Parole e strumenti da antiche tradizioni natalizie

In occasione delle festività natalizie di quest’anno, anziché pubblicare la risposta a uno dei tanti quesiti che ci arrivano, abbiamo deciso di offrirvi una carrellata sulle parole che indicano gli strumenti popolari caratteristici delle musiche della nostra tradizione. Si tratta di una rassegna che cercherà di mettere un po’ d’ordine nella terminologia, proponendo, per ogni nome di strumento considerato, le definizioni (tratte dalla Enciclopedia Garzanti della musica, Milano, Garzanti, 1974, e da La nuova enciclopedia della musica Garzanti, Milano, Garzanti, 1983, indicate di seguito con le sigle G1 e G2), l’etimologia, la datazione, gli esempi letterari che fanno riferimento al Natale, nonché i principali derivati registrati nei dizionari (tra cui spiccano quelli che indicano i rispettivi suonatori). Si tratterà dunque di un viaggio nel passato, per ricostruire le atmosfere del Natale di una volta, ma speriamo che sia gradito anche alle persone più giovani, a cui alcuni termini citati risulteranno pressoché sconosciuti.

Risposta

Premessa

Tra le figure che non possono mai mancare in un presepio della tradizione napoletana figura la coppia dello zampognaro e del pifferaro: si tratta dei suonatori di zampogna e di piffero che si vedevano realmente e regolarmente, ancora almeno fino agli anni Sessanta, in molte città italiane dell’Italia centromeridionale prima e durante le feste natalizie. Discesi da paesi appenninici, essi si esibivano per strada; spesso, però, non si trattava di una coppia ma di un trio, perché gli zampognari erano due e il secondo, più giovane e meno impegnato musicalmente, a un certo punto interrompeva di suonare per chiedere i soldi ai passanti, porgendo loro il proprio cappello, e per raccogliere per terra le monete che venivano lanciate dalle finestre. La tradizione, mutatis mutandis, esisteva anche in Toscana e in varie zone dell’Italia settentrionale. I nomi italiani dello “strumento musicale a fiato di origine e carattere pastorale, costituito da una o più canne sonore fissate ad altrettante aperture di un otre di pelle, nel quale si accumula l’aria immessa tramite un cannello dalla bocca del suonatore o da un mantice da lui manovrato con il braccio” (questa la definizione di zampogna nel GRADIT) sono vari e, lasciando da parte il piffero, li passiamo in rassegna.

Zampogna

Iniziamo da quello che forse va considerato il nome più tipicamente natalizio dello strumento e vediamo anzitutto le definizioni che ne danno G1 e G2:

zampogna, strumento popolare affine alla cornamusa, diffuso soprattutto nella Calabria e negli Abruzzi. È formato da una sacca di pelle, di pecora o di capra, cui sono connessi tre o quattro tubi sonori ad ancia doppia. Solo due di questi tubi posseggono fori che permettono di variare l’altezza del suono. Gli altri tubi sono invece a suono fisso e generano il caratteristico accompagnamento in bordone, che tanti musicisti hanno imitato nei brani “pastorali” della tradizione sinfonica.

zampogna, strumento aerofono della musica popolare diffuso in una grande varietà di tipi in tutta l’Europa, in Asia sino all’India, e nell’Africa settentrionale. Consiste in una o più canne sonore inserite in appositi innesti di legno, di corno o di metallo (blocchi) fissati ad altrettante aperture di un otre di pelle entro il quale si accumula l’aria, immessavi tramite un cannello dalla bocca del suonatore o da un mantice da lui manovrato con il braccio. L’aria, sotto la pressione del braccio del suonatore che stringe l’otre, alimenta le ance semplici o doppie di cui le canne sono munite. Una o due di queste (chanter) sono dotate di fori per le dita, e producono la melodia e l’accompagnamento armonico ritmico; le altre canne (bordoni) sono prive di fori e producono ciascuna un’unica nota costante, che fornisce l’accompagnamento di base, in accordo consonante con la nota fondamentale del chanter. L’origine della z. va collocata probabilmente nel Vicino Oriente attorno agli inizi dell’èra cristiana. Essa era comunque nota ai romani (tibia utricularis), anche se considerata strumento esotico e di uso marginale. Nel medioevo la z. divenne in occidente uno degli strumenti più diffusi […] // Nome attribuito per antonomasia allo strumento a riserva d’aria diffuso nell’Italia centro-meridionale, e caratterizzato dalla presenza di due chanter, intonati da intervallo di quarta o di ottava, e uno o più bordoni tutti raggruppati in un unico blocco inserito nel collo dell’otre. [I diversi tipi sono raggruppabili in 2 categorie]: una a chanter conici ad ancia doppia, con canne diseguali, e l’altra a chanter cilindrici o cilindro-conici con canne di eguale lunghezza. Tra le prime spiccano la z. a chiave e la cosiddetta zoppa (priva di chiave), diffuse in Lazio, Molise, Campania, parte della Calabria e della Sicilia (Palermo); tra le seconde, le z. dette a paro (Calabria, Sicilia orientale), la surdulina italo-albanese, la z. di Fossalto (Molise) con tubi di canna. […] // Nome attribuito talora a vari strumenti che somigliano alla z. propriamente detta per timbro o perché muniti di ancia […].

