Migranti, profughi e rifugiati. Anche le parole delle migrazioni sono sempre in viaggio.

Le domande sulla terminologia della migrazione continuano a essere molto numerose e, dopo migrante, clandestino, richiedente asilo e respingimento, negli ultimi anni di drammatiche guerre e imponenti esodi, profugo e rifugiato sono purtroppo parole (e soprattutto persone) di ogni giorno, mentre qualcuno recupera profuganza o terribili fantasmi come deportazione. In un uso così frequente si rischia però di essere approssimativi e poco attenti alla scelta dei termini più appropriati.

Risposta

 

Migranti, profughi e rifugiati. Anche le parole delle migrazioni sono sempre in viaggio.

 

Negli ultimi decenni il fenomeno delle migrazioni si è manifestato in forme nuove che hanno determinato trasformazioni e ampliamenti significativi anche nel lessico che utilizziamo per descriverlo, per parlarne e per scriverne. Uno dei cambiamenti più evidenti (di cui avevamo già trattato) è stato quello che ha portato alla prevalenza dell’uso del termine migrante rispetto ai tradizionali emigrante/emigrato e immigrato; la parola è stata caricata di maggiore densità semantica fino a svolgere la funzione di passepartout per trattare la maggior parte delle questioni connesse ai flussi migratori (accoglienza, permanenza, lavoro per queste persone). Questo accumulo di accezioni, in cui rientrano anche i significati di emigrante/emigrato e immigrato, ha portato all’indebolimento del valore di azione in atto tipico del participio presente, così i migranti non sono più soltanto persone in movimento, ma sono anche persone che si sono stabilizzate e integrate nei paesi ospitanti. L’ampiezza, ma insieme genericità, del significato della parola migrante ha prodotto una serie di sottocategorie necessarie a rendere conto della varietà delle situazioni e dei percorsi di ciascuno: nella terminologia ufficiale si sono così distinti il migrante forzato, il migrante economico, il migrante altamente qualificato, specificazioni contemplate nel Glossario sull’asilo e la migrazione (a cura della Commissione europea, Rete Europea sulle Migrazioni, ultima edizione 2016, versione in italiano consultabile qui). Il Glossario è uno strumento nato e realizzato per facilitare lo scambio di informazioni su una base condivisa, di cui si è avvertita la necessità quando la trasformazione del fenomeno migrazione ha cominciato a coinvolgere direttamente un insieme di Stati, quelli europei, da poco costituitisi in Comunità (poi Unione), facendo emergere anche il problema della comunicazione e dell’assunzione di una terminologia comune e più possibile univoca. Come notato anche da Rosario Coluccia denominazioni di queste persone possono cambiare a seconda del contesto in cui ricorrono: nel linguaggio burocratico e formale si trovano apolide, rifugiato, richiedente asilo, migrante, tutte parole che rientrano in categorie contemplate dai testi ufficiali; nella lingua comune e in quella dell’informazione si aggiungono anche immigrato, clandestino e profugo, etichette decisamente più sfuggenti e che, per questo, si prestano maggiormente a imprecisioni e strumentalizzazioni. I due piani si muovono parallelamente e la ricerca di precisione e univocità terminologica si scontra con una realtà in continua trasformazione che apre sempre nuovi spazi a sfumature e variazioni di significato.

A partire dal 2010/2011 è però apparso sfocato anche il termine migrante che, come abbiamo visto, negli ultimi anni ha funzionato da catalizzatore delle tante sfaccettature della figura di chi lascia il proprio paese alla ricerca di condizioni migliori, tanto da risultare preminente sulle possibili alternative. Con le crisi umanitarie in Costa d’Avorio, Libia, Somalia e Sudan prima, e poi con l’inizio della guerra in Siria, migrante è risultato a molti troppo generico e abusato per identificare le migliaia e migliaia di persone in fuga da guerre e distruzioni, da persecuzioni e torture, persone in pericolo di vita e in cerca di protezione, che non sono più solo migranti, ma rifugiati in cerca di asilo. Negli ultimi anni, da quando il fenomeno migratorio è divenuto in prevalenza spostamento di persone in fuga impossibilitate a tornare nel loro paese almeno fino al ristabilimento di una situazione di normalità, anche i media, almeno quelli più attenti, hanno iniziato a percepire una sorta di imbarazzo a usare migrante generalizzato a tutti i contesti e hanno fatto ricorso con maggior frequenza a profugo e rifugiato. Impostando una ricerca che metta in rapporto le occorrenze di profugo/rifugiato/migrante dal 2011 a oggi sulla "Repubblica" si nota come, pur con una costante prevalenza di occorrenze di migrante (con picco di 7.389 comparse tra marzo 2015 e marzo 2016), la somma delle occorrenze di profugo e rifugiato nello stesso periodo sia numericamente maggiore (7.802). Si è considerata la somma perché, come notato anche da alcuni nostri interlocutori, le due parole tendono a sovrapporsi in maniera indistinta, almeno negli usi comuni e in quelli giornalistici meno accurati. Bisogna invece precisare che profugo e rifugiato hanno progressivamente assunto significati diversi e, soprattutto, che attualmente solo rifugiato trova corrispondenza nelle altre lingue europee e rimanda a uno status riconosciuto dal diritto internazionale.

