L'elasticità di resilienza

Alcuni nostri lettori ci chiedono chiarimenti sull’origine, il significato, la grafia e la pronuncia del termine resilienza

Risposta

L’elasticità di resilienza

Con il significato di ‘capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi’, la parola resilienza ha guadagnato, negli ultimi anni, una sorprendente popolarità, tanto improvvisa da favorirne la percezione come di un calco dall’inglese. Il termine, in realtà, era già presente nel vocabolario italiano, anche se il suo uso e il suo significato – prettamente tecnici –  si celavano ai non specialisti. In fisica e in ingegneria resilienza indica la capacità di un materiale di resistere a un urto, assorbendo l’energia che può essere rilasciata in misura variabile dopo la deformazione. È probabile, tuttavia, che la lingua inglese abbia effettivamente giocato un ruolo nel rilancio della parola negli usi correnti, in virtù di un processo che ha come tramiti la ricerca e la divulgazione scientifica, e sfrutta la rete come cassa di risonanza (ambiti, entrambi, in cui l’inglese è la lingua franca).

Come molti vocaboli scientifici, resilienza ha un’origine latina: il verbo resilire si forma dall’aggiunta del prefisso re- al verbo salire ‘saltare, fare balzi, zampillare’, col significato immediato di ‘saltare indietro, ritornare in fretta, di colpo, rimbalzare, ripercuotersi’, ma anche quello, traslato, di ‘ritirarsi, restringersi, contrarsi’ (Oxford Latin Dictionary, Fascicle VII, a cura di P. G. W. Glare, Oxford University Press 1980, traduzione nostra). Resilientia, resiliens restituiscono dunque inizialmente il senso di un’esperienza quotidiana non specialistica, e si dicono di oggetti che rimbalzano, o, in senso esteso, di chi batte in ritirata o si ritrae d’improvviso. Nel passaggio dal latino all’italiano, i termini hanno mantenuto una forma quasi inalterata (resilientia > resilienza, resiliens > resiliente); tuttavia, come nota una nostra lettrice, il Grande Dizionario Hoepli Italiano e una sporadica presenza sulla rete segnalano l’esistenza delle varianti meno comuni resilenza e resilente. La presenza della -i- prima del suffisso non è infatti un esito univoco nei participi e sostantivi derivati da verbi i cui antenati latini uscivano in -īre: quella del participio presente in -ente (e del sostantivo in -enza) è una semplificazione possibile nella lingua, realizzata, per attrazione con i deverbali della seconda e della terza coniugazione, in alcuni casi anche in compresenza degli standard in -iente e -ienza, appartenenti a un registro mediamente più alto (udire > udente, ma udienza; servire > servente e inserviente). Per quanto riguarda la pronuncia, per resiliente e resilienza il DOP indica la -s- sorda. La scelta è dovuta al fatto che essa si trova al confine tra morfemi e dunque mantiene la pronuncia che avrebbe all'inizio di parola (per cui in resiliente la -s- è uguale a quella di saliente). Ciò non impedisce che, nel parlato, il collegamento con la base si oscuri e la pronuncia della s subisca una sonorizzazione (fenomeno d'altra parte comune a molte consonanti in posizione intervocalica).

Contrariamente a quanto avviene per il sostantivo e il participio-aggettivo, del verbo latino resilire non abbiamo continuazioni in italiano; il francese e l’inglese hanno invece a disposizione rispettivamente resilier e to resile, entrambi derivati da un medio francese resiler ‘ritirarsi’, ‘saltare indietro’, ‘rinunciare’, ‘contrarsi’.

Nel corso dei secoli e del progredire del pensiero scientifico occidentale – che, ricordiamo, è stato prevalentemente espresso in latino fin oltre il Seicento – l’aggettivo resiliens ha indicato sia il rimbalzare di un oggetto, sia alcune caratteristiche interne legate all’elasticità dei corpi, come quella di assorbire l’energia di un urto contraendosi, o di riassumere la forma originaria una volta sottoposto a una deformazione. Entrambe le accezioni di resilientia sono registrate, all’inizio del XVIII secolo, nel Lexicon Philosophicum di Stephanus Chauvin: la prima, legata all’esperienza quotidiana; la seconda, più tecnica, legata all’ipotesi di un anonimo “insigne filosofo”.