La parola (che per il GRADIT rientra nel Vocabolario di Base, nella sezione delle voci “ad Alta Disponibilità”) è documentata già in italiano antico e il primo esempio registrato nel TLIO è quello tratto dal volgarizzamento fiorentino del Tresor, della fine del sec. XIII:

E [[il cecino]] volentieri ascolta; quando oda cantare, o sonare suono di zampogna, dolcemente vi si raunano

Un esempio importante, che di certo ha contribuito a mantenere viva la parola nella tradizione letteraria, è quello di Dante, all’interno di una similitudine:

E come suono al collo de la cetra / prende sua forma; e sì come al pertugio / de la zampogna vento, che penetra; / così rimosso d’aspettar indugio / quel mormorar de l’aguglia salissi / su per lo collo, come fosse bugio. (Paradiso, c. XX, vv. 22-27)

Ma in italiano antico è diffusa soprattutto la forma sampogna, che è infatti scelta come voce principale nelle quattro edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca in cui il termine è registrato, nonché quella più vicina all’etimo. La parola costituisce infatti “l’esito popolare del lat. symphonĭa, dal gr. symphōnía nel sign. di ‘strumento musicale’ con rafforzamento della s- e abbassamento della -i- pretonica davanti a nasale” (l’Etimologico) e ha come allotropo dotto appunto sinfonia, anch’esso documentato già in italiano antico, ma con l’accentazione alla greca (questa coppia di allotropi ricorda un po’ quella formata da piazza e platea) e il sign. di ‘fusione di suoni, accordo, armonia; orchestra’. La separazione tra musica colta e musica popolare è qui netta e non a caso tra gli aggettivi che affiancano zampogna figura spesso (per es. tra le rime degli Arcadi) umile (a volte da leggere, per motivi metrici, come umìle).

Proponiamo due esempi in prosa novecenteschi, nel secondo dei quali le zampogne natalizie appaiono già come un ricordo del passato:

La vigilia di Natale, Marco Picotti sentiva venire dalla strada il suono delle zampogne e dell’acciarino [‘strumento musicale a fiato’, termine registrato nel GDLI come disus[ato], n.d.r.] e il coro delle donne e dei fanciulli per l’ultimo giorno di novena davanti alla cappelletta parata di fronde; udiva lo schioppettio dei due grossi fasci di paglia che ardevano sotto quella cappelletta; e così angosciato, si disponeva ad andare a letto all’ora solita, allorché una furiosa scampanellata lo fece sobbalzare, quasi con tutta la casa. (Luigi Pirandello, Luigi Pirandello, L’uccello impagliato, in “Corriere della Sera”, 16 gennaio 1910, p. 3; poi in Id., Terzetti, Treves, Milano, 1912; infine in Id., Novelle per un anno, Milano, Mondadori, 1937-1939, vol. II, p. 853)

Per le strade, nei negozi, negli uffici, nelle fabbriche, uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi l’un l’altro, come automi, delle monotone formule: buon Natale, auguri, auguri, a lei, grazie altrettanto, auguri, auguri, felici feste, grazie, auguri, auguri, auguri. Era un brusìo che riempiva la città. «Ma ci credono?» chiese il bue. «Lo dicono sul serio? Vogliono veramente così bene al prossimo?» L’asinello tacque. «E se ci ritirassimo un po’ in disparte?» suggerì il bovino. «Ho ormai la testa ch’è un pallone. Comincio a sentire nostalgia di quella che tu chiami atmosfera natalizia.» «Be’, in fondo, anch’io» disse il somarello. Sgusciarono attraverso le cateratte vorticose d’automobili, si allontanarono un poco dal centro, dalle luci, dal frastuono, dalla frenesia. «Dimmi, tu che sei pratico» chiese il bue, ancora poco persuaso «ma sei proprio sicuro che non siano usciti tutti pazzi?» «No, no, è semplicemente il Natale.» «Ce n’è troppo di Natale, allora. Ma ti ricordi, quella notte, a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino? Era freddo, anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso!» «È vero. E quelle zampogne lontane, che si sentivano appena appena». (Dino Buzzati, Troppo Natale, “Corriere della Sera”, 25/12/1959, p. 3; rist. in Id., Lo strano Natale di Mr Scrooge e altre storie, Milano, Mondadori, 1990)

