Le botteghe “scadute”

Sono stati posti alla Consulenza della Crusca alcuni quesiti relativi alla parola bottega ai quali cercheremo di dar risposta: se la parola, rispetto a negozio, abbia oggi una connotazione negativa e quali siano le sue accezioni; che cosa vuol dire “camminare con i piedi a guardabottega”, come si legge nel libro di Angela Terzani Staude, Giorni cinesi (Milano, Longanesi, 1987, p. 151); se il termine retrobottega sia maschile o femminile.

Risposta

La parola bottéga (dal greco apothéke) è attestata nei volgari italiani del Medioevo col significato di ‘magazzino’ e poi con quelli di ‘negozio in cui si vendono merci’ e di ‘officina di artigiano’. L’espressione andare a bottega, fin dal Trecento, indicava appunto l’‘imparare un mestiere’. Nel Rinascimento con bottega si intese anche il laboratorio di un artista frequentato da allievi: “ordinò con Lionardo, che e’ dovesse andare a bottega di Andrea [Verrocchio]” (Giorgio Vasari, Vite dei più eccellenti architetti pittori et scultori italiani…, 1550). A questi valori concreti subito si affiancò anche il significato traslato di ‘commercio, affare’, da cui l’espressione far bottega ‘far guadagno’: “molti fecero bottega con infiniti miraculi finti” (Leonardo, Trattato della pittura).

Tali accezioni, tranne l’ultima, si son mantenute sino ad oggi. Ed è sempre stato chiaro che la bottega è un luogo dove fondamentalmente si fa commercio. Lo sottolinea Tommaseo, confrontando bottega con officina nel Dizionario dei sinonimi (1838):

Nell’officina si fabbricano le manifatture; nella bottega stanno in deposito, a vendere. Officina del fabbro, del macchinista; bottega di merciaio, di gioielliere. Bottega, nell’uso comune, anco quella dove lavora il sarto, il legnaiuolo, il vetraio, ec.: l’atelier dei francesi; ma il luogo dove si vende, non si direbbe mai certamente officina. | Officina, da facio, indica per sé il luogo, dove l’artiere e l’artigiano lavora: nella bottega, l’artiere, il mercante, il negoziante, il rigattiere, il barullo vende. La bottega può essere portatile, non l’officina.

Ma nel corso dei secoli, e specie in epoca moderna, per indicare il ‘locale dove si vendono merci’, si ebbero vari altri sinonimi o quasi sinonimi, come esercizio, magazzino (dal sec. XVI), negozio (dal sec. XVII), bazar, emporio, grandi magazzini, rivendita, spaccio, vendita (sec. XIX), boutique, casa, centro, minimarket, supermercato, ecc. (sec. XX). Alcuni di questi termini hanno impieghi, significati, sfumature particolari che non corrispondono sempre o del tutto con quelli di bottega: ad es. boutique, che non è altro che la forma francese di bottega, indica un ‘elegante negozio di abiti e accessori di moda’. Si può comunque dire che, nel loro insieme, tali denominazioni hanno finito per far terra bruciata intorno alla voce più antica, la quale, come talora succede, era andata incontro a un processo di logoramento, scadendo vieppiù di tono come oggi è ben evidente.

Si considerino a questo proposito i nomi degli esercizi commerciali di carattere generico nelle nostre città: ci si può ancora imbattere in qualche residuale “Bottega” (che magari sottolinea la cosa: “Antica Bottega”), ma quelle che attualmente vanno per la maggiore sono altre denominazioni, persino assai stravaganti, come “Accademia del formaggio” o “Boutique della pasta fresca”. Invece i nuovi esercizi che portano nell’insegna bottega, sorti come funghi in questi ultimi decenni, riguardano prevalentemente le accezioni più nobili ed esclusive del termine, ovvero quelle relative a laboratori d’arte, di moda o d’artigianato, come l’azienda di accessori di lusso “Bottega Veneta”, che prese avvio nel 1966. Una restrizione che viene quasi sempre marcata da una specificazione aggiuntiva: bottega artigiana XY, bottega d’arte YZ; specificazione che può riguardare anche singoli settori: bottega musicale, bottega orafa, bottega di restauro, ecc. Insomma, oggi il semplice termine di bottega per indicare il negozio del verduraio o del merciaio non è certo scomparso, ma ha un tono dimesso o popolare; mentre il derivato bottegaio va ancora peggio, forse perché è ormai sentito come un vieto toscanismo, forse perché è passato e ripassato nei tritatutto delle ideologie.

