Una lettrice ci chiede se siano possibili espressioni come la spero bene o ti spero bene: “si può sperare in qualcuno, sperare qualcosa” ma si può “sperare qualcuno”?
L’espressione “La (pron. personale allocutivo di cortesia e quindi spesso con maiuscola) spero bene” non è rara all’inizio di lettere o mail e non da oggi si affaccia nell’epistolografia italiana. Basta scorrere le pagine di Google e se ne troveranno attestazioni già nel primo Novecento, in lettere di corrispondenti di qualità, non certo sospettabili della sciatteria e frettolosità dell’odierna posta elettronica: la usano (ante 1978) Arturo Carlo Jemolo scrivendo a Carlo Casalegno (G. Spadolini (a cura di), 1965-1978: gli anni della contestazione nel carteggio fra Arturo Carlo Jemolo e Carlo Casalegno, in “Nuova Antologia” n. 2186 aprile-giugno 1993, pp. 361-418), l’ambasciatore tedesco a Roma in una lettera ad Alfredo Frassati del 1921, mons. Achille Ratti (futuro Pio XI) al conte Carlo Cipolla in una lettera presumibilmente ante 1907 (F. Viviani, Pio XI nell’epistolario con Carlo Cipolla, in “Nuovi problemi di politica, storia ed economia, VIII 1937 pp. 343-358) in cui toscaneggia e non risparmia omaggi stilistici: “La spero bene costì. Le auguro ogni bene e me le professo dev. obbl. S.A. Ratti”. Se ne trovano nell’epistolario della signora Gozzano (ante 1944), in una lettera dalla Svizzera italiana (Lugano 1943) e sicuramente in parecchia altra corrispondenza a persone di riguardo. In tutti questi casi la è pronome allocutivo e sono rari quelli in cui non lo è ma richiama anaforicamente persona di sesso femminile precedente nominata, come in una lettera di E. Curiel (ante 1945) dove in “la spero bene”, la è la nipotina (“sorridente e grassottella”) nominata poco prima. Naturalmente la stessa espressione si può trovare, come ricorda la nostra lettrice, anche col ti, allocutivo più familiare, in lettere tra congiunti o persone di confidenza: guarda caso “ti vedo bene” è proprio la formula d’apertura di lettera che, insieme con altre, viene riprovata come troppo banale e poco elegante nel manuale Lettere e scritture per tutti di E.D. Colonna del 1922. In realtà, nel libro appena citato, l’espressione biasimata è più distesa, meno ellittica di quella di cui stiamo trattando ed è: “Ti spero bene in salute”, probabile sintesi colloquiale di “spero che tu stia bene in salute” (cioè stia bene per quanto riguarda la salute), come si vede anche dal “ti spero bene di fisico e di spirito” che si legge in una lettera da Bergamo del 1941(cfr. La prova della vita, a c. di A e Z. Plebani Madasco). Insomma, “La spero bene” (cioè ‘mi auguro, nutro la fiducia che Lei stia bene’) è espressione legittima e non nuova, nata dall’ellissi di una più esplicita che specificava con un complemento di limitazione l’ambito in cui uno era “trovato bene” (si pensi ai numerosi “La/Ti trovo bene” nei dialoghi) dal proprio corrispondente: “La spero bene di/in salute, di gambe/d’/nell’animo ecc,”. Cosa non diversa, ovviamente, si potrebbe dire delle parallele espressioni con ti o (per più persone, anche se a volte si sarà trattato di un plurale di rispetto) con vi. Nulla vieta dunque di usarla, anche se sa di frase fatta, di convenevoli prevedibili e sbrigativi.
Ma perché alla nostra lettrice “La spero bene” sembra grammaticalmente errata? Lo spiega lei stessa, dicendo che il verbo sperare non regge in genere argomenti diretti “umani” ma astratti (“spero la salvezza, la promozione, aiuto”) ed è più spesso costruito con argomento indiretto, umano o non umano (‘sperare in qualcuno o in qualcosa’). In realtà, l’uso transitivo di sperare è abbastanza comune, col senso di ‘attendere con fiducia, augurarsi qualcosa’, ma quasi sempre il suo argomento è espresso da una frase (esplicita o implicita): “spero che tu non abbia perso il treno”, “spero di essere assunto”. Ma la frase può essere spesso richiamata da un pronome neutro, lo, che di fatto diventa l’argomento non frasale più ricorrente con sperare transitivo: “Giorgio dovrebbe aver preso il treno – Lo spero/voglio sperarlo/speriamolo”. Una variante di questo uso di sperare col pronome lo come argomento può essere rafforzata dall’avverbio bene: “Lo spero bene”, che accompagna spesso il verbo sperare, anche senza il lo anaforico: “spero bene”, “Oreste vedrai che ritorna, – disse Pieretto – Spero bene. Domani...” (C. Pavese, La bella estate), in espressioni che manifestano una speranza cauta e quasi diffidente, se non addirittura seccata. Ora, “lo spero bene” è frase sintatticamente non troppo dissimile dal nostro “La spero bene” (sia la allocutivo o anaforico) perché in entrambi i casi l’argomento diretto è espresso da pronome personale ed è lecita in italiano. Costruito con la (di cortesia o personale) il verbo sperare recupera anche un argomento diretto riferito a essere umano che in genere non ha frequentato.
Altro discorso sarebbe quello della gradazione stilistica dell’espressione in esame. Nata o praticata, come abbiamo visto, in registri e ambiti abbastanza formali e forbiti, ha presto finito per diventare una scorciatoia nella comunicazione epistolare, che dà la sensazione che chi scrive voglia rapidamente sbrigarsi dei convenevoli per venire al sodo. Non a caso, in passato, la si irrobustiva con altri complimenti, come in questa lettera a Giacomo Boni (ante 1925): “La spero bene; ogni bene Le auguro e prego – con desiderio e fiducia – di presto rivederla nella sua bellissima tra le dimore belle”! Mentre la variante col ti confidenziale sembra più compatibile con la frettolosità delle cortesie d’esordio, quella di rispetto con il la pare bisognosa di qualche indugio ulteriore prima di entrare in argomento, anche se non così ossequioso come nell’esempio appena citato. Ma è una pura questione di stile, non di grammatica.
Vittorio Coletti
29 luglio 2022
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