Tra i derivati di zampogna, si segnala anzitutto zampognaro (da notare la presenza del suffisso -aro e non -aio, che ne documenta l’origine non toscana), che indica (a partire dalla fine del Cinquecento) il suonatore di zampogna e che documentiamo con l’inizio di una poesia per l’infanzia di Gianni Rodari intitolata appunto Lo zampognaro:

Se comandasse lo zampognaro / che scende per il viale, / sai che cosa direbbe / il giorno di Natale? / «Voglio che in ogni casa / spunti dal pavimento / un albero fiorito / di stelle d’oro e d’argento». (Gianni Rodari, Filastrocche in cielo e in terra, Torino Einaudi, 1972 [19601], p. 98)

Esiste poi, ma è ormai arcaico, il verbo denominale zampognare ‘suonare la zampogna’, registrato nella 3a e nella 4a edizione del Vocabolario della Crusca, con un esempio (forse non autentico) da una predica di fra’ Giordano da Pisa (“I pastori che dolcemente zampognavano”), ma documentato anche nel GDLI, con esempi del sec. XV (e pure con significati traslati). Le stesse due edizioni della Crusca registrano anche zampognatore ‘che zampogna’ (invece di zampognaro) e la 4a edizione anche il diminutivo zampognetta, con un esempio dal Morgante del Pulci (“Io me ne vo pe’ boschi puro, e soro / con la mia zampognetta, che pur suona”), mentre molto più recente è zampognata ‘sonata di zampogna’, registrato con la data 1987 nel GRADIT (che lemmatizza pure il participio passato zampognato). Il GDLI registra anche il parasintetico inzampognare (o insampognare), che è lemmatizzato (solo nella forma con z) fin dalla 1a ed. della Crusca, con semplice rimando a finocchio, ma glossato, come ‘infinocchiare’, già nella 2a (nelle successive, compresa la 5a la voce viene via via ampliata e corredata da esempi).

Come si è detto, la parola zampogna è usata dalla Toscana in giù; nei dialetti settentrionali è diffusa una forma alterata, zanforgna (registrata come regionale anche nel GDLI con un esempio di Ugo Foscolo), che figura, con le varianti sanforgna e scianforgna nel Vocabolario milanese di Francesco Cherubini (Milano, Imp. Regia Stamperia, 1840) e in altri dizionari dialettali della Lombardia e dell’Emilia con il significato di ‘scacciapensieri’. Che si tratti di uno strumento diverso pare documentato anche dall’attestazione più antica che siamo riusciti a reperire su Google libri, in cui i due termini sono coordinati:

O dolce, e soave vita della villa, ove si gode suoi soggetti piacevoli, e semplici, ove s’odono canti di quelle villanelle, la zanforgna, la sampogna, il suono di teglia, e le armoniche musiche de tant[i] u[c]celli variati. (Compagnia della Lesina, Il rastrello tira a se [sic], de contadini Ragionamento del Pensabene Pelicani sostituito per ammaestrare li Novizii, che furono della Lesina, et avertirli dalle malitie de’ Contadini, In Vicenza, per li heredi di Perin libraro, 1602)

Cennamella e Ciaramella

I due termini sono considerati equivalenti in G1 e in G2 in cui si leggono le seguenti definizioni, tra loro piuttosto diverse (interessante è anche il cambiamento del lemma principale):

cennamella (o cialamello o ciaramella), antico strumento a fiato ad ancia doppia già in uso nel XII sec., che dette origine alla bombarda al cromorno e quindi all’oboe || Tipo di cornamusa usata nella musica popolare di alcune regioni italiane, formata da un otre collegato a quattro canne di differente lunghezza, due delle quali fungono da pedali, emettendo suoni fissi a intervalli di quinta.

ciaramella o cennamella o cialamello, antico strumento aerofono ad ancia doppia e canneggio conico che costituisce il prototipo della bombarda rinascimentale, nella famiglia della quale andò a costituire lo strumento di tessitura più acuta. Era privo di chiavi e montava l’ancia inserita nella piroetta. Disponeva di 7 fori digitali. || Oboe popolare in uso di alcune aree dell’Italia meridionale ove è suonato in coppia con la zampogna. Ne esistono taglie diverse, destinate a suonare con zampogne di uguale intonazione, o a formare gruppi di 2, 3 o più c. che eseguono, con la zampogna, musiche strutturate in parti. Il numero dei fori digitali varia, a seconda delle zone, da 8 a 9. Nell’Appennino salernitano si usano anche in coppie suonate dallo stesso suonatore, in modo che richiama l’antico aulos.

