Sono arrivate in redazione varie domande che chiedono se l’italiano, che dispone di orfano/orfana per designare un figlio/una figlia che ha perso i genitori e di vedovo/vedova per riferirsi a chi ha perso il coniuge, abbia anche un termine per indicare un genitore che ha perso un figlio o una figlia. C’è anche chi segnala il neologismo sfigliato chiedendoci se possa essere usato con questo significato.
Non ci sono parole
L’italiano, al pari di molte altre lingue, non ha un termine specifico d’uso comune per indicare un padre o una madre che ha avuto la sventura di perdere un figlio o una figlia. I motivi dell’assenza sembrano vari.
Innanzi tutto, storicamente, andrà messo in conto che, fino ai primi decenni del Novecento, l’alta mortalità infantile (a cui corrispondeva, peraltro, una maggiore natalità) rendeva questa condizione (come pure quella della perdita di un fratello o di una sorella, anch’essa priva di denominazione), se non proprio normale, certo molto meno rara e “assurda” di quanto appaia oggi; ciò non significa, ovviamente, che in passato fosse meno dolorosa (chi non ricorda i casi dei poeti Giosue Carducci e Giuseppe Ungaretti, che dalla perdita di un figlio giovinetto trassero ispirazione per alcune loro struggenti liriche?).
Anche gli eventi bellici, le difficili condizioni di vita e di lavoro e le minori possibilità di cure mediche rendevano ben possibile la circostanza di figli (specie maschi) morti ancor giovani prima dei genitori (è il caso, per restare nell’ambito letterario, di Giacomo Leopardi).
Insomma, in passato la perdita di un figlio non presentava l’eccezionalità che sembra avere oggi, quando è resa particolarmente traumatica dal suo frequente legame con gli incidenti stradali, improvvisi e inattesi; va aggiunto il fatto che non era considerata neppure con l’attenzione che la psicologia e le scienze sociali, giustamente, le riservano ora.
In secondo luogo, la perdita di un figlio, diversamente da quella di un genitore o del coniuge, non aveva (e non ha) conseguenze sul piano legale (eredità, testamenti, ecc.) e dunque non richiedeva (e non richiede) un termine specifico che dall’ambito giuridico potesse passare alla lingua comune.
Ancora, la tradizione cristiana, grazie alla fede nella resurrezione dei morti, non sembra aver mostrato una specifica considerazione per questa condizione: certo, c’è il precedente evangelico della sofferenza di Maria ai piedi della croce (e l’immagine della Vergine che tiene in grembo il corpo di Gesù morto è il tema iconografico della “pietà”), ma il dolore è attenuato dal fatto che poi Cristo risorge.
È invece la mitologia classica a offrire esempi di padri e madri privati per sempre dei figli: da Egeo (che si getta nel mare pensando che Teseo sia morto) a Priamo, da Andromaca a Niobe. Anzi, il nome di questa madre (che, per punizione, assistette alla morte dei suoi numerosi figli, uccisi da Apollo e da Artemide, e, pur tramutata in pietra, continuava a piangere) è registrato col valore antonomastico di «Madre colta da sventura simile a quella di Niobe, e in gran dolore» nel Tommaseo-Bellini e nel GDLI (che registra l’esempio di Carducci in cui è definita corsa Niobe la madre di Napoleone, sopravvissuta a lui e ad altri figli).
Infine, non si può escludere del tutto che proprio il carattere doloroso e “innaturale” dell’evento abbia determinato già in passato una sorta di tabuizzazione della parola che dovrebbe designare chi lo ha vissuto e che, come si è accennato, manca in molte altre lingue.
Per la verità, per quanto riguarda lo spagnolo, il Diccionario della Real Academia Española registra l’aggettivo deshijado (la cui prima attestazione lessicografica risale al Diccionario de la lengua española, 1791), detto di persona che è stata privata dei figli, ma lo etichetta come termine desueto. Anche in francese c’è désenfanté, e in questo caso si tratta invece di una coniazione recente, che non è registrata nel TLFi, il Trésor de la langue française informatisé e il cui accoglimento nello standard è tuttora oggetto di dibattito; da désenfanté è stato tratto il sostantivo désenfantement, titolo di un libro della scrittrice marocchina Rita el-Kahyat (Le désenfantement, Casablanca, Editions Ainï Bennaï, 2003), che ha vissuto questa drammatica esperienza. Nella traduzione italiana del testo, curata da Antonella Perlino, il termine è stato reso con defigliazione (Rita El Khayat, Aïni, Amore mio. La defigliazione, Martinsicuro-TE, Di Felice Edizioni, 2010).
