Aniello Schettino da Roma e Valerio Italiano da Londra ripropongono un quesito a cui ha risposto Manuela Manfredini sulle pagine della nostra rivista La Crusca per voi (n. 39, ottobre 2009).
Omofobo o omofobico?
Organizzo la risposta a questo quesito in quattro movimenti: 1) un chiarimento preliminare sugli elementi omo- e -fobo/-fobia e sul significato di omo nei termini in questione; 2) le vicende particolari del termine base omosessuale; 3) la nascita dei derivati di -fobia/fobia; 4) la scelta tra omofobo e omofobico.
1) Tra i numerosi elementi formativi scientifici di origine greca e latina che hanno contribuito ad arricchire la lingua italiana di termini di uso specialistico vanno annoverati omo dal gr. homo- 'uguale', e la coppia -fobo/-fobia ricavata dal gr. phobos 'paura', entrati di recente in combinazione nella serie omofobia/omofobo/omofobico, seguendo però strade diverse che vale la pena di ripercorrere.
Il primo elemento omo- di omofobia/omofobo/omofobico non continua direttamente il citato elemento formativo di origine greca homo- 'uguale' (altrimenti una parola come omofobia significherebbe semplicemente e genericamente 'paura dell'uguale, di ciò che è identico'), ma nasce come accorciamento di omosessuale, a sua volta parola composta dalla combinazione di omo- (gr. homo-) con sessuale. La distinzione è importante in quanto, solo se è analizzato come accorciamento di omosessuale, omo porta in composizione, come è tipico degli accorciamenti, il pieno significato della parola da cui è tratto, facendo così assumere ai nuovi composti omofobo/omofobia/omofobico rispettivamente i valori di 'chi o che ha paura, avversione per gli omosessuali', 'la paura, l'avversione per gli omosessuali', 'che riguarda la paura, l'avversione per gli omosessuali'. Il fatto poi che in italiano l'accorciamento omo sia poco utilizzato come parola autonoma, sebbene GRADIT (Grande Dizionario Italiano dell'Uso, diretto da Tullio De Mauro, Torino, Utet, 1999-2000), ne dia un'attestazione datata 1972 con i valori di agg. e di s.m e f. inv. - per il francese, ad es., il Petit Robert attesta l'uso in contesti familiari di homo, come abbreviazione di homosexuel, fin dal 1964 - spiega perché in assenza di un'adeguata contestualizzazione possa non essere così immediato discernere quale dei due elementi della coppia di omonimi omo- 'stesso' e omo- 'omosessuale' sia implicato nella composizione.
2) Vale la pena approfondire l'indagine anche sul termine di base omosessuale che è già un termine impreciso: come sostantivo, costitutivamente non esprime il significato di 'chi ha un comportamento sessuale orientato verso persona dello stesso sesso', ma semplicemente significherebbe, come aggettivo, 'dello stesso sesso'. Evidentemente su questa parola gravano della reticenze, segnalate già da Pietro Janni (Il nostro greco quotidiano. I grecismi dei mass-media, Laterza, 1994, II ed., pp.77-78): "Omosessuale è una parola relativamente recente, non più antica a quanto pare del 1869, quando comparve nella forma homosexual in un testo tedesco [...]. Il primo esempio registrato di homosexuel in francese è del 1891, e anche la forma inglese homosexual risalirebbe agli stessi anni. I primi esempi dell'italiano omosessuale si troverebbero in Giovanni Papini e Filippo Tommaso Marinetti. Oltre che lungo, omosessuale è una formazione poco felice. Il primo elemento omo- riproduce il greco homo- (anche homoio-), usato in molti composti antichi e moderni per esprimere il senso di uguaglianza qualitativa, come in omogeneo e omeopatico. [...] Il secondo elemento è stato preso dal latino, creando uno degli innumerevoli composti ibridi [...]. Anche omosessuale, preso alla lettera, non potrebbe significare altro che 'dello stesso sesso', e quindi non direbbe molto esattamente quel che gli si vuol far dire".
3) Tornando al quesito di partenza, osserviamo che il gruppo omosessuale, omofobia, omofobo/omofobico presenta un comportamento molto simile in molte lingue. Come parole ricavate dalle lingue classiche esse rientrano tra quegli internazionalismi presenti con lo stesso significato e con forma quasi identica in diverse lingue, che sono frutto non tanto della mediazione di una lingua specifica, quanto di "una convergenza interlinguistica di prestiti e calchi che avviene tramite un circuito comunicativo di dimensione internazionale" (C. Iacobini in M. Grossmann - F. Rainer, La formazione delle parole in italiano, Tubinga, Niemeyer, 2004, p. 73): dai principali dizionari risulta che l'inglese ha homophobia, homophobe (s.) e homophobic (agg. e s. equivalente di homophobe); il francese, homophobe (s. e agg.) e homophobie; il tedesco, Homophobie e homophobisch; lo spagnolo, homofobia e homofóbico (agg.).