Anche per il GRADIT le forme cennamella e ciaramella (etichettate entrambe come Termine Specialistico e datate rispettivamente 2a metà sec. XIII e av. 1698) sono varianti: la definizione, posta s.v. cennamella, è quella di ‘antico strumento a fiato simile alla piva e alla cornamusa’, ed è la stessa fornita dal GDLI sotto la stessa voce, che riporta le varianti celamella e ciantella. Il GDLI considera invece ciaramella un’entrata autonoma, nel senso di ‘strumento a fiato, specie di piva a due canne, di cui una comunica con l’otre mentre con l’altra si può modulare il suono’ (con esempi, a volte metalinguistici, da Francesco Redi ad Alfredo Panzini), così come chiaramella, registrata nel senso di ‘cornamusa’, con l’etichetta ant. e un unico esempio di Francesco Fulvio Frugoni (Genova, c. 1620 - Venezia, 1686).

Che si tratti di voci antiche è dimostrato dal fatto che il TLIO lemmatizza sia cennamella sia ciaramella; sotto la prima sono riportate anche le forme (sing. e pl.) cemamelle, cenamella, cenamelle, cennamelle, ciemamelle, cienamella, sotto la seconda pure çalamele, çaramela, çaramele, çaramella, caramelle, çaramelle, celamelli, ceramella, ceramelle, cerammelle, ceremelle, chalamella, chalamelli, charamella, chiaramella, ciramelle, zaramelle. Il significato fornito per entrambe è quello di ‘strumento musicale a fiato’ (ma di cennamella è registrato anche il significato metonimico di ‘suonatore dello strumento’ e quello estensivo che vedremo tra poco) e tutte e due sono documentate fin dal sec. XIII. Comune è anche l’etimo, per il quale la lessicografia è sostanzialmente concorde. Leggiamo quanto scrive al riguardo l’Etimologico, s.v. cennamella:

dall’a. fr. chalemelle ‘piva, cornamusa’, strumento popolare formato da un otre e due canne, una per suonare e l’altra per gonfiare l’otre; lat. calamellu(m) (da cui anche CARAMELLA), dim. di calămus ‘canna’: il lat. mediev. (Venezia) zaramella e l’aret. ciaramèlla rappresentano uno stadio intermedio del processo di dissim. che ha dato cennamèlla.

La forma cennamella – per la quale Alfredo Schiaffini, Su denominazioni di provenienza francese di strumenti musicali, in “Italia dialettale” IV (1928), pp. 224-230: p. 229, postulava una diretta derivazione dal fr. ant. chanemelle – ha anche un’attestazione nella Commedia di Dante (“né già con sì diversa cennamella / cavalier vidi muover né pedoni”, Inferno, canto XXII, vv. 9-10), nel senso generico di ‘oggetto che produce suoni’, con ripresa metaforica dell’immagine della trombetta del diavolo Barbariccia.

Per quanto riguarda le attestazioni letterarie in rapporto al Natale, la più nota è quella di ciaramella al plurale, nel titolo e nel testo (in varie occorrenze) di una poesia di Giovanni Pascoli compresa tra I canti di Castelvecchio, che riportiamo integralmente:

Udii tra il sonno le ciaramelle, / ho udito un suono di ninne nanne. / Ci sono in cielo tutte le stelle, / ci sono i lumi nelle capanne. / Sono venute dai monti oscuri / le ciaramelle senza dir niente; / hanno destata ne’ suoi tuguri / tutta la buona povera gente. / Ognuno è sorto dal suo giaciglio; / accende il lume sotto la trave; / sanno quei lumi d’ombra e sbadiglio, / di cauti passi, di voce grave. / Le pie lucerne brillano intorno, / là nella casa, qua su la siepe: / sembra la terra, prima di giorno, / un piccoletto grande presepe. / Nel cielo azzurro tutte le stelle / paion restare come in attesa; / ed ecco alzare le ciaramelle / il loro dolce suono di chiesa; / suono di chiesa, suono di chiostro, / suono di casa, suono di culla, / suono di mamma, suono del nostro / dolce e passato pianger di nulla. / O ciaramelle degli anni primi, / d’avanti il giorno, d’avanti il vero, / or che le stelle son là sublimi, / conscie del nostro breve mistero; / che non ancora si pensa al pane, / che non ancora s’accende il fuoco; / prima del grido delle campane / fateci dunque piangere un poco. / Non più di nulla, sì di qualcosa, / di tante cose! Ma il cuor lo vuole, / quel pianto grande che poi riposa, / quel gran dolore che poi non duole; / sopra le nuove pene sue vere / vuol quei singulti senza ragione: / sul suo martòro, sul suo piacere, / vuol quelle antiche lagrime buone! (G. Pascoli, Canti di Castelvecchio, Bologna, N. Zanichelli, 1905 [19031], p. 31)

