Mica e manco: due avverbi dell'uso parlato e popolare Ilaria Ciangherotti ha chiesto consulenza alla nostra redazione per conoscere l'origine, i diversi significati e i possibili usi degli avverbi mica e manco.
Mica e manco: due avverbi dell'uso parlato e popolare
La forma avverbiale mica deriva dal latino MICA 'briciola di pane' (attestato in Petronio) e in italiano, nel significato di 'punto', 'affatto', ha attestazioni molto antiche fin dal Ritmo di Sant'Alessio composto nel XII secolo. Proprio dal significato originario di 'briciola, piccolissima parte', attraverso un uso estensivo in frasi negative, ha assunto il significato corrente di 'per nulla, affatto'. Si tratta di un elemento rafforzativo che trova la sua origine in proposizioni del tipo "non mangio nemmeno una briciola", "non faccio neanche un passo" e che poi si è generalizzato nell'uso anche in presenza di altri verbi. In italiano la particella mica, registrata già dalla prima edizione del Vocabolario degli accademici della crusca (1612) anche nella variante miga attestata in Boccaccio, ha avuto maggiore diffusione nella lingua comune, parlata (nei dialetti restano vive diverse realizzazioni: miga e minga al nord, nel parmense si è mantenuta la forma brisa 'briciola'), mentre in ambito letterario le occorrenze non sono numerosissime.
Questa distribuzione nell'uso è particolarmente significativa se la confrontiamo con quanto è invece accaduto in altre lingue neolatine, come ad esempio il francese, che ha generalizzato l'uso di queste particelle a tutte le costruzioni negative della lingua standard (pas da PASSUS ancora in uso e mie da MICA segnalato nei dizionari della lingua francese come voce arcaica, anche se la si può trovare ancora in scrittori della prima metà del Novecento: in tutti e due i casi si è perso il significato originario).
Mica insieme a punto resta viva nel parlato toscano e, nelle diverse forme a seconda delle zone, in molti dialetti.
L'avverbio manco ha due accezioni principali, quella di 'meno' limitata all'italiano antico e popolare (ma non nel meridione dove prevale più poco) diffuso in forme composte come niente di manco, niente manco, non di manco, non manco attestato in scritti pratici o di genere popolare; e quella di 'neanche' come forma abbreviata da nemmanco, uno dei tanti avverbi che trovano il loro precedente nel latino NE... QUIDEM. La connotazione popolare appare confermata dalle prime attestazioni dell'avverbio e dal modo in cui è stato poi accolto nel Vocabolario degli accademici della crusca: nella banca dati del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini che raccoglie testi anteriori al 1375 in italiano e nei vari dialetti, le prime occorrenze di manco (nella variante mancu) sono contenute in testi siciliani dei primi del Trecento; nel Vocabolario degli accademici della crusca la forma, nell'accezione di 'neanche', compare solo nella terza edizione (1691), aggiunta come terza accezione dopo quelle principali di 'ammanco' e 'meno' e non corredata da esempi d'autore a conferma del fatto che gli accademici l'hanno inserita come forma d'uso di cui non hanno trovato riscontri nelle opere letterarie. In questa stessa accezione di 'neanche' manco è stato condannato come neologismo da Rigutini (I neologismi buoni e cattivi, 1926, dove commenta: "Manco, avverbio, l'usano alcuni pessimi scrittori con senso negativo: «Son cose manco da dirsi; manco l'ho pensata», ecc. invece di «non son cose da non dirsi neanco; non l'ho neppur pensata», ecc. E la maniera «manco a dirlo», per «superfluo di dirlo, non c'è bisogno di dirlo», e simili"), anche se, in realtà, è di antica attestazione (da Jacopo Nardi a metà del '500 a Caro, Caporali, Lippi, Algarotti) e rimane la forma dominante nel meridione, mentre il nord preferisce neanche. Nell'italiano contemporaneo resta forma quasi esclusiva del parlato e può comparire in scritture informali o che riproducono la forma parlata.
A cura di Raffaella Setti
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
30 novembre 2006
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