Per augurare ai nostri lettori un felice periodo festivo, pubblichiamo una golosa lista di nomi di dolci natalizi.
Il pane è elemento centrale dell'alimentazione in numerose culture, spesso caricato di particolare sacralità: si pensi solo che la tradizione suggerisce di non infilzarci il coltello e di non posarlo sulla tavola capovolto, e che vige quasi il divieto di gettarlo: non a caso, esistono infinite ricette per riciclare il pane raffermo. A Natale, questo alimento così simbolico si agghinda per le feste: in altre parole, diventa un pane dolce, che in molti casi conserva il richiamo all’alimento da cui deriva quasi solo nel nome.
I due "pani" più rappresentativi del Natale in Italia sono sicuramente il panettone di Milano e il pandoro di Verona, che dividono letteralmente il paese in "panettonisti" e "pandoristi". Anche all'interno di questi schieramenti possiamo individuare ulteriori categorie: tra gli amanti del panettone abbiamo chi apprezza l'uvetta ma non i canditi o viceversa, tra gli appassionati del pandoro i “puristi”, che non ne vogliono sapere di farciture e glasse, e coloro che invece apprezzano le sperimentazioni: un vero scontro all'ultima fetta.
[immagine: Corriere di Carmagnola]
La storia del panettone, il dolce natalizio più famoso d'Italia (e più esportato nel mondo), appare indissolubilmente legata a Milano: già in un glossario dei primi del Seicento del dialetto milanese, il Varon milanes de la lengua de Milan, si fa cenno a un «pan grosso, qual si suol fare il giorno di Natale», come ricordato da Giuseppe Sergio (Il panettone, ovvero Milano alla conquista del Natale, in Massimo Arcangeli [a cura di], Peccati di lingua. Le 100 parole italiane del Gusto, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, pp. 201-203). Si trattava, ancora, semplicemente di un grosso pane preparato per le feste. La tradizione di preparare un grande pane (dal che panettùn) da dividere con i propri cari nelle festività pare risalire al Medioevo. Solo nel XIX secolo il panettone diventa il dolce di Milano, arricchendosi via via di ingredienti golosi e cambiando anche forma: da quella tonda e piatta di focaccia a quella di cupola. Giuseppe Rigutini, nell'Appendice al Vocabolario italiano della lingua parlata (1876), lo definisce «sorta di pane fatto con farina, burro, zafferano e lievitato con birra. Lo fanno assai bene a Milano», a ulteriore prova del fatto che la tradizione del panettone è da considerare milanese. Alberto Cougnet (L'arte cucinaria in Italia, Milano, Società tipografica Successori Wilmant, 1911), nel breve trafiletto che precede la ricetta della leccornia, scrive:
È il dolce più caratteristico d'Italia […]. Andate in qualsiasi città del mondo – vecchio e nuovo – e troverete che il panettone troneggia fra i grossi pezzi della pastellaria dulciaria. Infatti sono convogli intieri di cassette di panettone che partono verso la fine di novembre da Milano per avviarsi verso le lontane Americhe, specialmente, portando colà, ed in altre regioni divinate e scoperte dal genio di Cristoforo Colombo, di Amerigo Vespucci, di Caboto e di Pigafetta, e persino in quelle asiatiche percorse per la prima volta da un europeo, il veneziano Marco Polo, un ricordo folkloristico per la cena tradizionale del "ceppo", il panettone di Natale, che ai buoni Ambrosiani, al di là dei vasti mari e dei continenti infiniti, rammenta l'antico rito che formava la gioia dei loro anni infantili, quando accomunati al domestico banchetto, trionfava, dopo il tacchino o pollin, farcito di mele, di marroni e di tartufi, il colossale panettone.
Pellegrino Artusi, dal canto suo, nell’edizione del 1911 del suo celebre volume La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie (Firenze, Tipografia Landi), a p. 417 riporta la ricetta (la 604) della versione del panettone preparata dalla sua governante, Marietta Sabatini, chiamata in suo onore proprio “Panettone Marietta”. In fondo alla ricetta, Artusi esprime la sua preferenza: «È un dolce che merita di essere raccomandato perché migliore assai del panettone di Milano che si trova in commercio, e richiede poco impazzamento»: all'epoca, insomma, esisteva già una produzione industriale di questa golosità.