Ma lo stesso poeta ci offre anche un precedente esempio di cennamella, nella poesia Il carrettiere, da Myricae:

O carrettiere che dai neri monti / vieni tranquillo, e fosti nella notte / sotto ardue rupi, sopra aerei ponti; / che mal diceva il querulo aquilone / che muggìa nelle forre e fra le grotte? / Ma tu dormivi, sopra il tuo carbone. / A mano a mano lungo lo stradale / venìa fischiando un soffio di procella: / ma tu sognavi ch’era di natale [sic]; / udivi i suoni d’una cennamella. (G. Pascoli, Myricae, Livorno, R. Giusti, 18943)

Tra i derivati, il TLIO presenta un’unica attestazione di ciaramellatore ‘suonatore di ciaramella’, negli Statuti senesi del 1309; la presenza del suffisso -tore postula però la derivazione dal verbo ciaramellare, documentato dal 1557 nel senso di ‘chiacchierare’, che il GRADIT e il GDLI riconnettono infatti alla nostra ciaramella; il GDLI fa derivare dal verbo sia ciaramella2 ‘chiacchiera’ e ‘chiacchierone’, sia ciaramellio ‘chiacchierio’. Un altro derivato è ciaramellaro ‘suonatore di ciaramella’, datato av. 1906 nel GRADIT e documentato nel GDLI con un esempio ancora di Pascoli: “O povero ciaramellaro dei monti, perché hai dunque sonato l’avvento? l’avvento di che?” (L’avvento, in Pensieri e discorsi, 1895-1906). Esiste anche cennamellaro (il suffisso è -aro anche in questi casi, come per il suonatore della zampogna), registrato nel Supplemento 2009 del GDLI e di cui riportiamo un esempio di fine Ottocento, in cui compare anche lo strumento, distinto dalla cornamusa:

Importante per la storia dei costumi italiani nel medio evo, il saggio del sig. Zippel interessa pure nel campo dell’arte musicale per quel periodo, cosi scarsamente noto, che precede il Rinascimento. Vi si tratta di cennamellari, cemballari, tubatori, pifferari, trombetti, ecc., eletti dai Priori della repubblica fiorentina per il fasto del Comune dal 1292 fino a quando coi Medici l’arte, salita a maggior perfezione, ottenne onori e favori più seri. É fatta menzione degli stromenti usati in quell’epoca: cennamelle, nacchere, cembali, pifferi, bombarde, cornette, cornamuse, tromboni, viole, liuti, ecc., che l’A. illustra con molta dottrina e con mirabile sobrietà di parola. (O. C., Nota bibliografica su Giuseppe Zippel, I Suonatori della Signoria di Firenze (Saggio), Trento, Zippel, 1892, in “Rivista musicale italiana”, I, 1894, p. 167)

L’accostamento (e quindi la distinzione) tra cennamella e cornamusa si ha anche in una poesia di Angelo Maria Ricci del primo Ottocento dedicata al Natale:

E come luccioletta andar si scerne / venian pastori intanto e pastorelle / con parlar vario e con canzoni alterne, / ballonzando scendean le bianche agnelle / immemori del monte e delle prata / al suon di cornamuse e cennamelle: / dir parea l’inno: O Efrata beata, / salve, salve del pane o casa antica, / quanta pace tu spiri a chi ti guata! (Pel santissimo Natale del Redentore Egloga biblica ad imitazione di quella di Ruth del cav. Angelo Maria Ricci del S.O.G, Roma, tipografia Marini, 1832, p. XVI)

Come zampogna, anche ciaramella è voce propria del Centro-Sud, come documenta la diffusione dei cognomi Ciaramella, frequente soprattutto in Campania, Ciaramellano in Abruzzo, Ciaramelletti nel Lazio e Ciaramelli in Toscana.

