F. L. da Aosta è l'ultima di una nutrita serie di persone che si interrogano sulla terminologia legata al tema della disabilità.
Se lo è chiesto recentemente anche “SuperAbile” – la rivista dell’INAIL dedicata ai temi della “disabilità” – pubblicando un’inchiesta dal titolo “Qual è il modo migliore per definire la disabilità?”
La risposta - come spesso accade quando si trattano argomenti che toccano non soltanto questioni terminologiche, ma anche (e soprattutto) sensibilità individuali e collettive – non è stata univoca. Né univoca è stata l’indicazione di un approccio o totalmente prescrittivo (questo si può dire, questo non si deve dire) o semplicemente descrittivo (questo è quanto). Chiaro però è stato il senso dell’approfondimento, che esula da facilonerie pro o contro il politicamente corretto (a cui spesso viene associato questo tipo di dibattito, soprattutto nel tentativo di liquidarlo velocemente): i termini vanno considerati nel loro insieme, valutando (anche in diacronia) le connotazioni associate a ciascuno, e verificando, di ciascuno, la funzionalità a seconda del contesto.
Sul piano diacronico, varrebbe senz’altro la pena ricordare che è soltanto dai primi anni Settanta – da quando cioè l’inclusione sociale delle minoranze lato sensu è entrata a far parte dell’agenda politica, e finalmente si è infranto il tabu della menomazione (e il dogma della sua medicalizzazione: si veda l’Ivan Illich di Nemesi medica, 1976) – che termini come spastico, mongoloide, cerebroleso ma anche minorato, infelice, fino ad allora usati senza troppe restrizioni per indicare persone affette da gravi deficit fisici o psichici, sono stati avvertiti come inadeguati rispetto all’aggiornamento del dibattito scientifico e sociale, e hanno quindi progressivamente lasciato il posto prima all’iperonimo handicappato (la cui sfera semantica poteva includere situazioni molto diverse fra loro, rischiando di veicolare un’idea di omogeneità artificiosa) e poi, ma solo in certi registri, a portatore di handicap (si veda ad esempio il testo della Legge 517/1977, sull’“integrazione” scolastica di “alunni portatori di handicap”).
L’inglese to handicap – che in italiano ha dato origine prima al verbo handicappare ‘porre in stato di inferiorità’ (così nel Dizionario Moderno del Panzini, citato dal GDLI) e poi al participio con funzione sia sostantivale sia aggettivale handicappato – già attestato nel XVIII secolo, proverrebbe dal gergo delle corse di cavalli (in cui si dava al cavallo più forte uno svantaggio, un handicap appunto, al fine di rendere più equilibrata la gara), che a sua volta avrebbe mutuato il termine dal nome di un gioco d’azzardo diffuso nel XVII secolo (ma c’è chi sostiene che fosse già noto nel XIV secolo), che consisteva nel celare con le mani, all’interno di un cappello, la posta in gioco (di qui hand in cap); proprio alla passione per il mondo dei cavalli e delle scommesse deve d’altronde il suo nome Andy Capp, il celebre personaggio di comics creato da Reg Smythe negli anni Cinquanta del secolo scorso.
In italiano handicap sarebbe entrato come prestito dall’inglese proprio come tecnicismo ippico, e le sue prime attestazioni sarebbero databili alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento (ma occorrerebbe uno spoglio capillare per una datazione più precisa, come dimostra una rapida impressionistica ricerca condotta sul sito web della “Stampa”, da cui si ricava un esempio del dicembre 1880). Nei primi decenni del Novecento, dal linguaggio sportivo la voce sarebbe poi passata ad altri ambiti (“L’interventismo bissolatiano ha handicappato il socialismo di Turati”, scrive Luigi Ambrosini su “La Stampa” del 17 maggio 1920), tra cui quello medico-sociale, con significati oscillanti e non sempre definiti ma comunque basati sull’idea di svantaggio, deficienza, incapacità fisica e mentale (e, di nuovo, varrebbe certamente la pena approfondire questi slittamenti semantici attraverso uno studio attento delle fonti).