La cerimonia del ceppo nominata dal Cougnet viene descritta nei particolari sulla pagina di Academia Barilla in questi termini:
All'inizio di questa sorta di cerimonia il capofamiglia si faceva il segno della croce, quindi metteva nel camino un grosso ceppo di quercia e lo faceva bruciare con un fascio di rami di ginepro. Una volta acceso il fuoco, riempiva un calice di vino e ne gettava qualche goccia sul fuoco, quindi ne beveva un sorso, per poi passarlo agli altri membri della famiglia perché ne bevessero tutti. Una volta terminato il vino, gettava una moneta sempre nel fuoco e ne distribuiva una a testa ad ogni familiare. A questo punto si portavano in tavola i panettoni, di solito tre. Da essi il capofamiglia tagliava una fetta da mettere da parte per farla benedire il giorno di San Biagio, a febbraio, per poi conservarla fino al Natale successivo come portafortuna.
Il nome panettone, dunque, deriverebbe semplicemente dalla sua natura originaria di "grande pane". A questo etimo così disadorno si sono sovrapposte mille leggende, delle quali dà conto Stanislao Porzio in un volume del 2007 (Il panettone. Storie, leggende e segreti di un protagonista del Natale, Milano, Guido Tommasi). Secondo una di queste, il nome deriverebbe da "pane di Toni": alla fine del XV secolo, alla corte di Ludovico Sforza, durante un lungo banchetto, un giovanissimo garzone di panetteria si addormenta mentre doveva sorvegliare il forno in cui cuoceva il dolce. Il dolce si brucia e lui, per riparare al guaio, improvvisa un dolce con la pasta di pane avanzata e tutte le leccornie che trova in giro per la cucina: burro, uvetta, canditi. Questo dolce nato per caso sarebbe piaciuto così tanto al duca da far sì che da lì in poi il pane di Toni venisse servito ogni Natale. In un'altra leggenda è quella di Ughetto della Tela che arricchisce via via la semplice pagnotta per risollevare le sorti della panetteria del padre della ragazza di cui si era innamorato. Si noti, peraltro, che in milanese l'uvetta si chiama proprio ughetta. Questa storia è stata anche usata molti anni fa dall'azienda Motta come pubblicità nel 1949 (foto dall'Archivio Alinari).
Nei libri di cucina dal Novecento in poi possiamo trovare infinite ricette del panettone, qualora volessimo prepararlo (con molta fatica) in casa. Esiste, però, un disciplinare di produzione di questo dolce che prevede l'uso dei seguenti ingredienti: farina, zucchero, uova, burro (almeno il 16% del prodotto), uvetta e scorze di agrumi canditi (almeno il 20% del prodotto), lievito naturale e sale. Gli altri ingredienti sono opzionali; il procedimento per la realizzazione è assai complicato, come si evince dalle molte ricette in circolazione.
Il pandoro viene, invece, da Verona. La storia sembra più recente, tanto che possiamo rintracciare con relativa certezza il "papà" del soffice dolce, che si distingue dal panettone per la mancanza di ingredienti aggiuntivi al suo interno (solo una morbida e burrosa pasta dorata). Si tratta di Domenico Melegatti, che, a fine Ottocento, avrebbe creato il Pan d'oro partendo dalla ricetta del tradizionale dolce veronese del Natale, il nadalin, cotto proprio in uno stampo a forma di stella a otto punte (ma molto più basso rispetto a quello dell’odierno pandoro) e aromatizzato anche con pinoli e anice. Alcune fonti riportano una possibile discendenza da un altro dolce veronese tipico delle feste, il levà ('lievitato'), preparato con ingredienti semplici quali farina, latte e uova. In base al nome, si è data l’ipotesi che il dolce fosse invece nato ai tempi della Repubblica Veneta come Pan de Oro, seguendo l'uso rinascimentale che prevedeva di decorare i dolci con foglie di oro zecchino. Alcuni ritengono probabile anche l'influsso del pane di Vienna (Wienerbrot), un dolce della tradizione mitteleuropea preparato con una pasta tipo brioche (cfr. ad es. A. Lo Russo [a cura di], Dolce Natale: panettone e pandoro. Una tradizione italiana, Firenze, Alinari, 2004). In ogni caso, il Melegatti modifica le precedenti ricette, alleggerendole, e decide di cuocere il pandoro in uno stampo metallico a forma di stella a otto punte, come già quello del nadalin, ma, come dicevamo, più alto.