Cornamusa

Di tutti i nomi esaminati, quello della cornamusa è certo quello meno marcato regionalmente: è usato infatti anche per indicare gli strumenti musicali tipici della Scozia, dell’Irlanda, della Galizia e del Portogallo, che presentano caratteristiche diverse tra loro e soprattutto diverse dagli strumenti italiani, tanto che il GRADIT (per il quale la parola è propria del Vocabolario Comune, oltre a essere Termine Specialistico) considera improprio il suo uso come equivalente di piva o di zampogna (salvo poi definire la piva, s.v., ‘cornamusa, zampogna’), ed è adoperato anche come iperonimo, che comprende tutti gli aerofoni analoghi. Leggiamo anzitutto le definizioni di G1 e G2:

cornamusa, strumento popolare a fiato, detto anche piva. È costituito da un otre di pelle di montone in cui l’aria viene insufflata mediante un’apposita canna. Premendo l’otre contro il corpo con il braccio, l’aria fuoriesce da altre canne (in numero variabile), una delle quali produce la melodia mentre le restanti danno suoni fissi d’accompagnamento. Di origine antichissima è diffuso in molti paesi europei e in Asia Minore.

cornamusa, uno dei nomi con cui si è soliti designare lo strumento aerofono ad ancia con sacco di riserva d’aria, noto anche come piva o zampogna. È attestato nella lingua italiana fin dal medioevo, anche se a volte è stato riferito a strumenti di altro tipo, come nel rinascimento quando c. era anche il nome di una famiglia di aerofoni ad ancia doppia incapsulata simili a un cromormo diritto, descritti da Praetorius con il nome tedesco di Schryari (o Schreierpfeife). In altri casi si è equivocato il nome cornamuto con c. e si è così pensato erroneamente di identificare quest’ultima con uno strumento a bocchino. Oggi si tende a usare il nome c. per definire la generalità degli strumenti muniti di otre, lasciando gli altri termini a designare singoli casi specifci con cui la c. si manifesta regionalmente (es. zampogna. = c. dell’Italia centromeridionale). […] In Francia, nella zona del Massiccio Centrale, il termine cornemuse indica una tipica forma locale […].

Come le ciaramelle, anche le cornamuse sono citate in una famosissima poesia natalizia, La notte santa di Guido Gozzano, nella parte finale, che riportiamo:

È nato! / Alleluja! Alleluja! / È nato il Sovrano Bambino. / La notte, che già fu sì buia, / risplende d’un astro divino. / Orsù, cornamuse, più gaje / suonate; squillate, campane! / Venite, pastori e massaje, / o genti vicine e lontane! / Non sete, non molli tappeti, / ma, come nei libri hanno detto / da quattro mill’anni i Profeti / un poco di paglia ha per letto. / Per quattro mill’anni s’attese / quest’ora su tutte le ore. / È nato! È nato il Signore! / È nato nel nostro paese! / La notte che già fu sì buja / risplende d’un astro divino. / È nato il Sovrano Bambino / È nato! / Alleluja! / Alleluja! (G. Gozzano, La notte santa, in Id., Opere, 5 voll., Milano, Fratelli Treves, 1928-1937, vol. V - Le dolci rime, 1937, p. 17)

Sebbene attestata in po’ più tardi rispetto a zampogna, cennamella e ciaramella, pure cornamusa è voce documentata già in italiano antico, anche nella variante cornamuza, citata dal TLIO accanto ai plurali cornamuse e cornemuse. La prima attestazione è nella Cronica del fiorentino Giovanni Villani (1348), dove indica però, per metonimia, il suonatore dello strumento; mancano attestazioni in area settentrionale e meridionale estrema, ma se ne trovano ancora esempi negli Statuti senesi e, in area centro-meridionale, nella Cronica di Anonimo romano e in quella aquilana, in versi, di Buccio da Ranallo. La presenza nel Decameron di Boccaccio, alla fine della sesta giornata (“Ma il re, che in buona tempera era, fatto chiamar Tindaro, gli comandò che fuori traesse la sua cornamusa, al suono della quale esso fece fare molte danze”) e poi nella settima, ha garantito a cornamusa la registrazione fin dalla 1a ed. del Vocabolario della Crusca, dove si riporta anche l’espressione far cornamusa:

Diciamo in proverbio. E’ mi vuol far cornamusa voler far cornamusa a uno, cioè. E’ mi vuol dare ad intendere cosa non credibile, o stravagante, detto da quel gonfiare, che si fa il sacchetto delle cornamuse, perciocchè GONFIARE diciamo metaforicamente, per dare ad intendere, e simile, INZAMPOGNARE, tolto dalla zampogna.