Nella storia delle due parole si ritrovano le tracce di tale processo e le motivazioni che hanno portato a una progressiva divaricazione negli usi istituzionali. Profugo nel significato di ‘esiliato, fuoruscito’ è parola dell’italiano antico (già attestata alla fine del XIII secolo nella Bibbia volgare), discesa dal latino profŭgus, der. di profugĕre ‘cercare scampo’ (composto di pro-‘avanti’ e fugĕre ‘fuggire’); nell’accezione moderna di ‘persona in fuga o espulsa dal paese di origine o di residenza per ragioni politiche, religiose o razziali e poi per cause belliche e per calamità naturali’ il primo dizionario storico a registrarla è il Tommaseo-Bellini che, nella definizione di profughi come ‘gli esiliati, o sottraentisi all'esilio, per causa politica, così furon detti per circa sessant'anni del secolo nostro’, sottolinea i contesti e il periodo di diffusione della parola. Non ve n’è traccia invece in nessuna delle quattro edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca (la quinta com’è noto si ferma alla lettera O), che documentano invece esiliato e fuggiasco, ben rappresentati nei testi letterari. Nella definizione attuale, quella che si è delineata tra Ottocento e Novecento (nel GDLI si hanno esempi da Foscolo a Ojetti), si distinguono due tipologie di profughi: quelli che, a causa di persecuzioni politiche, religiose, razziali, cercano rifugio in un altro Stato (profughi internazionali) e coloro che invece sono costretti a un allontanamento temporaneo dal loro luogo di residenza per guerre o calamità naturali, pur restando nel Paese d’origine (profughi interni).

Rifugiato entra più tardi in italiano, nel XX secolo, attraverso il francese réfugié (già presente nell’Editto di Nantes 1598, revocato poi nel 1685). Dalla consultazione dei vocabolari storici si ricava che rifugiato, che ha in rifuggito il suo precedente nell’italiano antico (attestato fin dalla prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca), entra nel Tommaseo-Bellini prima e poi nel GDLI con esempi secenteschi e con una definizione molto generica e in larga parte assimilabile a quella di profugo (che, tra l’altro, viene indicato come sinonimo): “Che è riparato, che ha trovato rifugio (o anche ospitalità) in un luogo o in una località o in una regione sicura, per sfuggire a pericoli o sottrarsi a situazioni o condizioni difficili. – Anche fuoruscito, profugo”. Nello stesso GDLI la voce poi prosegue per dare conto della specificità del significato della parola nel diritto internazionale (“e nel dir. internaz. indica la persona che, nel quadro di un fenomeno collettivo più o meno numericamente consistente, ha abbandonato o è stata costretta ad abbandonare il proprio Paese ove si trovava perseguitata, oppressa o discriminata per ragioni politiche, religiose o razziali ed è riparata in un Paese estero”).

