Alcuni lettori chiedono se siano corrette espressioni in cui troppo è riferito a un comparativo, come troppo migliore, troppo meglio e simili.
Credo che sia istruttivo rispondere alle domande dei nostri lettori su troppo seguito da comparativo (meglio, peggio, migliore, peggiore ecc.) adducendo subito alcuni esempi dagli autori del cosiddetto “buon secolo” della lingua, il Due-Trecento, ricavati dal Corpus OVI:
per lo temperato mangiare sta il corpo troppo meglio (Giordano da Pisa);
quanto è più matto e fuori di senno … (chi) abandona la compagnia di vita eterna di quella nobile corte, ne la quale lo imperio di Roma è meno che un orto… e le vivande troppo peggio che ghiande (Novellino);
e sì se’ tu troppo migliore e più savio di me (Novellino);
li ministri… che sono immondi sono in troppo peggiore stato che gli altri (Cavalca);
con troppi maggior colpi che prima (Boccaccio, Decameron);
io mi sento troppo minore l’animo che la doglia (Boccaccio, Filocolo);
ed esser mi parea troppo più lieve (Dante, Purgatorio XII 116);
egli è troppo più malvagio che egli non avvisa (Boccaccio, Decameron).
I passi citati ci attestano senza ombra di dubbio che nell’italiano antico l’avverbio troppo si congiungeva pure al comparativo (anche concordato nel genere e nel numero, e dunque usato come se fosse aggettivo), con un valore oggi perduto che la lingua moderna riserva a molto (tutti i casi riportati possono infatti essere normalizzati secondo l’italiano attuale sostituendo troppo con molto). Ma non solo nei sintagmi comparativi o superlativi (dove più colpisce la nostra attuale sensibilità linguistica) e non solo come avverbio, anche come pronome e aggettivo troppo poteva avere nella lingua antica il valore di molto, come si vede in questi altri due casi, anch’essi del “buon secolo”:
egli sono troppi buoni archieri (Milione);
ne ucisono troppi e ne presero assai (Fatti dei Romani).
Troppo poteva addirittura rafforzare il superlativo assoluto come in
di troppo grandissimo danno (Raineri sardo, testo pisano).
Con questo raggio vario e ampio, troppo, derivato dal francese antico thorp, latinizzato in troppus (è evidente anche la sua parentela con truppa) copriva, in italiano come in francese, il valore sia del latino multum che di nimis. Introduceva, cioè, sia in francese che in italiano e in tutte le sue funzioni grammaticali, due significati: una grande (imprecisata) quantità (multum), che ne consentiva l’aggancio a comparativi, o un eccesso di qualcosa (nimis). Le prime quattro edizioni del Vocabolario della Crusca (la quinta si ferma alla lettera O) li attestano entrambi con eguale dignità. Col tempo, però, come in francese anche in italiano il primo significato si è perduto (ma è sopravvissuto in vari dialetti, come ricorda Rohlfs 1969 § 955) ed è rimasto solo il secondo. In Dante c’è sia Paradiso III 36: “quasi com’uom cui troppa voglia smaga”, dove l’aggettivo vale ‘eccessiva’, sia Inferno VII: “quivi vid’io gente più che altrove troppa”, dove vale ‘numerosa’. Oggi, invece, “c’è troppa gente” non potrebbe essere parafrasato con “molta gente, numerose persone”. L’eccesso (di troppo) non sembra più conciliabile col paragone, che ammette il confronto tra comparabili e non tra elementi così diversi che uno eccede enormemente (appunto troppo!) l’altro.
Troppo non pare oggi neppure compatibile col superlativo assoluto, che non tollera gradazioni. Di qui la cancellazione del suo senso di ‘molto’ nei comparativi e in quello rafforzativo nei superlativi assoluti. Ma l’antico valore di troppo, indicativo di misura genericamente considerevole (non eccessiva), è riemerso nella lingua parlata, in frasi espressive in cui la grande quantità propria di molto è, per così dire, rafforzata, accresciuta, dall’eccesso veicolato da troppo. Una frase come “Giorgio è troppo simpatico / troppo piccolo…” (troppo qui vale ‘eccessivamente, più della media’), dopo essere stata la reggente di una finale-consecutiva cui troppo fa da antecedente (“… per fare la parte del cattivo / per giocare a pallacanestro”), una volta cancellata la dipendente che delimita il campo di ammissibilità della principale, è stata probabilmente reinterpretata come un superlativo assoluto (= “Giorgio è troppo simpatico / troppo piccolo, cioè è simpaticissimo / molto piccolo”) e troppo ridefinito come ‘molto’. Questo valore è ormai diffuso nel parlato: “Giorgio è troppo simpatico! = Giorgio è molto simpatico, è simpaticissimo!”, dove è stato riattivato dal linguaggio giovanile, probabilmente sulla spinta di varietà regionali (milanese, sarda, ecc.).
Per questa via troppo ha in parte ritrovato il perduto significato di ‘molto’ ed è tornato a integrare anche sintagmi comparativi, come quelli segnalati dai nostri lettori e a veicolare (ma non a rafforzare) superlativi assoluti. Possiamo considerarli accettabili oggi? I precedenti storici ci sono tutti; un tempo, quando il Trecento faceva da autorità linguistica, sarebbero forse bastati a legittimarli. Ma non credo che oggi bastino a incoraggiare un uso che, per il momento, connota una scarsa padronanza della lingua, anche se la sua crescente presenza in contesti espressivi (spesso comici, ironici, scherzosi) ne attenua e forse, alla lunga, normalizzerà la devianza, rianimando completamente (o quasi) l’uso antico. Per di più, in rete circolano alcuni (pochi e non raccomandabili) esempi di troppo prima di un comparativo, in contesti non connotati come scherzosi o semicolti, tipo “il diametro del perno è troppo più grande (del foro) per potercelo inserire”, in cui l’avverbio conserva il valore di ‘eccessivamente’ e la frase consecutiva-finale implicita (cui troppo fa da antecedente) integra il secondo termine di paragone. Il più qui è… di troppo, ma quest’altra sua ricomparsa può costituire un’ulteriore spinta alla riemersione di costrutti che si pensava dismessi.
Vittorio Coletti
29 giugno 2022
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