Mettiamo tutto e tutti al femminile?

La signora F.N., da Marina di Carrara, si stupisce del fatto che la recente scelta di un Ateneo italiano di usare nel proprio Regolamento “il femminile anche per il maschile” abbia trovato favorevoli “anche linguisti di professione”. A suo parere, diversamente dal lessico, che “si arricchisce continuamente con l’introduzione di parole nuove”, la “grammatica non è un settore aperto” e si può modificare solo “per processi interni alla lingua”. Chiede in merito un nostro parere.

Risposta

Nel marzo 2024 l’Università degli Studi di Trento (non quella di Trieste, come ha scritto per errore la nostra lettrice), con un comunicato stampa del Rettore, ha annunciato la scelta dell’Ateneo di stilare il Regolamento dell’Istituzione medesima utilizzando come genere unico il femminile (quello che solitamente viene chiamato dai linguisti il “femminile sovraesteso”) per indicare tutte le cariche, figure e funzioni professionali dell’università. La notizia è stata ripresa e commentata da vari giornali italiani, e ha suscitato inevitabilmente molte polemiche. Non è la prima volta che gli atenei del nostro Paese si segnalano per la loro, diciamo così, vivacità linguistica. Proprio in àmbito accademico, nelle comunicazioni universitarie non formali, si sono non di rado diffusi più che altrove segni grafici come asterisco e schwa, che già in passato la Crusca ha rifiutato (si veda l’intervento Un asterisco sul genere) in base, tra l’altro, alla constatazione che la scrittura non deve rompere il contatto con il parlato. Il rapporto tra scrittura e parola è fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che può essere gradualmente e lentamente modificata dalla collettività, ma non può essere infranta a piacere per iniziativa di una singola persona o da una minoranza. Inoltre alcuni di questi esperimenti, seppure in rari casi, sono stati condotti intaccando la lingua giuridica, burocratica o amministrativa, ben diversa dalla lingua comune e anche da quella letteraria. È nostra ferma opinione che la lingua giuridica e burocratica non sia sede adatta per sperimentazioni innovative che portano alla disomogeneità e compromettono la lineare comprensione dei testi.

Il cosiddetto “femminile sovraesteso” ricorre a scopo dimostrativo e polemico nell’uso di alcuni gruppi femministi, come forma “risarcitoria” dopo secoli di predominanza del maschile sovraesteso. Per esempio, nel febbraio 2023, durante l’inaugurazione dell’anno accademico di un importante Ateneo italiano, la rappresentante degli studenti rivendicò l’uso del “femminile sovraesteso” come antidoto al maschile. L’incipit del discorso della rappresentante degli studenti, davanti alle autorità (tra cui la Ministra dell’Università) e di fronte a un pubblico numeroso, con il femminile “totale” applicato ai maschi, ebbe un innegabile effetto-sorpresa, ma fu necessario un commento di natura metalinguistica per chiarire al pubblico presente il significato dell’operazione, che altrimenti sarebbe riuscita stravolta: l’oratrice fu costretta a spiegare che il femminile, nel suo modo di comunicare, includeva anche il maschile, e la spiegazione giunse quando ormai il pubblico sconcertato aveva invece inteso alla lettera i femminili usati dalla rappresentante. Il commento metalinguistico a cui la studentessa fu costretta non valeva solo come chiarimento o come dichiarazione di fede: era soprattutto la prova dell’esistenza di un sistema a cui non si poteva sottrarre nemmeno chi intendeva contestarlo. La contestazione era in realtà un atto politico, di per sé estraneo al sistema della lingua, e avrebbe perso ogni significato senza l’esistenza del sistema. Il seguito del discorso della rappresentante degli studenti, per la verità, non conservava affatto coerenza costante rispetto alle premesse metalinguistiche. Del resto questa è una caratteristica di molti messaggi costruiti sulla contestazione: non è richiesta la coerenza, basta lanciare la provocazione. Non si cerca la regolarità di un uso metodico, ma conta il gesto, l’atto in sé. Nel discorso della rappresentante, che pure aveva invocato come regola definitiva l’uso del femminile sovraesteso, ricorrevano espressioni come “siamo l’università con meno laureati”, “obiettori di coscienza”, “non vogliamo restare neutri”, “ci fanno sentire inadeguati”, tutti casi in cui è venuto meno il femminile programmatico annunciato all’inizio.

In ogni caso, una cosa è l’adozione del femminile sovraesteso in un intervento di natura polemica, orale o anche scritto; cosa diversa è l’impiego generalizzato del femminile in un documento ufficiale, come è accaduto all’Università di Trento, che lo ha introdotto in un Regolamento di ateneo.

