Ci sembra significativo in questa settimana, in occasione delle celebrazioni dei 150 anni di unità d'Italia, riproporre la risposta di Maurizio Vitale al quesito proposto da Edera Stritzel di Rapallo, apparsa sul n. 3 (ottobre 1991) della nostra rivista La Crusca per voi.
Lingua nazionale: le ragioni del fiorentino
«Desidererei sapere se al momento di basare la lingua italiana su un dialetto italiano fu in ballottaggio oltreché il fiorentino anche la lingua veneta.
È pacifico che ogni dialetto avrebbe potuto, in linea generale e teorica, assurgere in Italia alla funzione e alla dignità di lingua nazionale, ossia essere adottato come lingua ufficiale da tutti i parlanti quale che fosse la loro parlata originaria. E ciò, in particolare, per due ragioni. La prima, perché ogni dialetto possedeva (specie nei tempi della loro maggiore vitalità) tutte le qualità di una lingua come strumento sociale e intellettuale; già il Manzoni osservava che "i dialetti [...] hanno tutti di necessità ciò che ci vuole a produrre l'effetto che realmente producono, cioè una continua e piena e regolata conversazione umana; hanno più o meno modi di significare [...] secondo che servono ad una più o men ristretta, più o men colta società". La seconda, perché nessun dialetto poteva vantarsi di avere in sé potenzialità linguistiche peculiari che lo rendevano il solo idoneo a svolgere i compiti propri di lingua di una nazione; il Parini, in piena polemica antidialettale, ingegnosamente e giustamente scriveva che "le lingue [...] sono tutte indifferenti per riguardo alla intrinseca bruttezza o bontà loro".
Alla luce di queste considerazioni, il dialetto veneziano di città del Due-Trecento avrebbe avuto teoricamente la possibilità, al pari di altri dialetti, di iniziare a porsi, nei primi secoli della nostra storia civile, come lingua della cultura e della società nazionale. Ma la formazione di una lingua nazionale, quando non sia determinata da ragioni politiche (la formazione di uno stato unitario, come ad esempio in Francia) o sociali o di altro genere, ma da ragioni strettamente culturali e letterarie prima di una unità statuale, come è stato in Italia, presuppone la presenza di altissimi scrittori che con il prestigio ineludibile delle loro opere impongono il loro dialetto a tutti gli altri parlanti. E Venezia non ebbe, come invece Firenze, né Dante né Petrarca né il Boccaccio, per citare solo i sommi. Non solo; ma, negli incunaboli della civiltà letteraria veneziana, poeti e scrittori veneziani si pongono subito ad ammirare e a venerare gli auctores fiorentini e a imitarne la lingua, sforzandosi di toscaneggiare la propria parlata (si ricordino almeno Giovanni e Nicolò Quirini). In questo senso, quindi, già a partire dal Trecento, il dialetto veneziano, che conoscerà una gloriosa e mirabile vitalità negli usi non soltanto civili e sociali, ma altresì letterari (si pensi al Goldoni, al Lamberti, al Buratti e a tanti altri) resterà nell'ambito circoscritto di un dialetto particolare (e raffinato nell'impiego civile in senso toscano) rispetto alla lingua toscofiorentina avviata a divenire lingua della nazione.
Maurizio Vitale
Piazza delle lingue: Lingua e storia
8 aprile 2011
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