Nelle loro accezioni medico-sociali handicap e handicappato (in forma quest’ultimo tanto di sostantivo quanto di aggettivo) sono stati avvertiti come legittimi (e semanticamente neutri) almeno fino agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. Non a caso, ancora nel 1992, la Legge quadro 104 si proponeva di normare “l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”. Tuttavia, durante lo stesso decennio, si è assistito a un significativo avvicendamento tra le coppie handicap/handicappato e disabilità/disabile. Lo si evince non solo dalla stessa giurisprudenza, cui si deve la Legge 68/1999 sulle “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”, ma anche da altre forme di testualità (basta inserire i binomi in un motore di ricerca di un qualsiasi quotidiano nazionale per fare una prima sommaria verifica), che documentano piuttosto chiaramente la novità nel paradigma.
Questa ristrutturazione terminologica – abbastanza recente in Italia - era in atto da tempo, se già nel 1976 le Nazioni Unite proclamano il 1981 “anno internazionale delle persone disabili” (il testo originale inglese recita “disabled people”), con lo scopo di garantire piena partecipazione sociale e uguaglianza economica alle persone “con disabilità” (e a questa iniziativa fa seguito, nel 1982, la risoluzione 37/52 dell’Assemblea Generale dell’ONU, che stabilisce il Programma di azione mondiale riguardante le “persone disabili”).
Ma disabile deve essere apparso – specialmente in registri medio-bassi – come un’opzione artificiosa: dettata più dalla ricezione di modelli altri, e forse da esigenze di “correttezza politica” (è proprio negli anni Novanta, d’altronde, che nel nostro paese esplode il dibattito sul “politicamente corretto”, con toni, a onor del vero, fin troppo affrettati e isterici), che non dall’uso. Di qui la persistenza di handicappato, che infatti – se in inglese è di fatto scomparso dall’uso – in italiano è ancora decisamente diffuso, almeno nelle varietà meno formali.
A disabile si è affiancata, negli ultimi anni, anche l’espressione diversamente abile (da cui il neologismo diversabile, inventato – parrebbe – nel 2003 dal Claudio Imprudente, Presidente dell’Associazione “Centro Documentazione Handicap” di Bologna), il neologismo che si vorrebbe più condizionato dagli sviluppi, non solo in Italia, del “politicamente corretto” (si veda Geoffrey Hughes, Political Correctness, pp. 197 sgg.) e di un discussa quanto eccessiva – nelle parole dei detrattori – rincorsa all’eufemismo. Sui rapporti tra eufemismo e “politicamente coretto” ha scritto pagine ironiche e illuminanti Flavio Baroncelli, nel 1996 (Il razzismo è una gaffe. Vizi e virtù del politicamente corretto), e certamente si è avuta l’impressione di assistere, negli ultimi vent’anni, a innovazioni lessicali dagli esiti spesso incerti (penso non solo al campo semantico della “disabilità”, ma a quello tout court della descrizione dell’alterità: ne scrive con divertito sarcasmo Massimo Arcangeli in Cercasi Dante Disperatamente, pp. 121 sgg). Tuttavia, non credo che la questione si possa liquidare facilmente con la solita formula “non è con nuove parole o definizioni che si attua una politica di pari opportunità”, né con la ridicolizzazione di certi (indubbi) eccessi, come l’anglo-americano phisically challenged come opzione non offensiva per riferirsi a una persona di bassa statura.
La ridefinizione del paradigma può essere indice non soltanto di mode condizionate esclusivamente da fattori extralinguistici (la “correttezza politica”, appunto) ma anche della percezione del logoramento semantico di alcuni termini, il quale richiede o restrizioni di significato, o alternative lessicali più chiare e precise (siano esse neologismi formali o semantici), al passo con il clima culturale e scientifico. Come suggerisce Tullio De Mauro all’interno dell’inchiesta di “SuperAbile” citata in precedenza, l’intero campo semantico dell’handicap è in movimento nell’uso comune perché lo è ancora “a livello specialistico internazionale, come dimostra il succedersi di classificazioni e riclassificazioni”.