Si deve considerare quanto segue:

  • Non esiste valida argomentazione logica per affermare che il femminile sovraesteso sia da considerare inclusivo, sia perché esclude il genere maschile, e pertanto inclusivo non è e non può essere, sia perché di fatto opacizza la stessa presenza del femminile. Per ragioni storiche, chi usa il maschile sovraesteso non ha bisogno di giustificare la propria scelta, riconosciuta dalla grammatica tradizionale italiana (e ormai di fatto deprivata di qualunque possibile interpretazione in chiave sessista), mentre chi usa il femminile sovraesteso è costretto sempre e comunque a precisare dettagliatamente la propria scelta, perché altrimenti la comunicazione può essere totalmente fraintesa. Niente, invece, impedisce di affiancare sistematicamente maschile e femminile, purché questa scelta sia compiuta coerentemente per l’intero testo.
  • La giustificazione teorica del femminile sovraesteso si basa sulla ricerca di una sorta di indennizzo rispetto all’uso del semplice maschile, avvertito come un’ingiustizia, interpretato, in termini grammaticali, come “maschile inclusivo”. Il femminile sovraesteso viene introdotto come una forma di giustizia riparativa. Però non favorisce una soluzione condivisa, ma radicalizza posizioni estreme, e non giova alla causa di una lingua inclusiva, che pure può essere ottenuta con altri mezzi.
  • Esistono decine e decine di manuali e guide per il linguaggio inclusivo, adottati nei regolamenti di svariate amministrazioni pubbliche, in Italia e anche all’estero (ad esempio, per la lingua italiana, in Svizzera), che offrono soluzioni per adottare un linguaggio rispettoso e inclusivo senza manomettere le funzionalità della lingua italiana. Fare tabula rasa di queste proposte, talora assai valide, sarebbe un errore, e forse anche un atto di eccessiva presunzione.
  • Il Regolamento dell’Università di Trento fonda l’intera architettura che sostiene l’uso del femminile generalizzato su di una precisazione posta all’inizio del testo, nell’articolo 1.5, riportato anche nei comunicati-stampa dell’Ateneo, che così recita: “I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone”. Tale articolo è inaccettabile sia dal punto di vista della logica sia della grammatica. Parlare di “termini femminili” significa infatti prendere in considerazione anche nomi di genere grammaticale femminile come convocazione, seduta, maggioranza, minoranza, amministrazione, delibera, ecc., che evidentemente non “si riferiscono a tutte le persone”. Si aggiunga che, sul piano grammaticale, si avrebbe una discrasia tra la femminilizzazione di tutti i referenti umani e la distinzione di genere per animali e cose, che comporterebbe o il mantenimento dell’accordo al maschile o ambiguità in una frase come “si ricorda che gli zaini e le borse abbandonate saranno soggette a perquisizione”. Infine, una simile affermazione, posta in un regolamento della pubblica amministrazione, può essere fonte di confusione e di contenzioso, e la si potrebbe dire viziata da “eccesso di potere”: infatti nessun organo deliberativo di qualsiasi ente, statale, regionale o locale, ha l’autorità, la possibilità o il compito di intervenire per decreto sulla lingua italiana, stabilendo autonomamente regole differenti da quelle comuni o decidendo di cambiare nome o genere grammaticale a cose o funzioni. Non ne ha la possibilità, ovviamente, la Crusca; e forse non ne avrebbe la potestà neppure il Parlamento.
  • Si deve richiamare un fatto già più volte evidenziato da interventi di singoli accademici e da numerose risposte sul genere grammaticale fornite dal Servizio di Consulenza linguistica dell’Accademia: un testo normativo, di qualunque tipo o genere, richiede un uso linguistico il più possibile denotativo, neutro e impersonale, e conforme allo standard. Un testo normativo come un Regolamento non è dunque la sede adatta per condurre esperimenti che, indipendentemente dalle buone intenzioni da cui sono stati dettati, sono inevitabilmente destinati ad alimentare conflitti e ad accrescere le incertezze e i dubbi su una tematica particolarmente delicata.

Dopo la diffusione del comunicato stampa del Rettore dell’Università di Trento in cui si annunciava la scelta compiuta nel Regolamento, una docente dell’Ateneo tridentino, la linguista Serenella Baggio, che non è accademica della Crusca, ma con la Crusca ha più volte collaborato (ha anche curato la pubblicazione di un volume nelle nostre edizioni), è intervenuta con un articolo molto bello, pubblicato sul “Quotidiano trentino” il 4 aprile 2024, in cui spiega le ragioni del proprio dissenso dalla scelta dell’Ateneo e del Rettore.

La lingua è una cosa seria
Non si può manipolare

Intervengo da storica della lingua sul problema della femminilizzazione, mi si dice provocatoria ma ragionata, del nuovo Regolamento d’Ateneo, che vorrebbe mettere fine all’esuberanza di parole causata dalle dittologie di genere (studentesse e studenti) e rovesciare la logica sessista che finora ha regolato sul genere maschile i rapporti tra i sostantivi.