Come possibili corrispondenti italiani di questi termini ci sarebbero defiliato o defigliato, disfigliato e lo sfigliato che ci è stato segnalato come neologismo, tutti privi di registrazioni lessicografiche e, a parte l’ultimo, documentati solo da rare o rarissime attestazioni in rete (fatta la tara di alcuni più che probabili refusi: defiliato per defilato e sfigliato per sfogliato). Ma si tratta di voci usate sempre con altri significati.
Nei pochi esempi trovati, infatti, defiliato sembra avere il senso di ‘scompagnato’ («Il tavolino che scegliamo è defiliato rispetto a questo salone ed è completamente “all’addiaccio”, qui quattro tavoli da giardino in plastica, tettoia di verdura, lampioni e panchine stile 1800, singolare!»; GnaM, 2015, p. 155; da Google Books) e defigliato compare come participio passato di defigliare nel senso di ‘rinnegare, non riconoscere come figlio’ («se [mia figlia] non fosse la mamma di mai [= mia] nipote, l’avrei già defigliata»), mentre disfigliato è usato nel senso di ‘che non ha figli’ e non in quello di ‘che li ha perduti’ («Se fossi disfigliata starei benissimo, senza [la televisione]. Abbiamo preso la decisione di tenerla soltanto per evitare che, non avendola, la desiderassero troppo»).
Un retroterra storico ha invece sfigliato, usato anch’esso nel senso di ‘che non ha figli’ in vari testi tra Sette e Ottocento, dalla Dissertazione di polizia medica sul Pentateuco di Benedetto Frizzi («[…] sembra che servisse questo ad animare la popolazione, mediante l’idea quasi di obbrobrio, che si attaccava a chi restava sfigliato, e a chi non voleva procurarne il reintegro»; Pavia, Galeazzi, 1788, p. 114), alla Storia universale di Cesare Cantù («Se poi Lotario morisse sfigliato, la nazione potesse conferir la corona imperiale ad un dei fratelli […]»; vol. IX, Epoca X, Torino, Pomba, 1842, p. 17), alle Biografie dei capitani venturieri dell’Umbria di Ariodante Fabretti («[…] non morrà sfigliato il duca di Milano?»; vol. II, Montepulciano, Fumi, 1843, p. 10).
Lo stesso valore è presente anche in qualche esempio recente in rete («Vivere tutto questo per un adulto single e sfigliato ristabilisce in qualche modo le priorità»; «[...] è identico a quando ci andavo da ragazzo sfidanzato e “sfigliato”»). Da segnalare anche, in negativo, la prossimità formale del termine con il participio passato del toscano sfigliolare ‘produrre germogli’, registrato nel Petrocchi e nel GDLI, in cui la s- iniziale ha valore intensivo e non privativo.
Sgombrato il campo da queste neoformazioni, tra le quali, dovendo scegliere, la preferenza andrebbe attribuita a disfigliato (che è poi anche la più vicina ai termini dello spagnolo e del francese), torniamo all’italiano tradizionale, che ci offre tre voci che potrebbero assumere, o assumere di nuovo, questo significato. Almeno due di esse, però, presentano difficoltà di accoglimento.
La prima è orfano. Secondo il GRADIT il termine, usato sia come aggettivo sia come nome, non ha solo l’accezione di «che, chi ha perduto uno o entrambi i genitori» (il dizionario specifica opportunamente che si riferisce soprattutto a una persona giovane; il Tommaseo-Bellini glossa «Fanciullo privo di padre e madre, o d’uno dei due»), ma ha anche il valore esteso di «che, chi è rimasto privo di una persona amata o di qcn. che costituiva una guida o un sostegno»; dunque, come si dice orfano del (o, più spesso, di) padre o della (o di) madre, si potrebbe dire orfano del figlio. Ma mentre di padre o di madre ce n’è solo uno o una, i figli possono essere di più, ed è ben diverso, anche sul piano psicologico, perdere l’unico figlio, o perderne uno (o più di uno: purtroppo capita anche questo!) avendone altri in vita. Specificazioni al riguardo, pur possibili (orfano del figlio vs. orfano di un figlio?), paiono quanto mai inopportune. Poi, in ogni caso, l’accezione primaria di orfano sembra talmente consolidata da non lasciare spazio al valore generico, se non in contesti particolario nettamente distinti dall’ambito familiare.