Nel sec. XVI la cornamusa era considerato uno strumento plebeo (ma forse ciò vale per tutti gli strumenti analoghi), come dimostra questo passo del Galateo:

Sono alcuni che hanno per vezzo di torcer tratto tratto la bocca o gli occhi o di gonfiar le gote e di soffiare o di fare col viso simili diversi atti sconci; costoro conviene del tutto che se ne rimanghino, perciò che la dea Pallade – secondamente che già mi fu detto da certi letterati – si dilettò un tempo di sonare la cornamusa, et era di ciò solenne maestra. Avenne che, sonando ella un giorno a suo diletto sopra una fonte, si specchiò nell’acqua e, avedutasi de’ nuovi atti che sonando le conveniva fare col viso, se ne vergognò e gittò via quella cornamusa; e nel vero fece bene, perciò che non è stormento da femine, anzi disconviene parimente a’ maschi, se non fossero cotali uomini di vile conditione che’l fanno a prezzo e per arte. (Giovanni Della Casa, Il Galateo, overo De’ costumi [1558], Modena, Panini, 1990; da BibIt)

Quanto all’etimo, anche in questo caso si parte dal francese antico, dove è documentato dal sec. XIII cornemuse, a sua volta “der. di cornemuser ‘suonare la cornamusa’, comp. tautologico formato con corner ‘suonare il corno’ e muser ‘suonare la musette’” (l’Etimologico).

Tra i non molti derivati, GDLI segnala come ant. sia il verbo cornamusare, registrato anche dal Vocabolario Treccani in rete, sia nel significato di ‘suonare la cornamusa’, sia in quello di ‘parlare alle spalle di qualcuno’ (documentato in Pietro Aretino), sia il nome cornamusino ‘suonatore di cornamusa’ (formato col suffisso -ino, usato per nomi d’agente sia deverbali sia denominali), mentre il GRADIT registra, oltre a cornamusare (a proposito del quale cita anche il fr. cornemuser), cornamusaro (datato 1983, col femminile cornamusara) e il part. pass. cornamusato.

Collegata a cornamusa è la voce musetta, adattamento (datato nel GRADIT 1722) del fr. musette (diminutivo di muse, derivato dal verbo muser ‘suonare la cornamusa’: cfr. quanto si è detto sopra, trattando dell’etimologia); oggi si usa per lo più la forma non adattata (datata nel GRADIT 1895), che indica che indica uno ‘strumento musicale simile alla cornamusa, diffuso in Francia tra il XVII e il XVIII sec., formato da un sacco di cuoio o di stoffa con due canne parallele, una a sei buchi e l’altra a tre zufoli’ e che, nel linguaggio musicale si usa anche nella loc. valzer musette, che indica la danza con l’accompagnamento di questo strumento. L’unico rapporto con il Natale, in questo caso, è che il personaggio di Musetta nella Bohème di Giacomo Puccini (nell’omonima opera di Leoncavallo mantiene la forma non adattata Musette propria del romanzo francese da cui le due opere derivano) compare in scena nel secondo atto, ambientato nel Quartiere Latino di Parigi la notte della vigilia di Natale.

Piva

Veniamo così a quello che possiamo considerare il geosinonimo centrosettentrionale di zampogna, e cioè piva. In questo caso non disponiamo delle definizioni di G1 e G2 (che, come si è visto sopra, citano piva s.v. cornamusa). Notiamo subito che piva può anche indicare semplicemente “l’insieme dei pifferi e dei bordoni da cui è costituita la cornamusa” (GRADIT, che marca questa accezione come Termine Specialistico, mentre attribuisce l’etichetta Comune all’intera voce e al significato di ‘cornamusa, zampogna’); questo significato spiega probabilmente il detto andarsene (o tornare) con le pive nel sacco ‘con tristezza e delusione per non aver combinato niente di buono’ (forse senza neppure aver messo in funzione lo strumento), espressione documentata già nel sec. XVI in una lettera alla madre Aloisia di Baldasar Castiglione.

Tra i brani “natalizi” in cui compare la piva, partiamo stavolta da un libretto d’opera, Chatterton, tratta dal dramma di Alfred de Vigny (autore sia del testo sia della musica è Ruggero Leoncavallo), in cui, nel primo atto, si ha questo coro di operai:

Lesti, lesti, che a l’uscita / già c’invita / la campana allegramente. / Via, spicciatevi, al casale / pel Natale / riede ognuno impazïente. / È il Natale. Viva! Viva! / Già la piva / per la danza è preparata. / Mangeremo cose ghiotte / e stanotte / sarà allegra la brigata. / Lieti il ceppo accenderemo, / poi berremo / mentre i vecchi conteranno / lieti a veglia le novelle, / e le belle / A’ garzon sorrideranno. / Via, spicciatevi, al casale / pel Natale / la brigata va giuliva. / Su, correte a farvi belle, / o donzelle, / È il Natale. Viva Viva! (R. Leoncavallo, Chatterton: dramma in tre atti, Bologna, Achille Tedeschi, 18963, p. 8)