Il 14 ottobre 1884, Melegatti chiede la registrazione della ricetta del Pandoro (dolce speciale). Assieme alla ricetta, Melegatti registra anche lo stampo in cui l'impasto viene cotto, disegnato per lui dall'artista e pittore veronese Angelo Dall'Oca Bianca (1858-1942). Una forma così iconica da essere stata anche immortalata sulla facciata di Palazzo Melegatti-Turco-Ronca in corso Porta Borsari 21 a Verona, sede originaria del laboratorio di pasticceria omonimo.
[foto: AIFB]
[Registrazione del pandoro da Wikimedia.org]
Come riporta Giuseppe Sergio (Il pandoro, da Verona con furore, in Massimo Arcangeli [a cura di], Peccati di lingua, cit., pp. 194-195), nel 1894, sul quotidiano "L'Arena" di Verona appare il seguente annuncio pubblicitario:
Pan d'oro. Il pasticcere Melegatti avverte la benevola e numerosissima sua clientela di aver allestito un nuovo dolce che per la sua squisitezza, leggerezza, inalterabilità e bel formato, l'autore lo reputa degno del primo posto nomandolo pan d'oro.
Il termine pandoro univerbato compare per la prima volta proprio sul brevetto di Melegatti. Verrà inserito solo molto più tardi nei dizionari: la prima attestazione lessicografica si rintraccia nella quinta edizione del Dizionario moderno di Alfredo Panzini (Milano, Hoepli, 1927): «'Pandòro': dolce di lievito, ricchissimo di burro (Verona). Dal colore aurato dovuto al rosso d'uovo». Il GDLI registra pandoro come sostantivo invariabile (il vol. XII, che contiene il lemma, è del 1984), mentre oggi la lessicografia sincronica è concorde nel considerare il termine declinabile: dunque, pandoro al singolare, pandori al plurale.
[Foto del pandoro con i simboli dell'azienda, la mela e il gatto, da Dolce Natale, op. cit., p. 13]
Per quanto riguarda la ricetta di questa golosità, il suo gusto soffice e avvolgente è dovuto in larga parte alla massiccia presenza di burro: il già citato disciplinare riporta, come ingredienti obbligatori: farina, zucchero, burro (a costituire almeno il 20% del prodotto), lievito, aroma di vaniglia e sale.
Nel 1923, ancora il Cougnet, per la delizia dei nostri palati, nomina un bell'elenco di dolci per le occasioni festive nella sua prefazione a Giuseppe Ciocca, Il pasticciere e confettiere moderno (Milano, Hoepli): «i varii panettoni, pan dolci, pan d'oro, pan gialli, papale, nadalin, pudricca e simili per Natale, Pasqua, Epifania». Questo ci dà l'ispirazione per conoscere alcuni degli altri pani delle feste che esistono in giro per l’Italia.
A Verona molti preferiranno il già nominato antenato del pandoro, il nadalin, anch'esso a otto punte ma più basso. Si narra che il dolce sia stato creato nel XIII secolo, per festeggiare il primo Natale dopo l'investitura della famiglia Della Scala a Signori di Verona. La ricetta odierna prevede, oltre agli ingredienti del pandoro, uova, pinoli, mandorle e limone. La realizzazione, per fortuna, è più semplice di quella del pandoro, perché non prevede tutti i passaggi di rimpasto che caratterizzano la preparazione di quest’ultimo. Dal 2012, il nadalin è un prodotto De.C.O. (Denominazione Comunale di Origine, nata a protezione e salvaguardia dei prodotti tradizionali locali).
[Foto: verona.net]
A Modena si prepara il pane di Natale: anche per questo dolce esistono molte ricette tramandate in famiglia da secoli, anche se quasi tutte sono accomunate dall'abbondante presenza di frutta secca e a guscio, con l'aggiunta di saba e di savor. Due ingredienti apparentemente misteriosi; il primo ce lo spiega l’Artusi (cfr. Alberto Capatti [a cura di], Pellegrino Artusi. La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, Milano, Rizzoli, 2010, ricetta 731).