Un’alternativa è offerta dalla lingua letteraria, e specificamente da quella poetica, che ha usato per secoli il latinismo orbo, documentato con questo valore, per es., già in un volgarizzamento trecentesco, il Commento ai Rimedi d’Amore di Ovidio («Rimase orbo il vec[c]hio padre Nauplio del suo sapiente figliuolo»; dal corpus OVI), poi nell’Ariosto («Di vedovelle i gridi e le querele, / E d’orfani fanciulli e di vecchi orbi»; Orlando furioso, XXVII, 34) e nel Tasso («Padre vecchio, orbo padre, ahi non più padre!»; Aminta, III, 2).
Ma, come risulta dalle registrazionie dagli esempi riportati sia nel Tommaseo-Bellini (dove il primo significato di orbo è appunto: «Privo, Orbato; e dicesi particolarmente di Chi è privo de’ figli, e de’ genitori»; a cui si aggiunge: «Per Orbato, o Privato della moglie, cioè Vedovo; e per converso nel fem. Vedova»), sia nella V impressione del Vocabolario della Crusca («Che ha perduto i figli, o i genitori; e anche, per estensione, Rimasto privo di qualsiasi parente»), sia nel GDLI, questo valore di orbo comprende pure quelli di ‘orfano’e di ‘vedovo/a’.
Inoltre, si tratta di un’accezione che non sembra più documentata nel Novecento: il GRADIT registra il significato (ancora più generico) di orbo come «privo, privato spec. di una persona cara o di qualcosa che è essenziale o necessario», ma lo marca come lett[erario] e lo documenta con esempi di Carducci e di Leopardi.
L’uso di orbo nel senso di ‘privo della vista’ è infatti ormai da tempo quello prevalente: è vero che i figli sono indicati spesso come “la luce dei nostri occhi”, ma ciò non sembra sufficiente a consentire il rilancio di questo significato (cui sembra ostare anche la vitalità della locuzione botte da orbi «percosse fitte e violente, date spec. a casaccio», GRADIT).
C’è però un terzo termine, che presenta minori problemi di accoglimento e che ha la stessa base etimologica di orbo: orbato, participio passato di orbare usato ab antiquo con valore aggettivale, nel senso di ‘privo, privato di qlco. o qlcu.’ e specialmente di una persona cara.
Nel Tommaseo-Bellini (oltre a quanto è stato riportato sopra), s.v. moglie si legge «Moglie vedovata del marito. Nel ling. scritto Orbata» e s.v. orbare si registrano esempi letterari come «La madre sentendo la sentenza del padre contro il figliuolo, per lettere lo pregò, che non la volesse orbare di quel solo figliuolo» e «E manderò contr’a voi le fiere della campagna, le quali vi orberanno di figliuoli».
La V impressione del Vocabolario della Crusca s.v. orbato dà anche il senso specifico di «Privo di figli o privo di genitori», corredato conun esempio dalla versione cinquecentesca in ottava rima delle Metamorfosi ovidiane di Giovanni Andrea dell’Anguillara («Lo stral (il fulmine) che rende i padri orbati e mesti»).
Il GDLI dà questo come primo significato della voce («Colpito negli affetti domestici dalla morte di congiunti, in partic. dei figli, dei genitori del coniuge o anche di un amico; privato di un familiare (in relazione con il compl. di privazione). – In partic.: orfano, vedovo, senza figli» [mio il corsivo]), ma lo marca come antico e letterario.
Il GRADIT, infine, segnala orbato come voce di basso uso nel senso di «che ha subito una perdita, un danno, una menomazione».
Una specializzazione del termine, usato assolutamente, senza ulteriori complementi, sembrerebbe possibile, così come, all’occorrenza, la sua conversione in nome, per renderlo del tutto omologo ad orfano/a e a vedovo/a.
In conclusione, dopo aver indicato le due possibili alternative offerte dal sistema e dalla storia della lingua (disfigliato e orbato), dobbiamo riconoscere che, se l’italiano di oggi ricorre a locuzioni come che ha perso un figlio, che ha perduto il figlio, privato del figlio e simili, è perché, al momento, non dispone di una parola ad hoc. E forse chi ha vissuto questa tragica esperienza non ne sente neppure il bisogno: è ben altra l’assenza che è costretto a lamentare.
5 aprile 2016
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