In effetti la sinonimia tra le due parole si è indebolita quando rifugiato è stato assunto come termine unico per riferirsi a uno status sancito dal diritto internazionale. A partire dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951, viene riconosciuto lo status di rifugiato a chi era già stato dichiarato tale da accordi e convenzioni stipulate tra gli anni 1926-1938; nel 1967, proprio all’art. 1 della Convenzione, viene aggiunta la definizione puntuale di rifugiato: “Chiunque nel giustificato timore d'essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”. Tutti i trattati successivi alla Convenzione che hanno progressivamente coinvolto paesi dell’Africa, dell’America centrale, Messico e Panama, fino alle più recenti (2004) Direttive dell’UE recanti norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato, condividono una nozione base di rifugiato: una persona costretta a lasciare il proprio paese di origine e a chiedere protezione in un paese straniero. È proprio questa la caratteristica che contraddistingue il rifugiato rispetto al migrante economico: se il migrante economico sceglie liberamente di lasciare il proprio Paese in cerca di un futuro migliore dal punto di vista economico, sociale o culturale, il rifugiato è forzato a farlo. E su questa fondamentale differenza bisogna raccomandare un’attenzione particolare ai giornalisti e, ancora di più, a chi ha compiti delicatissimi come quello della prima identificazione di queste persone. Negli ultimi mesi sono arrivati richiami forti in questo senso da più voci autorevoli: il 1° novembre 2016, il Papa in un suo intervento rilasciato al «Corriere della Sera» ha ribadito che “si deve distinguere tra migrante e rifugiato”; “il migrante viene trattato con certe regole”, “il rifugiato invece viene da una situazione di guerra, di angoscia terribile, lo status di rifugiato ha bisogno di più cura”; pochi giorni dopo, un rapporto di Amnesty International sui Centri di identificazione (secondo la denominazione che il gruppo Incipit ha consigliato in sostituzione di hot spots), ha denunciato la necessità di una maggiore cura soprattutto al momento dell’identificazione che spesso avviene in modo molto sommario e con metodi coercitivi e dunque, oltre che illegali, non affidabili nei risultati (www.amnesty.it/rapporto-hotspot-italia).

Anche lo spostamento del profugo ha all’origine una causa di forza maggiore: guerre, persecuzioni, disastri ambientali costringono masse di persone, in pericolo di vita, a lasciare le loro terre e la storia italiana, anche quella linguistica, conserva la memoria dei profughi del Veneto della prima guerra mondiale o di quelli della Dalmazia e Venezia Giulia durante e dopo la seconda guerra mondiale (che, complessivamente, generò 10 milioni di profughi), così come di tutte le persone sfuggite a alluvioni o a terremoti, dal Polesine, al Belice, al Friuli fino al recente terremoto che ha colpito l’Italia centrale. Sono tutti casi in cui, una volta superata l’emergenza e ristabilita una condizione di sufficiente sicurezza, le persone possono e vogliono tornare nel loro Paese. Nel ricco repertorio lessicale dell’italiano è presente un’altra possibilità per riferirsi ai trasferimenti di massa che avvengono però all’interno dello stesso Paese: con sfollati si indicano le persone fuggite per le stesse ragioni dei rifugiati, ma che “non hanno attraversato un confine internazionale riconosciuto” (https://www.unhcr.it/chi-aiutiamo/sfollati).

Da notare che la parola profugo è esclusiva dell’italiano: in IATE (InterActive Terminology for Europe, www.iate.europa.eu) l’italiano profugo è tradotto nelle altre lingue con il termine corrispondente a ‘rifugiato’, refugee in inglese, réfugié in francese, refugiado in spagnolo e portoghese, Flüchtling in tedesco, ecc.; tra i sinonimi è previsto anche sfollato esterno, che corrisponde all’inglese Internally Displaced Person, al francese déplacé, allo spagnolo deplazado, al portoghese pessoa deslocada, al tedesco Vertriebene; di seguito viene poi segnalato come ‘non approvato’ il termine utilizzato nell’accezione più ristretta di ‘sfollato interno’ (anche se in Italia, durante la seconda guerra mondiale sfollati erano solo gli ‘sfollati interni’ e tale significato resta ben compreso anche adesso dai parlanti). I corrispondenti di sfollato (esterno) nelle lingue diverse dall’italiano vanno dunque a coprire lo spettro semantico che in italiano è ampiamente rappresentato da profugo.

Nell’attuale quadro terminologico ufficiale (che riflette quello giuridico) quelli che solo in italiano denominiamo profughi sono distinti in sfollati e rifugiati, profili entrambi riconosciuti dal diritto internazionale. Nell’uso italiano quando si parla o, peggio, si scrive di profughi sarebbe opportuna la consapevolezza di ricorrere a un’etichetta solo italiana e assolutamente generica. Non solo: proprio questa unicità dell’italiano ha prestato il fianco a usi distorti e discriminatori, con sovrapposizioni strumentali fino, nei casi peggiori, a far passare come sinonimi le parole profugo e clandestino. Per descrivere le molte diverse situazioni che si profilano all’interno delle grandi masse “in fuga” da moltissime parti del pianeta, dovremmo almeno distinguere, in primo luogo nel riconoscimento, ma anche nelle scelte linguistiche, coloro che hanno diritto a richiedere la protezione internazionale e quindi ad essere riconosciuti rifugiati, da coloro che invece non rientrano in tali criteri e restano nella condizione di migranti intenzionati a cercare condizioni di vita migliori in altri Paesi o profughi con la volontà di tornare al loro Paese, una volta ristabilite le condizioni di normalità.

