Una lettrice (che scrive da Varese) chiede se la frase “non mi conta questa cosa”, nel senso di “questa cosa non ha importanza per me / non vale per me”, “questa cosa non mi importa” sia grammaticalmente corretta e, quindi, accettabile.
Per entrare nel merito del quesito occorre, in primo luogo, descrivere per sommi capi la vicenda storico-linguistica del verbo italiano contare:
(a) con il risalire alla sua origine latina (§ 1) e ai suoi possibili confronti con forme parallele attestate in ambito indoeuropeo (§ 1.1);
(b) con il confrontare gli esiti di contare con alcune altre e parallele forme romanze (§ 1.2);
(c) con l’esaminare le attestazioni di contare e dei relativi valori semantici (§ 2).
Tale percorso permetterà di esprimere (§ 3) un parere, motivato, in merito al quesito posto dalla cortese lettrice.
1. L’italiano contare – verbo sia transitivo che intransitivo, attestato dal sec. XIII – è continuazione del latino computāre < cŭm ‘insieme’ + putāre ‘calcolare / contare’ ed è esito diretto, per via popolare, della base latina, alla quale risalgono anche e per altro (ma per via dotta) le forme computare ‘calcolare’ / ‘contare’ e compitare ‘leggere con lentezza, separando e pronunciando uno a uno i suoni, sillabando con cura' > 'sillabare’: computare e compitare mantengono e ripropongono, di fatto, la struttura del verbo latino e, in quanto tali, sono senz’altro da classificare come latinismi: uno dottissimo, computare, assolutamente fedele alla forma-base; l’altro, compitare, meno fedele sì alla forma base, ma pur sempre rispettoso della sua struttura.
Il latino computāre nel valore di ‘calcolare, computare’ (cfr. Giovenale, Satira 6, 199: facies tua computat annos “il tuo aspetto assomma i tuoi anni” > “rivela la tua età”), si alterna con il valore generico di ‘tenere conto di, mettere nel computo’ > ‘valutare’ e con quelli, più specifici, di ‘fare calcoli gretti e meschini’ (in Seneca), ‘calcolare, pensare, considerare’ > ‘stimare’ / ‘reputare’ (in Cipriano), di ‘onorare, tenere in gran conto’ (in Autori cristiani), di ‘attribuire’ / ‘imputare’ (in Agostino e nel Digesto) e, infine, di ‘diminuire’ / ‘accorciare’ (in Apuleio).
Il verbo semplice putāre nasce in ambiente agricolo e il suo valore primario è quello di ‘pulire’ / ‘mondare’ > ‘potare’ > ‘purificare’; cfr. Varrone, R.R. (Rerum rusticarum) 2.2.18: uellus lavare ac putare “lavare e pulire il vello [sc. di ovini]” e sempre in Varrone, R.R. 1.1. ricorre la spiegazione del verbo putāre come purum facere e, parallelamente, ne è spiegato il derivato putātor come colui che arbores puras facit “monda / pota gli alberi”. E, anzi, proprio da questo valore semantico sarebbe derivato quello di ‘tagliare / segmentare’ > ‘contare / calcolare’ e poi di ‘giudicare / pensare’, probabilmente per attrazione del gr. λογίζομαι. Del resto, questa doppia valenza semantica di ‘mondare / tagliare > potare’ e di ‘calcolare / pensare’ si ritrova, rispettivamente, la prima nei composti amputāre ‘recidere’ / dēputāre ‘tagliare via’, la seconda nei composti imputāre ‘mettere in conto’ / disputāre ‘regolare i conti’ > ‘esaminare’ > ‘discutere’.
1.1. Dal punto di vista storico-linguistico è interessante notare che il latino putāre – oltre che con il latino pŭtus ‘schietto’ (cfr. Giurista minore: pūrus (ac) pŭtus ‘puro e semplice’ > ‘bello e buono’ > ‘perfetto’; e l’antica formula pūrus pŭtusque) – e pūrus ‘puro’ prevedono un probabile rapporto anche con le voci sanscrite pūtaḥ ‘purificato’ e pūtiḥ: quest’ultima forma sanscrita è del tutto parallela a lat. pŭter / pŭtris che, dal valore di ‘potato / mondato’ > ‘pulito’ acquista quello di ‘molle / friabile’ > ‘marcio / floscio’ (cfr. Ovidio XV, 43: putres ibat in cineres “si dissolveva in molle cenere”). In ambito indoeuropeo il latino putāre ha per altro confronti sicuri con le forme del lituano piáuti ‘tagliare’ e piúklas ‘strumento per tagliare > sega’.
