Rispondiamo alle domande che ci sono giunte intorno al significato e alla reggenza del verbo optare: si può dire "scegliere di optare"? Quale preposizione preferire quando il verbo regge una frase all'infinito? Le opzioni sono sempre e solo due? Infine un lettore ci chiede chiarimenti sui significati di cooptare e cooptazione.
Importante e singolare è la famiglia del verbo latino optare, ripreso tal quale (all’infinito) in italiano, anche se va registrato pure un suo adattamento (ottare) di minore fortuna, che lascia però osservare, come aveva ricordato Bruno Migliorini, la parentela del verbo con ottativo, nome di un modo (desiderativo) dei verbi in greco. Come il verbo, anche il corradicale sostantivo opzione è vissuto in italiano, fino all’Ottocento, anche in una sfortunata variante adattata, ozione. Si è per molto tempo ritenuto che la grafia dotta e latineggiante, senza assimilazione del nesso consonantico (optare, opzione), fosse dovuta, più che al recupero diretto del latino, all’influsso dei francesi opter, option (il sostantivo è registrato Oltralpe già dal XII secolo), tant’è vero che una delle prime attestazioni della variante dotta è stata a lungo notata solo in un libro francese sull’italiano (dell’Oudin nel 1640) e la sua affermazione nel linguaggio commerciale (di cui è parte anche la modernissima e anglicizzata stock option, la facoltà concessa ad alti dirigenti di acquistare, se lo desiderano, a un prezzo favorevole un dato numero di azioni dell’azienda che amministrano) sembra da collegare alla forte pressione dei gallicismi sull’italiano dell’Ottocento, a partire dall’età napoleonica. Ma oggi l’ampio corpus dell’OVI ci consente di registrare nel Trecento tanto ottare (Bartolomeo da San Concordio: “lo divino imperadore Augusto… non restava d’ottarsi requie”) quanto optare, entrambi nel senso di ‘desiderare’ (“optare è desiderare”, spiega Giordano da Pisa in una predica pisana del 1309). La quarta Crusca, ignorando questi precedenti trecenteschi, riporta il verbo solo in modalità adattata (ottare), mentre in tutte le precedenti edizioni il verbo appare solo in latino (optare) come traducente di eleggere, desiderare. La Quinta (novecentesca) lemmatizza anche ozione, definito con “l’ottare” e ignora anch’essa la grafia dissimilata ed etimologica: due segni evidenti del purismo che a un certo punto aveva un po’ ingessato la nostra Accademia (che proprio con il volume XI, contenente i nostri lemmi, interruppe la pubblicazione del Vocabolario). La famiglia di optare comprende anche, oltre ai termini succitati, l’aggettivo opzionale, attestato secondo il Devoto-Oli 2024 dal XVII secolo, e si allarga all’anglismo del linguaggio automobilistico optional e ai prefissati cooptare e cooptazione di cui ci occuperemo tra poco.
Veniamo alla prima domanda sulla “scelta di optare”. Il compianto Luca Serianni (nella sua Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006) aveva osservato che una delle cose che più spesso infastidiscono chi scruta con meticolosa precisione (chiedo scusa della ridondanza!) la lingua e ne scrive ai giornali per chiarimenti o rimproveri è… la ridondanza, il ripetere o ribadire in una seconda parola il concetto già espresso o contenuto nella prima, come in “uscire fuori”. Ma ormai i parlanti interpretano uscire come non sufficientemente marcato rispetto al luogo (uno può uscire da una stanza per andare in un’altra) e aggiungono spesso fuori per comunicare che il soggetto è andato all’aperto. Le pagine di Google con “uscire fuori” sono numerose. Tuttavia, a volte, il fastidio per la ridondanza è sano e giusto, come quello per “la scelta di optare”, pur non del tutto inammissibile come lo sarebbe “la scelta di scegliere”, ma comunque inopportuna: optare vale sia ‘scegliere’ che ‘desiderare’ e in entrambi i casi si tratta di una predicazione cui mal si addice la dipendenza da una scelta, sia perché lo è essa stessa, sia perché un desiderio non si sceglie, si prova. È vero che in optare c’è un tratto del ‘decidere’ e quindi il connubio con scelta è un po’ meno fastidioso, ma non è proprio il caso di… insistere. Quindi, evitiamo di scegliere di optare e, ovviamente, anche di optare di scegliere.
Quanto alla reggenza di optare, la lettrice si era già data la risposta da sola: si opta “per qualcosa” (spesso un posto, un oggetto: “il vincitore del concorso deve optare per una sede tra quelle vacanti”), o, più raramente (specie con il verbo nel senso di ‘aspirare’), “a qualcosa” (Lazzaro Spallanzani, ante 1799: “la falsa la novella… ch’io ottassi alla cattedra di Storia naturale”). Se segue completiva all’infinito, si opta di (Sforza Pallavicino, 1644: “Hutten aveva ottato di scrivere all’elettore di Magonza”; citazioni da GDLI), con la precisazione che questo costrutto si incontra soprattutto con il verbo in cui al significato base di ‘scegliere’ si sovrappone quello meno comune di ‘decidere’ (da un modulo del 2022 della Capitaneria di Porto di Milazzo: “il candidato ha / non ha optato di proseguire per l’abilitazione a solo motore”).
Si opta o si esercita un’opzione fra due o più possibilità?, chiede una lettrice. Anche se in genere la scelta e soprattutto l’opzione si esercitano tra due e più spesso (anche in latino) tra due si è optato, né il significato del verbo né quello del nome comportano obbligatoriamente la restrizione duale, meno che nel linguaggio giuridico- commerciale, dove il “diritto di opzione” è tra due: “‘Opzione’. Quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia facoltà di accettarla o meno” (Codice civile, 1331 cit. in GDLI).
E veniamo infine ai corradicali cooptare (databile almeno dal 1823) e cooptazione (dal XVIII secolo), di cui chiede un lettore. Cominciamo col dire che le due parole sono derivate dal latino (cooptare e cooptationem) e hanno mantenuto il significato originario di ‘scegliere, eleggere (il verbo) / scelta, elezione (il nome) di un nuovo membro di un’associazione, un club, un’accademia ecc. da parte di quelli che già ne fanno parte e che decidono in piena autonomia’. Anche qui si tratta di voci latine giunte tramite una lingua straniera, o via francese (secondo il DELI), dove circolano dal Seicento, o via inglese (secondo il GDLI), dove sono attestate già dal Cinquecento. Dire che “uno fa carriera per cooptazione” ha perciò significati diversi a seconda del luogo, dell’ambiente in cui il Tizio fa carriera: se è in un club o in un’accademia (della Crusca, dei Lincei, delle Scienze ecc.) o in una Fondazione culturale, è il solo modo che ha per farla, anche se ci si deve augurare che la libera scelta da parte dei soci sia ispirata a una corretta valutazione del valore del nominato e a una scrupolosa selezione del suo nome fra quelli possibili. Se invece si tratta di carriera in un ambiente il cui accesso è regolato da concorsi, sia riservati sia (a maggior ragione) aperti, dire che uno fa carriera per cooptazione può insinuare un dubbio sulla regolarità della sua promozione, sospettarlo di essere stato indebitamente favorito; a volte succede, purtroppo, ma non va taciuto che spesso insinuarlo è segno di invidia più che di accurata misurazione della regolarità della prova superata.
Vittorio Coletti
3 maggio 2024
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