Nonostante i meritevoli sforzi delle istituzioni europee nella direzione di una terminologia il più possibile univoca e non discriminatoria, resta un’impresa molto ardua stare al passo con le veloci e talvolta imprevedibili trasformazioni geopolitiche che provocano continue nuove forme di migrazione. La quotidiana necessità di trattare l’argomento produce soprattutto nei media il proliferare di parole ed espressioni che possono far sorgere domande come quelle recentemente giunte in redazione su profuganza e sulla scelta del Presidente degli Stati Uniti Trump di parlare di deportazioni a proposito delle espulsioni di migranti.

Una breve appendice per queste due “nuove” questioni.

Profuganza non è una parola del tutto nuova: ne aveva già trattato molti anni fa Enzo Golino in un articolo apparso su Repubblica nel settembre 1999 (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1999/09/07/italiano-che-parleremo.html) in cui si citava Carlo Sgorlon che riferiva di averla sentita in famiglia quando gli anziani ricordavano appunto della profuganza (‘esodo’) dopo la sconfitta di Caporetto. Si tratta di un derivato in -anza sulla base del verbo profugare (del tipo alternanza su alternare, ottemperanza su ottemperare, ecc.) che risulta registrato nel GDLI, benché ormai in disuso. La creatività linguistica tipica dei media ha portato, in questo caso, non a un vero e proprio neologismo, ma a un rilancio probabilmente inconsapevole di una parola esistita e soprattutto assolutamente ben formata sulla base di un verbo compreso nel repertorio lessicale storico dell’italiano. Visto però quanto appena detto su profugo, e considerato che disponiamo di sinonimi più diffusi e senz’altro più precisi, come migrazione, esodo, espatrio, raccomanderei grande prudenza nel suo impiego. Una prudenza che pare esserci stata, se una ricerca su Google (ristretta alle pagine in italiano effettuata il 17/04/2017) ne restituisce poco più di 2000 occorrenze.

A proposito della recente circolazione della parola deportazione per riferirsi al programma di espulsione degli immigrati da parte del nuovo presidente Trump, si possono fare almeno due considerazioni. Innanzitutto è innegabile che la parola deportazione, dopo il nazismo e le deportazioni di massa finalizzate allo sterminio sistematico di milioni di persone, non può più essere interpretata in accezioni diverse: la storia drammatica del Novecento ha marchiato col sangue questa parola e decidere di usarla per indicare fenomeni attuali, inevitabilmente diversi, vuol dire o non essere consapevoli del peso di cui la storia carica alcune parole, o provocatoriamente non volerne tener conto. Ambedue i casi denotano, a dir poco, superficialità sia nei politici sia nei giornalisti che se ne servono. Una seconda riflessione, che comunque non scagiona chi utilizza questa parola senza la dovuta attenzione, riguarda il rapporto tra inglese e italiano: in inglese è stato lanciato il Trump’s deportation plan, dove deportation ha tra i suoi significati quelli di ‘espulsione’, ‘uscita da un paese con foglio di via’; in italiano è stato diffuso dalla stampa il corrispondente piano di deportazione, una traduzione nel migliore dei casi pigra se non del tutto incauta. Ma la vera provocazione è senz’altro alla fonte: anche l’inglese dispone di sinonimi decisamente meno segnati dalla storia e Trump avrebbe potuto scegliere, ad esempio, il più neutro expulsion. Il linguista si ferma qui; valutare le intenzioni che stanno dietro a queste scelte è materia tutta politica.

 

Per approfondimenti:

  • Federico Faloppa, Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Roma, Laterza, 2011
  • Glossario sull’asilo e la migrazione, edizione italiana a cura di Manola Cherubini, Sebastiano Faro, Mariasole Rinaldi, Commissione europea, Rete Europea sulle Migrazioni, 2016 (prima edizione 2010, seconda edizione in italiano 2012, tutte consultabili su www.emnitaly.cnr.it).

 

A cura di Raffaella Setti
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca

Piazza delle lingue: Lingua e diritto

12 maggio 2017


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