2. Il latino computāre – oltre ai già menzionati esiti dell’it. contare / computare e compitare, l’uno popolare, gli altri due dotti – continua ampiamente in ambiente romanzo nei valori di ‘contare’ e di ‘enumerare’ > ‘fare un resoconto’ > ‘raccontare’ / ‘narrare’: così cfr. antico dalmatico (veglioto) computà ‘contare’, ladino quintèr ‘contare’, francese compter ‘contare’ vs. conter ‘raccontare’ (il francese distingue, dal punto di vista grafematico, i due significati!), catalano contàr ‘contare’ e ‘raccontare’, spagnolo e portoghese contar ‘contare’ e ‘raccontare’.
2.1. Quanto alla vicenda storica del solo verbo italiano contare – ossia della forma che continua direttamente, per via popolare, il latino computāre – occorre distinguere tra valori del verbo in quanto transitivo (§ 2.2) e in quanto intransitivo (2.3).
2.2. Nel valore di verbo transitivo, l’italiano contare prevede i seguenti valori:
2.3. Nel valore di verbo intransitivo, l’it. contare prevede i seguenti valori:
2.4. Ai valori di verbo transitivo e intransitivo dell’it. contare, vanno aggiunti quelli assoluti, nei significati di ‘proporsi, attendersi, sperare’ (Vincenzo Monti, Epistolario, vol. III: “Io contava di passare in Napoli dentro una settimana”; Italo Svevo, Senilità, p. 527: “Emilio […] contava d’esser di ritorno tra poco; Corrado Alvaro, Settantacinque racconti: “Andò a trovare sua madre. Era distante, ma contava di farcela in una giornata, a piedi”).
3. L’it. contare, nel senso di ‘avere importanza, valere, avere un significato’, detto di cose e persone, è bene acclimatato nel percorso storico-linguistico dell’italiano: se mai, nella frase “non mi conta questa cosa”, proposta nel quesito e nel valore di “questa cosa non ha importanza per me / non vale per me” > “questa cosa non mi importa”, è interessante osservare la presenza del proclitico mi continuante lat. mihi, dativo (etico o di vantaggio) del pronome di prima persona ricorrente per altro anche in espressioni parallele del tipo mi pare bene; mi spiace doverti dire, ecc.
Va segnalato che tale dativo (etico o di vantaggio) può ricorrere anche nel caso di pronomi proclitici di seconda, terza persona singolare (ti, gli/le) o di prima, seconda, terza persona plurale (ci [< *hīcce], vi, gli): “non ti/gli/le/ci/vi/gli conta questa cosa”.
Si tratta, insomma, di un uso del tutto lecito del verbo contare, così come utilizzato in relazione sia a persone (es.: “tu in questa vicenda non conti nulla” [sc. non importi niente]) che a soggetti inanimati (ad es.: “le tue parole contarono moltissimo” [sc. ebbero forte influenza]; “ciò che tu pensi conta davvero poco” [sc. ha poco peso]). E, del resto, una semplice indagine attraverso la consultazione di Google libri (tramite ItTenTen20 su sketchengine.eu) attesta il frequente ricorrere del verbo contare in tale accezione, dal passato a oggi. Di seguito segnalo qualche esempio, diacronicamente significativo:
1786 - Pietro Chiari, Il Diogene nella botte [s.i.p.]: Non si cerca di questo, che ciò non conta nulla. Si cerca se a tuo padre vendette una fanciulla […] e dove sta costei.
1837 - “La Moda. Giornale dedicato al bel sesso”, II, p. 386: tutto ciò che dire, ma il titolo dell’articolo non va bene, e già sapete che io non fo complimenti […] L’avete letto e dite che ciò non conta? Perché è del vostro amico Piazza?