Est regressus, aut reditus corporis alteri allidentis. Cuius reditus causam vir illustris repetit ex eo, quod paries v. g. cum non opponatur motui pilae, sed solum ulterior eius progressui, non impedit quin moveatur, sed solum quin alterius progrediatur: unde corpus allidens parieti, pila puta, regreditur seu resilit. Nuper aliam causam assignavit insignis philusophus. Nempe supponit (quod subindo non uno probat experimento) corporibus omnibus inesse vim elasticam, id est, qua non modo suae figurae tenacia sunt, sed etiam cum ab ea dimota fuerint, in illam sese restituunt, tanto majori impetu, quanto fortior fuit ille quo dimota sunt. (Lexicon Philosophicum secundis curis Stephani Chauvini, 1713)

['È il regresso, o il ritorno di un corpo che ne urta un altro. Un uomo illustre riconduce la causa di tale regresso a questo: che un muro (per esempio), non opponendosi al moto di una palla, ma solo al suo progredire oltre, non impedisce che si muova, ma soltanto che vada più avanti: dunque il corpo che urta il muro, la palla per esempio, torna indietro, cioè rimbalza [resilit]. Recentemente un insigne filosofo ha stabilito un’altra causa. Suppone, appunto (e lo prova adducendo diversi esperimenti), che tutti i corpi siano dotati di una forza elastica, per la quale non solo essi mantengono la propria forma, ma la ristabiliscono anche una volta che ne sono stati allontanati, con tanta maggiore forza quanto maggiore è stata quella ad opera di cui sono stati deformati'.]

La presenza del termine in un’opera lessicografica specialistica rappresenta una spia di quanto, tra il XVII e il XVIII secolo, la comunità scientifica si sia servita dei concetti ad esso associati: una testimonianza ulteriore e diretta è costituita da una traduzione latina seicentesca delle lettere di Cartesio, nella quale resilientia e resilire compaiono in uno scambio con Mersenne in luogo dell’originale francese rebondir ‘rimbalzare’. Resilientia qui indica una proprietà fisica, posseduta da quasi tutti i corpi, in grado di rendere possibile il rimbalzo degli oggetti e il riflettersi dei suoni (René Descartes, Epistolae: Partim ab Auctore Latino sermone conscriptae, partim ex Gallico translatae, vol. II, Londra 1668, p. 370, lettera 110 a Mersenne; la lettera francese originale è del 25 febbraio 1630).

Per quanto il termine rimbalzi da un pensatore all’altro, tuttavia, restano in parte ambigui il suo significato e il suo uso, sospesi tra l’esperienza prescientifica e scientifica, e la modalità di espressione, ancora legata al latino, ma a poco a poco pronta a distaccarsene: in questo processo l’inglese è la prima lingua in grado di appropriarsi del concetto veicolato da resilientia, ereditando la forma resilience già agli inizi del Seicento (Francis Bacon descrive la capacità dell’eco di “tornare indietro” come resilience, cfr. Sylva Sylvarum, 1626, §245).

 

Le prime occorrenze italiane di resilienza e resiliente, rintracciabili nel XVIII secolo, documentano, in modo simile, termini nei quali ancora è impresso un significato vago: resilienza è “termine de’ filosofi” e significa “regresso, o ritorno del corpo, che percuote l’altro” (G. P. Bergantini, Voci italiane d’autori approvati dalla Crusca, nel Vocabolario d’essa non registrate, Venezia 1745), ma inizia anche a indicare una proprietà interna ai corpi, che diventa lentamente possibile ascrivere non solo a oggetti che respingono rimbalzando, ma anche alle parti di cui sono composti. Lo suggerisce l’uso di Antonio Genovesi, sacerdote, economista, filosofo e scienziato napoletano: “Come ne’ corpi fisici, essendo tutte le parti, per esempio, della terra, attive, senza una cagione prementele e mantenentele dell’unione, ella diverrebbe un mucchio di arena, le cui parti sarebbero corpicelli resilienti.” (Antonio Genovesi, Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile, ante 1769). In altri passi della stessa opera Genovesi trasferisce la caratteristica meccanica della resilienza a qualcosa di umano, come le passioni, descrivendole come caratterizzate da una certa elasticità “respingente” (“Quella forza deve essere non solo direttiva, ma coattiva altresì; perché la sola forza direttiva, per la nostra uguale ignoranza, per la ritrosia della nostra natura, e per la forza elastica e resiliente delle passioni, non basta per unirci e mantenerci concordi, almeno per lungo tempo”); egli testimonia così indirettamente sia la propensione filosofica e scientifica ad attribuire alle passioni caratteristiche fisiche, sia la plasticità del termine di cui ci occupiamo, che già nel XVIII secolo è possibile riferire a un meccanismo psichico.