Vediamo perché. La prima classificazione a livello specialistico elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, risalente al 1970 e nota con l’acronimo di ICD (“International Classification of Diseases”) metteva l’accento sul concetto di malattia (“disease”, appunto) individuandone le cause patologiche, e limitandosi a fornire - per ogni caratteristica clinica – codici numerici di scarsa utilità al dibattito lessicografico.
All’ICD fece seguito nel 1980 l’International Classification of Impairement Disabilities and handicaps (ICIDH), che invece fin dal titolo, evidenziava i concetti di “menomazione” (impairement), “disabilità” (disabilities) e handicap, e rovesciava di fatto il punto di vista dell’ICD: occorreva partire non tanto dall’analisi delle cause della patologia, quanto dall’influenza che il contesto ambientale poteva esercitare sullo stato di salute delle popolazioni e degli individui. L’handicap passava così ad essere una condizione di svantaggio risultante dalla differenza tra lo stato del soggetto e le aspettative di efficienza che egli stesso (o il gruppo di appartenenza) avevano nei suoi confronti. E la nomenclatura doveva, per forza, riflettere questo cambio di prospettiva: si doveva parlare infatti non di handicap per sé, ma di handicap in una determinata condizione (handicap nell’orientamento, nella mobilità, nell’integrazione sociale, ecc.) come riflesso di disabilità situazionali e non intrinseche al soggetto. L’handicappato diventa allora persona in situazione di handicap: e gli handicap sono presenti non ontologicamente, ma soltanto quando ci si attendono prestazioni standard fissate rispetto a una norma (quella dei normodotati).
Ma è proprio la criticità (e l’arbitrarietà) dei concetti di standard e norma che ha richiesto una revisione ulteriore. E all’ICIDH sono seguiti altri due documenti: l’International Classification of Impairments, Activities and Participation del 1997, che ha introdotto l’idea di una visione in positivo, e di una diversa partecipazione sociale (non ostacolata dalla disabilità, ma anzi garantita da abilità diverse: di qui le ragioni di diversamente abile), e l’International Classification of Functioning, approvato dalla World Health Assembly nel 2001, in cui si sancisce del tutto l’abbandono di una terminologia basata sul deficit (handicap, disabile, dislessico, ecc.), o che fa coincidere la persona con esso (da qui le critiche anche a diversamente abile), e si adottano invece termini più descrittivi dei contesti di vita, che focalizzano – in prospettiva multidimensionale - l’attenzione sulle risorse e sulle abilità di un soggetto invece che sui suoi insuccessi.
Certo, questi sforzi nomenclatori non sono traducibili sempre in proposte utilizzabili nel linguaggio comune. Anzi: anche interessanti tentativi di sintesi – come il Nuovo dizionario delle disabilità, dell’handicap e della riabilitazione di Renato Pigliacampo (Armando, 2010) – colmi di utili distinguo lessicali, non riescono a sfondare la barriera dell’alta divulgazione.
Tuttavia, se nell’uso si avverte tanto l’inadeguatezza dei termini più consolidati, spesso connotati negativamente (secondo un sondaggio pubblicato il 20 maggio 2009 dalla rivista “Focus”, handicappato sarebbe ormai avvertito come un vero e proprio insulto) o semanticamente “difettivi” (disabile), quanto dei loro sostituti pro-positivi (diversamente abile, diversabile), considerati affettati e “politicamente corretti” anche dagli stessi soggetti che nominano (come l’artista David Anzalon detto Zanza, che rifiuta gli eufemismi a vantaggio di handicappato), occorre accettare una complessità che – temo - non può essere risolta con una serie di aut aut, ma che tenga conto dell’evoluzione del dibattito e della varietà dei contesti e delle situazioni d’uso, su cui testare non solo le proprie competenze linguistiche, ma anche le proprie sensibilità: l’insieme – e il bisticcio è voluto – delle proprie abilità.
Per approfondimenti:
Federico Faloppa
Piazza delle lingue: Lingua e saperi Lingua e diritto
3 aprile 2013
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