1880 - “Giurisprudenza italiana”, XXXII, p. 131: ciò non importa […] non conta che delle passibilità. Né si obietti che il Zamboni si trova attualmente nelle identiche condizioni in cui…
1889 - “L’eco di San Tommaso d’Aquino. Periodico scientifico letterario”, X, p. 97: Non per altro io credo che per maggior brevità. Non è forse così? […] Il vero perché non… ciò non conta un fico…
1938 – “Case d’oggi. Edilizia e arredamento”, p. 65: Non va bene così […] Ma questo non conta. Venne l’ultima ‘Triennale’ e ognuno sperò che il direttore…
2015 - Tyler Cowen, La media non conta più. Ipermeritocrazia e futuro del lavoro [s.i.p.]: ciò che conta nella società di internet non è più la media ma l’eterogeneità intorno alla media. Ciò che conta non è più la media ma se uno o una si colloca sopra o sotto la media…
2018 – Christine Merril, La vendetta dello zingaro (eLit) [s.i.p.]: non aveva alcuna colpa in ciò che era accaduto tanti anni prima indipendentemente dalla maledizione di Jaelle: a XY conta; non per voi forse...
2022 - Angelo Cannatà, Se questo è un paese. Uno sguardo sul nostro tempo [s.i.p.]: questo non conta per persone capaci di sostenere tutto e il contrario di tutto, anche che B. è ancora fondamentale nello scenario politico italiano…
Infine, una riflessione sul fatto che, in merito alla frase “non mi conta questa cosa” nel valore di ‘questa cosa non ha importanza per me / non vale per me’ > ‘questa cosa non mi importa’, può essere intervenuto, e per pura assonanza, un incrocio con frasi parallele, del tipo “non mi consta questa cosa” e “non mi torna questa cosa” nel significato di ‘questa cosa non mi risulta’ > ‘non vale per me’: questo uso di tornare, forse, influenzato da retroterra dialettali di matrice settentrionale, tutti da indagare. Alla base del possibile incrocio è quindi da porsi, da un lato, l’assonanza tra contare e constare: quest’ultimo verbo, intransitivo e in forma impersonale, può ricorrere nel valore di ‘apparire evidente’ > ‘risultare chiaro/valido’ (es. “non mi consta che le cose siano andate così”; “per quanto mi consta i dati sono sufficienti”); ma anche, d’altro canto, non è da escludere l’influsso del verbo it. tornare nei suoi valori simili di ‘risultare giusto, coerente (detto di un calcolo)’, attestato già agli albori della vicenda storico-linguistica dell’italiano (Paolo dell’Abbaco [Paolo Dagomari, XIII-XIV sec.]: “Ragiungni 2/3 e 2/5 di terzo fae 4/5. E ecco che torna bene”); o di ‘risultare gradito, piacevole’ (Massimo D’Azeglio Epistolario (1819-1866): “A me certo torna più fare il regalo che comprarlo”); o di ‘avere importanza, essere rilevante’ (Giambattista Giuliani, Delizie del parlar toscano: “Noi s’è cercato di zolfare le viti appena che avean messe le prime foglie […]. Si zolfa a tutte l’ore, guazzosa o asciutta che sia la vite, non torna”).
Qualche precisazione, infine, e in merito ai due verbi italiani constare e tornare: l’it. constare è un latinismo secco, di matrice dotta (< lat. cŏnstāre [< cum + stāre]), attestato in italiano dal sec. XIV; il lat. cŏnstāre continua comunque, direttamente e per via popolare, nell’it. costare ‘avere un valore’ > ‘avere un prezzo’: es. “questo libro costa molto” (per parallele continuazioni romanze di lat. cŏnstāre cfr. anche: logudorese costare, friulano kostár, francese coûter, provenzale/catalano/spagnolo costar, portoghese custar); l’it. tornare, attestato dal sec. XIII, continua direttamente il lat. tornāre ‘lavorare al tornio’ [< tŏrnum], ‘far girare’ a sua volta dal gr. τορνεύειν/torneúein ‘lavorare al tornio [τόρνος/tórnos], far girare’). Continuazioni del lat. tornāre – verbo che ha occupato gran parte del dominio semantico del lat. volvĕre – sono ampiamente diffuse in ambito romanzo: romeno turna, logudorese torrare, engadinese turner, francese tourner, provenzale/catalano/spagnolo/portoghese tornar.
Nota bibliografica:
Per le diverse accezioni di contare e tornare e per le relative citazioni letterarie cfr. GDLI s.vv.
Emanuele Banfi
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