Lo scadimento semantico e connotativo di bottega (e di bottegaio sostantivo e aggettivo), d’altra parte, era cominciato assai presto, dato che già anticamente il commercio al minuto era visto spesso e volentieri, da chi non lo praticava, come un’attività poco onesta: “Ogni bottega ha la sua malizia”, recita il proverbio (Giuseppe Giusti, Raccolta di proverbi toscani, Firenze, Felice Le Monnier, 1853, p. 177). Ce lo conferma il tono svalutativo di certi modi di dire, come il già citato far bottega: “Lucro di cose, segnatamente ove meno si converrebbe. Far bottega delle cose sacre. – Della giustizia. – Dell’ingegno”, si legge nel dizionario Tommaseo-Bellini. Uso spregiativo di bottega e bottegaio fecero, parimenti, diversi scrittori, ad esempio lo stesso Giusti, che, satireggiando l’“aristocrazia della borsa” nella Vestizione (1839), scrisse: “Si vedrà dunque un figuro, | nato al fango e al letamajo, | intorbare il sangue puro | col suo sangue bottegajo?”. O come il Doni e l’Aretino, che nel Cinquecento con bottega allusero metaforicamente, e con ben poco riguardo, al sesso delle donne. Più di recente, sempre sulla stessa linea, bottega si è usata e si usa familiarmente per indicare la patta dei pantaloni quando resta aperta.

Per di più sul versante politico-ideologico degli ultimi due secoli, nel linguaggio di radicali, socialisti e comunisti, bottega e bottegaio son diventati termini di battaglia per simboleggiare lo spirito e l’agire degli esecrati borghesi e piccolo-borghesi: “lasciate a Luigi Filippo il vanto della politica bottegaia”, dice Guerrazzi in un discorso del 1860 (Scritti politici, Torino-Milano, Guigoni, 1862, p. 651). Karl Marx, nel suo Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (trad. it., Milano, Uffici della Critica Sociale, 1896, p. 54), così scriveva:

Niuno aveva combattuto nelle giornate di giugno [1848] pel salvataggio della proprietà e il ristabilimento del credito con maggior fanatismo dei piccoli borghesi – caffettieri, trattori, mercanti di vino, piccoli negozianti, merciaioli, artigiani, ecc. – La bottega [in ted.: die Boutique] aveva ripreso fiato ed era marciata contro la barricata, a fine di ristabilire la circolazione, che mena dalla strada alla bottega. […] E allorquando, atterrata la barricata, schiacciati gli operai, i guarda-botteghe [in ted.: die Ladenhüter], briachi di vittoria, si rovesciarono indietro nelle loro botteghe, ne trovarono barricato l’ingresso da un salvatore della proprietà, da un agente ufficiale del credito.

E Gramsci, in una cronaca sull’“Avanti!” del 30 aprile 1919 parla di «concetto borghese e bottegaio dell’“onore”, che nella società capitalista si compra e si vende come una merce qualunque».

In una società aliena da pregiudizi, astio e risentimenti, bottega e bottegaio dovrebbero essere parole prive di connotazioni negative, perché né il luogo né il mestiere sono meno onorevoli e utili di tanti altri. Ma, come si è visto, per un complesso di svariati fattori, ha preso avvio un processo svalutativo difficilmente contenibile. Tanto che le uniche “botteghe” che oggi si salvano, quelle artigianali e artistiche, in fondo non sono più delle vere botteghe volte al commercio, ma officine, scuole, laboratori, atelier, show-room e chissà cos’altro.

Con tutta evidenza i piedi a guardabottega indicano il modo di tenere i piedi con le punte divaricate come avviene quando si sta fermi a guardare una vetrina, o quando una guardia, chiamata a vigilare una bottega, sta tutto il tempo impalata davanti alla porta (l’espressione gergale americana flatfoot, da cui il calco piedipiatti ‘poliziotto’, si riferisce probabilmente a ciò). Naturalmente se si cammina coi piedi divaricati, come fanno coloro che hanno i piedi piatti, si procede in modo poco elastico, poggiando il tallone e insieme la pianta. Il camminare coi piedi a guardabottega assomiglia quindi a quello di certi pagliacci da circo o di certi attori comici quando vogliono far ridere. Forse anche per questo il maggior autore e attore comico latino ebbe il suo celebre cognomen, secondo quanto scrive Festo: “Plotus appellant Umbri, pedibus palnis natos […]: Maccius poeta, quia Umber Sarsinas erat, a pedum planitie initio Plotus, postea Plautus coeptus est dici”.

Il composto verbale guardabottega o guardabotteghe, che andrebbe a pennello per le guardie giurate e i vigilantes degli odierni negozi di lusso e centri commerciali, è invece d’uso piuttosto raro, tanto che per trovarne esempi scritti bisogna frugare col fuscellino. E da quel che ho potuto appurare, attualmente non risulta conosciuto fuor di Toscana. In origine, come si è visto nel brano di Marx citato qui sopra, avrà indicato ‘chi fa da guardia a una bottega’. Ma il termine si prestava anche ad essere inteso in un senso più ironico, alludendo a ‘chi guarda in una bottega senza comprar niente’, in modo analogo al consimile impaccia botteghe ‘perditempo’ registrato nel Tommaseo-Bellini.

