nella scuola, se il docente ha l’accortezza di unire sempre alla enunciazione della regola una succinta spiegazione delle ragioni linguistiche della stessa. Senza oltranzismi, nella consapevolezza che l’uso accoglie oscillazioni di vario genere.

Rosario Coluccia

17 luglio 2024


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