La sapa, ch'altro non è se non un siroppo d'uva, può servire in cucina a diversi usi poiché ha un gusto speciale che si addice in alcuni piatti. […] Ammostate dell'uva bianca, possibilmente di vigna, di buona qualità e ben matura, e quando sarà in fermentazione da circa ventiquattr'ore, estraetene il mosto e passatelo da un canovaccio. Mettete questo mosto al fuoco e fatelo bollire per molte ore fino a consistenza di siroppo, che conserverete in bottiglie.
Il savor, invece, è una composta tipica dell'Emilia-Romagna che contiene pere, mele, pesche, cotogne, zucca e mosto fresco, con possibile aggiunta di arancia, limone, melone bianco, gherigli di noce… Questi due ingredienti contribuiscono, ovviamente, a rendere ancora più ricco e gustoso il pane di Natale modenese.
A Genova, ma anche in altre parti della Liguria, il dolce del Natale è il pandolce genovese. Detto in ligure pandöçe e chiamato pan du bambin nella zona di Sanremo, è conosciuto negli Stati Uniti con il nome di Genoa Cake (anche se recano questo nome varie preparazioni). L'impasto è arricchito di anice, uvetta sultanina, zibibbo, zucca candita, semi di finocchio, cedro candito e pinoli; deriva, secondo lo storico Luigi Augusto Cervetto, da una antica tradizione persiana. Secondo questa tradizione, andrebbe portato in tavola dal membro più giovane della famiglia, che lo offrirà al più anziano lasciandogli il compito di distribuirlo. Il taglio veniva accompagnato da una formula benaugurale:
Vitta lunga con sto' pan, prego a tutti sanitæ, comme ancheu, comme duman, affettalu chi assettae, da mangialu in santa paxe, co-i figgeu grandi e piccin, co-i parenti e co-i vexin, tutti i anni che vegnià, cumme spero Dio vurrià. (Vita lunga con questo pane! Prego per tutti tanta salute, come oggi, così domani affettarlo qui seduti, per mangiarlo in santa pace coi bambini, grandi e piccoli, coi parenti e coi vicini, tutti gli anni che verranno, come spero Dio vorrà").
Inoltre, una fetta andrebbe tenuta per il primo povero che bussa alla porta e un'altra conservata fino al giorno di San Biagio, protettore della gola, il 3 febbraio, per consumarla allora.
[Foto: GialloZafferano]
Il più tipico dolce del Natale in Toscana è sicuramente il panforte. Come riporta il GDLI, si tratta di un
Dolce natalizio senese confezionato con un impasto sodo di farina, zucchero o miele, spezie, canditi, mandorle e nocciole, talora anche cacao per ottenere una colorazione più scura: viene foggiato in forme circolari, appiattite e di grandezza variabile.
La caratteristica di "pane" è praticamente scomparsa da questo dolce. Oggigiorno si tratta, infatti, di un disco basso, ricchissimo di frutta secca e candita (mandorle, candito nero di popone, candito d'arancio), aromatizzato con spezie tra le quali i semi di coriandolo, i chiodi di garofano, la noce moscata e la cannella. La farina compare solo in piccolissima quantità: poco più del 10% dell'impasto. Discende da antiche preparazioni a base di frutta e miele, che non di rado inacidivano, trasformandosi da pane melato a forte, per l'appunto. Nel Cinquecento, il panforte è già conosciuto fuori dai confini di Siena, tanto che lo si trova nel banchetto per le nozze di Bianca Maria Sforza e Massimiliano D'Asburgo nel 1493 a Innsbruck.
Anche per questa specialità abbiamo una leggenda che ne narra la nascita: una certa Suor Ginevra, entrata in convento dopo aver saputo della morte, durante le crociate, del suo amato, Giannetto da Perugia, scopre che questi è invece sopravvissuto proprio mentre prepara un dolce con il miele. Per la gioia, versa nell'impasto tutte le spezie e la frutta secca a sua disposizione. E scopriamo, nelle Faville del maglio (1916), che anche Gabriele D'Annunzio ne era ghiotto, tanto da rubarlo, durante la sua permanenza al collegio Cicognini di Prato, a un suo compagno senese, finendo così redarguito: «Alunno Gabriele dell'Annunzio, nell'ora dello studio non est capiendum furtim et ruptim il panforte di Siena…» (cfr. Vera Gheno, Quella ghiottoneria del panforte, in Massimo Arcangeli [a cura di], Peccati di lingua, cit.,pp. 204-207).