Da questa accezione scherzosa di ‘chi non compra la merce esposta’, per metonimia, il composto passò a indicare la ‘merce che non si vende’. Nel Dittionario reale tedesco-italiano di Matthias Kramer (Norimberga, Endter, 1700-1702), guarda-bottega è posto come traducente di Laden-hüter, con a fianco proprio tale accezione specifica di “Roba vecchia, inspacciabile”. Che non si tratti di significato occasionale è confermato da un lessico plurilingue stampato a Norimberga nel 1786, nel quale a fianco delle corrispondenti espressioni romanze (de la garde boutique, della guarda bottega, guarda tienda), si trova il tedesco verlegene Waare ‘giacenze’, l’inglese a commodity that will not go off e il latino merx attrita. Mentre il tedesco Laden-hüter, nel senso di ‘resto di magazzino’, si è continuato a usare ed è registrato ancor oggi nei vocabolari, per l’Italia si può indicare il regionale guarda botega, “Fondaccio di bottega. Diconsi le ciarpe, toppe, scampoli, soppanni e simili” nel Gran dizionario piemontese-italiano di Vittorio Di Sant’Albino (Torino, Società l’Unione Tipografico-Editrice, 1859): ma oggi tale accezione non appare più viva.

Un diverso impiego di guarda botteghe per indicare, con estensione di significato, ‘ciò che protegge una bottega’ lo si rinviene in una delle denominazioni popolari dell’alcione o martin pescatore, fra quelle registrate nei lessici ornitologici dell’Ottocento. Come ci si fosse arrivati lo aveva spiegato Buffon, parlando dell’uccello-pescatore nella Storia naturale (trad. it., Venezia, Antonio Zatta, 1790, tomo XIII, p. 223): “Si attribuisce a quest’uccello disseccato la proprietà di conservare i drappi di lana, allontanandone le tarme; perciò i mercanti lo tengono appeso ne’ loro fondachi”, soggiungendo in nota: “Donde gli è pervenuto l’antico nome d’artre, o atre, che gli dà il Bellon, e che significa tarma, come per antifrasi uccello tarma, e quelli di drappiere, e di guarda bottega”.

Il genere di retrobottega oscilla fra il femminile e il maschile, sebbene quest’ultimo sia di gran lunga prevalente. L’oscillazione è dovuta al diverso modo d’intendere la natura della formazione. Infatti il prefisso retro- indica non solo un movimento all’indietro (retrocessione, retropassaggio), ma, con un oggetto esteso nello spazio, una posizione o arretrata o retrostante. Quando indica una posizione arretrata abbiamo un derivato endocentrico (la sua “testa” è ancora il centro della formazione): dunque la retrocopertina è ‘la copertina di dietro’, la retroguardia è ‘la guardia che sta indietro’: in questi casi il genere è quello del sostantivo di base, ossia della “testa”. Quando invece indica una posizione retrostante all’oggetto, il derivato è esocentrico e il genere può esser diverso da quello della base; di solito, alludendo a un generico ‘luogo’, è maschile: il retroterra ‘il territorio che sta dietro una città o una terra’. In qualche caso la compresenza dei due generi può servire a distinguere un’accezione dall’altra: la retroscala è ‘la scala di dietro’, il retroscala ‘lo spazio dietro alla scala’; la retroscena è ‘la scena che sta dietro, la parte arretrata del palcoscenico’, il retroscena è invece ‘ciò che è dietro la scena’ e, metaforicamente, l’‘intrigo’ (su quest’ultimo termine cfr. Paolo D’Achille, Domenico Proietti, Parole del (e dal) palcoscenico, in L’italiano sul palcoscenico, a cura di Nicola De Blasi e Pietro Trifone, Firenze, Accademia della Crusca-goWare, 2019, pp. 163-176: pp. 168-170).

Anche per retrobottega (come per retrocucina, retrostanza e simili) si tende a indicare col femminile la ‘parte interna del locale’ e col maschile il ‘locale retrostante’. Se prevale il maschile è perché il retrobottega è effettivamente un ambiente – magazzino o laboratorio – situato dietro alla bottega; per di più si tratta spesso di uno sgabuzzino piccolo e chiuso, mentre la bottega è più ampia e aperta sulla strada. E quando c’è da distinguere fra maschile e femminile, come generi grammaticali, si tien conto anche di tali concetti cavati dall’esperienza: una stanzina femminile è sempre più ariosa e accogliente del maschile stanzino.


Massimo Fanfani

11 luglio 2025


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