La lingua è una cosa seria, un complesso sistema mobile di regole strutturali e di convenzioni sociali che bisogna conoscere professionalmente, scientificamente, per non guastarlo. In gioco c’è il patrimonio di un’intera comunità che comunica, pensa, crea parlando e scrivendo. Questo bene primario non è a disposizione per una qualunque manipolazione ideologica di parte, anche fatta coi più nobili intenti. Lo vediamo con il “politicamente corretto” come con la lotta contro il “sessismo linguistico”. Nati dalla cattiva coscienza dei colonialisti e delle classi sociali che detengono il potere, moltiplicano nella lingua le sinonimie e le perifrasi eufemistiche, i tabu e le pruderies. Siamo certi che servano a sensibilizzare la gente comune? A educarla a non discriminare il diverso in qualsiasi forma si presenti? Ne vale la pena?

Al sistema linguistico va garantita innanzitutto funzionalità. Deve essere semplice da usare, chiaro e condiviso. Il che implica anche quel principio di economia di cui stiamo discutendo: la lingua da secoli ha grammaticalizzato accanto al genere maschile e a quello femminile un terzo genere, in cui l’opposizione è neutralizzata. Questo semplifica le scelte e accorcia i tempi. Mario e Maria sono stati a Trento (non sono state: il femminile è il genere marcato, il maschile no; semmai un problema per l’orgoglio maschilista). Non c’è bisogno di schwa, di asterischi, di raddoppi.

Il malinteso sessista nasce quando si confonde il genere delle parole con il sesso delle persone (o, comunque, degli esseri animati). La lingua non ha scelto una sola uscita per il maschile -o, pl. -i, e una sola per il femminile -a, pl. -e. Non lo poteva per ragioni storiche e per realismo; neanche i grammatici raddrizzano la lingua naturale dov’è polimorfa e pleonastica. Accettiamo senza problemi che maschile e femminile escano in -e, pl. -i o non abbiano differenza visibile di genere. Nei dialetti si trovano spesso generi diversi da quelli dell’italiano standard per le stesse parole (lume, latte, fronte). Intere categorie di esseri animati hanno nomi solo di genere femminile ed è un femminile non marcato. Si pensi agli animali a cui attribuiamo un genere femminile o maschile solo se li alleviamo o li teniamo a vivere con noi; ma ancora fino a pochi anni fa la gatta non faceva differenza, come oggi non la fa il gatto.
Non ci crea problemi un’uscita in -a per un nome riferito a un individuo di sesso maschile (il poeta, lo stratega). Né un’uscita in -o per il femminile mano. Vogliamo distinguere il femminile dal maschile in ossequio alla divisione dell’umanità in due sessi? Vogliamo dare visibilità alle donne che lavorano, ad esempio? Giusto. La lingua ci soccorre con la possibilità di formare parole nuove flettendo al femminile o adottando il modello di serie suffissali aperte: chirurgo – chirurga, poeta – poetessa (ma perché poeta femminile? Ambigenere?), presidente – presidentessa, professore – professoressa (ma non professora, per favore, con metaplasmo di declinazione e l’effetto di un italiano parlato da stranieri). Più sono istituzionali le cariche e più si è tentati di usare il genere non marcato per rispetto al valore intrinseco della posizione a cui nulla aggiunge l’informazione che sia occupata da un uomo o da una donna se non per un (ancora triste) computo statistico; ci interessa che sia occupata da una persona degna e competente. Ci si deve anche tutelare da effetti secondari, le connotazioni, legati all’uso sociale delle parole: una maestra non vale socialmente quanto un maestro, tant’è che ci è difficile dire maestra di vita o chiamare maestra la donna che dirige un’orchestra, e, piuttosto, sentendo dire maestra, pensiamo a quella signora che ci correggeva con la penna rossa a scuola.

La lingua ha le sue regole e i suoi bisogni. Provvede con lenti movimenti ascensionali dal basso a immettere nel circuito comune, standardizzandoli, dei tratti scartati dalle grammatiche e sopravvissuti carsicamente nelle fasce meno letterate della popolazione. Ma lo fa per rendere più espressivo o più immediato il parlato, non per giustizia sociale.

I tentativi di riformare politicamente la lingua senza capirne il funzionamento non hanno dato buoni frutti. Valga per tutti l’esterofobia del fascismo e l’oltranza ideologica con cui si vietò l’uso del Lei di cortesia giudicandolo troppo effeminato per una società di forte carattere virile. Anche in quel caso si confuse il sesso delle persone col genere delle parole, un errore che è meglio non ripetere.

Serenella Baggio

Abbiamo ritenuto opportuno riprodurre l’articolo qui, a completamento della nostra risposta. Concludiamo dicendo che il regolamento è stato approvato dagli organi accademici dell’Ateneo trentino ed è stato poi annunciato dal comunicato stampa del Rettore. Speriamo che, prima della sua definitiva entrata in vigore, ci sia ancora il tempo per un ripensamento.


Claudio Marazzini

10 maggio 2024


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