[Foto: TGCom24]
Nel Lazio, il Natale si festeggia con il pan giallo: una piccola pagnotta contenente miele e frutta secca o da guscio, spesso glassata in modo da assumere il colore giallo che gli dà il nome, ottenuto con tuorlo d'uovo e talvolta zafferano. Probabilmente discende da un dolce descritto già da Apicio, cuoco della Roma imperiale: nel De re coquinaria: «mescola nel miele pepato del vino puro, uva passita e della ruta. Unisci a questi ingredienti pinoli, noci e farina d'orzo. Aggiungi le noci raccolte nella città di Avella, tostate e sminuzzate, poi servi in tavola».
[Un omaggio al sole con il pangiallo romano. Foto: La Cucina Italiana]
La lista dei pani dolci che allietano le festività in Italia è lunghissima. Non possiamo trattarli tutti in maniera particolareggiata, dato che ognuno di essi ha origini spesso antiche e affascinanti. Se, però, questo Natale non volete accontentarvi dei soliti dolci, prendete in considerazione, in ordine alfabetico, anche la bisciola valtellinese (frutta a guscio, uvetta e fichi), il bossolà lombardo (canditi), che nel vicentino diventa bussolà (preparato con abbondanza di uova e grappa), il bostrengo marchigiano (riso, mele, noci, miele), il buccellato siciliano (fichi secchi, noci, nocciole e mandorle, uva passa, e zuccata), il certosino bolognese (frutta secca, frutta candita e cannella), che sempre a Bologna diventa panspeziale in una sua variante (mandorle, pinoli, cioccolato fondente e canditi), la gubana friulana (ripieno di frutta a guscio, uvetta e grappa), il mandorlaccio pugliese (uova, miele e mandorle tritate), il pan'e saba sardo (frutta secca, frutta a guscio, canditi, mosto), il panone di Natale dall'Emilia-Romagna (cioccolato, cacao, frutta secca, frutta candita), il panpepato (opampepato) senese (uvetta, spezie, miele, canditi, progenitore del panforte e preparato per Natale a Siena sin dal XIV secolo [cfr. Giovanna Frosini, Il cibo e i signori, Firenze, Accademia della Crusca, 1993, s.v. pane impepato]) e il suo omonimo umbro (mandorle, cannella, noce moscata, cioccolato, miele, uvetta e pepe), il parrozzo (o pan rozzo) abruzzese (semolino, uova, zucchero, mandorle e una glassatura di cioccolato), la pinza bolognese (mostarda), la pitta 'mpigliata o 'nchiusa calabrese (noci, uvetta, liquore, spezie), la spongata emiliana (pane abbrustolito, amaretti, noci, miele, zucchero, pinoli, uva sultanina, chiodi di garofano, noce moscata, cannella, buccia di arancia, vino bianco), il tronchetto di Natale piemontese (crema di cioccolato e marrons glacées), lo zelten trentino (frutta secca e spezie). Si noterà come il denominatore comune di queste preparazioni sia la ricchezza degli ingredienti: uova, burro, frutta secca e candita, frutta a guscio, cioccolata: mille declinazioni per lo stesso concetto di pane ricco, dolce, per portare fortuna, ricchezza e conforto nel periodo più buio e freddo dell’anno.
E questo per parlare solo di dolci simili al pane. Molte zone dell'Italia preferiscono, infatti, consumare pasticceria minuta. L'importante è che sia altrettanto ricca di ingredienti! Abbiamo così i calzoncelli di Melfi, le cartellate pugliesi, i pepatelli teramani, i ricciarelli senesi, i roccocò campani, il torrone cremonese, i turdilli, le nepitelle e le susumelle calabresi, le zéppole, glistrùffoli e i mostaccioli napoletani, e tanti altri che non sono entrati in questa prima lista.
Non resta, quindi, che rimboccarsi le maniche e preparare un dolce per le feste. O, per i più pigri, prepararsi semplicemente a mangiarlo.
A cura di Vera Gheno
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
Piazza delle lingue: Lingua e saperi
22 dicembre 2017
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
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