Le poche altre attestazioni scritte di resilienza e resiliente lasciano presentire la loro difficoltà di affermazione, forse imputabile allo status di tecnicismi che essi hanno acquisito nel corso dei secoli. Sul GDLI ai primi usi settecenteschi seguono soltanto, dopo una lunga pausa, un’apparizione giornalistica pubblicitaria che rimanda alle proprietà elastiche di una superficie (“Il Prealino è il pavimento resiliente che costa meno, non si deve lucidare mai e dura sempre”, Oggi, 1954, 6, V, p. 33) e una letteraria, il cui senso è legato all’esperienza del respingere (resiliente, per Primo Levi, indica un corpo capace di allontanarne un altro: “Schiacciata sotto il peso del corpo mascolino, Line si torceva, avversario tenace e resiliente, per eccitarlo e sfidarlo” (Primo Levi, Se non ora, quando?, 1982, p. 139). La familiarità dell’italiano con resilienza è senza dubbio minore rispetto, per esempio, all’inglese, nel quale abbondano le occorrenze letterarie storiche, certo sorrette dall’esistenza del già citato non specialistico to resile ‘respingere, rinunciare, ritirarsi, contrarsi’, dalla forte tradizione anglosassone di divulgazione scientifica, e, non ultima, da una precoce presenza sui giornali (nel senso psicologico di ‘spirito di adattamento’ resilience compare nell’Independent di New York già nel 1893: “The resilience and the elasticity of spirit which I had even ten years ago” (Oxford English Dictionary, www.oed.com).

Tutto questo vale fino a qualche anno fa. L’esplodere di un uso più disinvolto di resilienza si data intorno al 2011: da allora il sostantivo – insieme al corrispondente aggettivo resiliente – circola sui media cartacei e digitali, cavalcando la particolare attrattiva “metaforica” che è in grado di esercitare. In fisica resilienza è la capacità di un materiale di assorbire energia se sottoposto a deformazione  elastica; l’esempio più semplice è quello delle corde della racchetta da tennis che si deformano sotto l’urto della pallina, accumulando una quantità di energia che restituiscono subito nel colpo di rimando. Il contrario della resilienza è la fragilità, che caratterizza invece materiali dotati di carico di elasticità molto prossimo alla rottura. Resilienza non è quindi un sinonimo di resistenza: il materiale resiliente non si oppone o contrasta l’urto finché non si spezza, ma lo ammortizza e lo assorbe, in virtù delle proprietà elastiche della propria  struttura.

Da qui, una relativa stabilizzazione del significato e il proliferare delle estensioni: in ecologia, resiliente è una comunità (o un sistema ecologico) capace di tornare velocemente al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione (Enciclopedia Treccani); nell’ambito tecnico della produzione dei tessili, resiliente indica un tessuto capace di riprendere la forma originale dopo una deformazione, senza strapparsi (GRADIT); in psicologia, la capacità di recuperare l’equilibrio psicologico a seguito di un trauma, l’adattabilità.

Il primo accenno giornalistico alla resilienza compare nel 1986 in un articolo dedicato a Sam Shepard. Del commediografo statunitense si descrivono i personaggi, sorprendentemente capaci di sostenere le sollecitazioni violente cui sono sottoposti: “Magari si piegano – un po' – alle necessità della vita. Ma non si spezzano”; in una parola, presa questa volta in prestito dall’inglese, sono “resilient” (“La Repubblica”, 19 febbraio 1986). Dei corrispondenti italiani si riscontra un uso più disinvolto a partire dagli anni Novanta: risultano resilienti il mercato giapponese (“La Repubblica”, 24 agosto 1990), le scarpe da corsa (“La Repubblica”, 23 novembre 2000), lo spirito di chi affronta le conseguenze del passaggio dell’uragano Katrina (“La Repubblica”, 27 settembre 2005). È in questo ultimo senso che resilienza e resiliente vivono la loro recente fortuna tra i parlanti. Oltre alle attestazioni giornalistiche (225 sulla “Repubblica” dal 1984 a oggi; 72 sul “Corriere della Sera” dal 1992 a oggi), è la molteplicità delle occorrenze sulla rete che ne suggerisce il successo: Google Italia restituisce circa 430.000 risultati per resilienza e 130.000 per resiliente. Il termine sembra esercitare un fascino particolare in relazione al momento storico e sociale attuale; Federico Rampini sulla “Repubblica” del 23 gennaio 2013 commenta l’uso di resilience del presidente Obama auspicando per l’Italia l’uscita dalla recessione economica  sotto l’esempio dell’America resiliente; Stefano Bartezzaghi la definisce “parola-chiave di un’epoca”, sottraendola al rapido declino cui sarebbe destinata in quanto semplice “parola alla moda”. Resilienza assume un valore simbolico forte in un periodo in cui l’accesso interpretativo più frequente alla condizione economica, politica, ecologica mondiale è fornito da un’altra parola, crisi: lo spirito di resilienza rappresenta la capacità di sopravvivere al trauma senza soccombervi e anzi di reagire a esso con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale.

 

A cura di Simona Cresti
Redazione Consulenza Linguistica
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12 dicembre 2014


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