Aggiungiamo un brano in prosa del romanziere milanese Emilio De Marchi:

Ecco finalmente che da’ casolari, che sorgevano a destra e a manca della strada, sprofondati nel più fitto della notte, vede uscire, anche qui, quella luce velata e calda, che ha dentro di sè il fumo delle pentole e la ciarla della gente allegra. Anche per questi luoghi morti e quasi disabitati era passato il santo Natale, caro ai bambini, a suon di piva, circondato il capo d’edera e di muschio. (E. De Marchi, Gina, “L’Illustrazione popolare”, XXII, 1885, pp. 819-822: p. 822)

Chiudiamo con un canto popolare in dialetto romagnolo (un “sermone di Natale”):

Chi è la inti la capâna, / Tra e’ su’ bab’ e la su’ mama? / Èla una rösa, o un gisimin? / Signor nò, l’è un bèl bambin! / Andate pu’ so / Sunendo la piva, / l’è nato Gesô. / Tra e’ bo’ e l’asinèl, / Tôt i pastùr i l’ va adurènd. / Incora me a l’adurarò, / da fantsêna com’a sô. (Tomaso Randi, Saggio di canti popolari romagnoli (raccolti nel territorio di Cotignola Ravenna), “Atti e memorie - Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna”, s. III, IX, 1891, pp. 225-275: p. 241)

Come tutte le parole esaminate finora, anche piva è documentata in italiano antico. La voce del TLIO (che riporta anche il plurale pive) cita come primo esempio quello nel senese Cecco Angiolieri (in cui peraltro sonare la piva significa ‘comporre versi con abilità magistrale’), e riporta poi altre attestazioni (in una delle quali, veneziana, il termine indica l’organo sessuale maschile). Abbastanza ampio è anche lo spettro di significati, propri o figurati, e di locuzioni contenenti la voce che raccoglie il GDLI s.v. piva e per brevità segnaliamo solo quello di ‘danza’ (eseguita, evidentemente, al suono dello strumento).

Sul piano etimologico, la lessicografica concorda nell’indicare come base il lat. parlato *pīpa(m) ‘piffero’, derivato dal verbo pipīre ‘pigolare’, evidentemente di probabile base onomatopeica, con la lenizione e la spirantizzazione della p intervocalica tipica dei dialetti settentrionali. Si tratta dunque di un allotropo di pipa, in cui la sorda si è mantenuta, che peraltro, nell’accezione di ‘strumento per fumare’, costituisce un francesismo.

Come derivati, il GRADIT registra pivare ‘suonare la piva’ (dal 1955, in Maurizio Maggiani, Il coraggio del pettirosso), il part. pass. pivato e il diminutivo pivetta, anche lessicalizzato nel senso di ‘piccolo strumento di osso o di metallo che i burattinai tengono all’interno della bocca per attribuire un particolare suono alla voce di un personaggio’. Molto ricca, invece, la serie dei derivati di piva (che presentano anche particolari evoluzioni semantiche) nei dialetti settentrionali, in cui il termine è molto radicato, come prova anche la diffusione del cognome Piva.

Conclusioni

La rassegna che abbiamo proposto non è certo esaustiva: esistono varie altre voci antiche e/o dialettali che indicano strumenti analoghi: ricordiamo almeno, di passaggio, la sordellina e la surdulina (probabilmente due varianti dello stesso tipo lessicale, per indicare un tipo particolare di zampogna in uso soprattutto in Puglia e presso le comunità italo-albanesi della Calabria). Ci sembra però di poter dire che cornamusa è il termine più generale, che indica lo strumento che può essere usato anche al di fuori dei contesti pastorali e natalizi: diversi anni fa ebbe successo anche qui in Italia il musicista spagnolo Hevia, pseudonimo di José Ángel Hevia Velasco (Villaviciosa, 11 ottobre 1967), considerato inventore della cornamusa elettronica, a cui si può accostare Jorge Suarez Carbajal (Oviedo, 13 marzo 1986), suonatore di cornamusa asturiana (in spagnolo lo strumento è detto gaita). Più legata al Natale è la meridionale zampogna, a cui si contrappone la settentrionale piva, voci entrambe tuttora usate e molto più note di ciaramella e cennamella, termini di uso più circoscritto. Tutte le voci sono documentate già in italiano antico: due (zampogna e piva) derivano dal latino (e hanno come allotropi sinfonia e pipa, l’unica parola non legata alla musica), le altre (cornamusa e la coppia ciaramella/cennamella) dal francese, che evidentemente nel Medioevo aveva grande prestigio anche nel campo musicale e pure in ambienti popolari.

Paolo D'Achille
Matilde Paoli

23 dicembre 2024


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