Come si vede, anche in altre lingue c'è concorrenza tra forme analoghe a quelle italiane in fobo e fobico, e questo dipende dalle vicende della parola fobia. Entrata in italiano (e nelle lingue europee) fin dal secolo XV con la neoformazione idrofobia, si è staccata da questo composto piuttosto tardi (nel 1880 in francese, dal 1899 in italiano) diventando anche parola di uso non specialistico. Ma intanto aveva generato, fin dal secolo XVIII, aggettivi in -fobo (idrofobo). Questo elemento, che non continua direttamente l'aggettivo greco phobos, ma è risultato di parole composte con -fobia, non ha avuto vita autonoma, ma l'ha acquistata quando si è dotato del suffisso -ico, già greco e poi latino: uno dei suffissi più produttivi (come segnalato da B. Migliorini, Fortuna moderna degli aggettivi in -ico [1963], ora in La lingua italiana nel Novecento, 1990, p. 200) per coniare nuovi aggettivi di relazione da sostantivi (con possibile successiva sostantivizzazione dell'aggettivo). Infatti, una volta che da -fobia si è ricavato il s.f. fobia, ecco nascere l'aggettivo fobico, attestato non a partire dagli anni Cinquanta (secondo i dizionari), ma fin dal 1904, in un saggio raccolto nella "Rivista di patologia nervosa e mentale" (fonte: Google Ricerca Libri); seguito a breve dalla sostantivizzazione (in Rubè di G.A. Borgese, 1921: "Un nevrastenico, un fobico").
Se in passato dai sostantivi in -fobia derivavano gli aggettivi in -fobo e, per transcategorizzazione, i sostantivi in -fobo, a partire soprattutto dal secondo Novecento, agli aggettivi terminanti in -fobo si sono affiancati talvolta gli aggettivi in -fobico, avvertiti dai parlanti come dotati di un più forte valore aggettivale, dovuto alla riconoscibilità funzionale del suffisso -ico. Ciò ha complicato notevolmente il riconoscimento di una trafila cronologica di formazione: se è evidente che idrofobia e idrofobo hanno una maggiore anzianità rispetto a idrofobico e che nella serie xenofobia/xenofobo/xenofobico le rispettive attestazioni 1915, 1908, 1987 ricavate da GRADIT confermano la prevedibile successione dei procedimenti di formazione, nel secondo Novecento, dato un astratto in -fobia, la contemporanea azione del procedimento classico (-fobo) e di quello moderno (-fobico) rende quasi impossibile prevedere quale dei due aggettivi sia stato creato per primo. L'azione concomitante dei procedimenti, evidente nella serie sessuofobia/sessuofobo/sessuofobico in cui il 1963 (dal GRADIT) è l'anno di nascita di tutte e tre le parole, è confermata sostanzialmente anche dalle prime attestazioni della nostra serie: omofobia a.1985, omofobo a. 1985, omofobico a. 1992.
4) Di fronte all'intreccio dei percorsi di derivazione e composizione che caratterizza le parole composte con elementi formativi scientifici nel secondo Novecento, per stabilire se sia meglio impiegare omofobo o omofobico non giova ricorrere ai dizionari, dato che la registrazione dei derivati aggettivali non dipende tanto dell'effettivo loro uso quanto dalla selezione che i lessicografi si trovano costretti a fare, specie nei monovolumi, per ragioni di spazio: a parte omofobia, registrata in tutti i dizionari consultati (Sabatini Coletti 2008, Zingarelli 2009, Devoto-Oli 2009, GRADIT, Treccani), omofobo è registrato in Zanichelli 2009 (agg., s.m), in GRADIT (VII vol.: agg., s.m.) e in Treccani (s.m.), mentre omofobico (agg.) figura in GRADIT e Treccani.
Fatte le dovute precisazioni e premesse, alla fine si può rispondere che per quanto riguarda omofobo è da considerarsi corretto sia l'uso in funzione di aggettivo (il suffisso -fobo ha da sempre formato aggettivi in greco e nelle lingue che lo hanno ripreso), sia in funzione di sostantivo (la tendenza alla sostantivazione è già del greco), sebbene i suoi usi come sostantivo siano tutto sommato recenti (in Google Ricerca Libri ne risulta un'occorrenza in una traduzione del 1997; ma numerose sono le occorrenze nel linguaggio giornalistico). Per quanto riguarda omofobico, sebbene nell'uso, per effetto della derivazione immediata, la sua sostantivazione possa avvenire e, anzi, risulti già avvenuta nel 2003 (fonte: Google Ricerca Libri), è consigliabile impiegarlo solo come aggettivo, restituendo al suffisso -ico la sua specifica funzione di sottolineare chiaramente il valore aggettivale.
L'alternativa dunque rimane. Prescrivere l'impiego di omofobo agg. soltanto se riferito a persona e di omofobico agg. soltanto riferito a cosa significherebbe introdurre un discrimine, quello fra sostantivo-aggettivo di persona e aggettivo di cosa, che non ha ragione di utile applicazione ai nomi moderni (cfr. Migliorini, I Germanici, i Britannici, gli Etiopici [1941], ora in La lingua italiana nel Novecento, 1990, p. 220) e che l'uso, anche considerata la recente tradizione delle parole in questione, non saprebbe riconoscere e valorizzare.
Forse l'indebolimento del grecismo -fobo rispetto alla maggiore regolarità di -fobico nella formazione degli aggettivi di relazione potrebbe portare in futuro a sistemi derivanti da -fobia dove gli elementi siano due anziché tre: una terna come omofobia/omofobo/omofobico passerebbe alla coppia omofobia/omofobico più vicina alle strutture dell'italiano, dove omofobico assumerebbe in primo luogo il valore di aggettivo e, per rapido e indolore cambio di categoria, di sostantivo. Ma a favore di omofobo agg. potrebbe intervenire la sua maggiore brevità rispetto a omofobico, caratteristica non indifferente per garantirne la preferenza, perlomeno nel linguaggio giornalistico. In ogni caso, qualsiasi soluzione si adotti, si rimarrà comunque entro l'alveo del grecismo sconosciuto all'antica Grecia.
Manuela Manfredini
10 dicembre 2010
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