Claudio da Genova porta alla nostra attenzione un’interessante struttura della lingua italiana. L’esempio da lui proposto è “per piovere non piove, però il cielo è nuvoloso”. Ci chiede se questa costruzione, con la ripetizione del verbo a inizio frase in forma di infinito, sia accettabile e come venga definita in termini grammaticali.
La costruzione a cui fa riferimento il nostro lettore rientra in quelle strutture linguistiche, chiamate tematizzazioni (o topicalizzazioni), che mettono in evidenza una parte del discorso, tramite la sua ripetizione e anticipazione. Una parola viene così isolata in una posizione della frase che non le sarebbe propria e, talvolta, ripresa successivamente tramite un pronome.
Nel nostro caso si tratta di un infinito, posto a inizio frase e poi ripreso da una forma di modo finito dello stesso verbo:
1. Mangiare, mangia poco.
2. Per piovere, non piove.
L’infinito può essere semplice (es. 1) o preceduto dalla preposizione per (es. 2). Più rare le attestazioni con la preposizione di,probabilmente tipiche dell’italiano meridionale o, come supposto da Telmon 2016, solo del siciliano:
3. Di parlare parla, però a modo suo.
Il termine isolato e ripetuto corrisponde all’argomento dell’enunciato (chiamato in linguistica tema o topic), parafrasabile con l’aggiunta di un elemento preposizionale come riguardo al o quanto al.
Il tema indica ciò di cui si parla, su cui verte il discorso, e si contrappone a un altro tipo di informazione presente nella frase, il rema, che corrisponde a ciò che si dice riguardo al tema.
Casi tipici di tematizzazioni, molto simili alla nostra costruzione, sono le dislocazioni a sinistra, in cui un elemento della frase è anticipato in posizione iniziale e poi ripreso anaforicamente.
Nel prossimo esempio, il complemento oggetto il libro è spostato a sinistra, in prima posizione, e poi ripreso dal pronome lo:
4. Il libro, non l’ho ancora finito.
Potremmo riscrivere questo enunciato con una struttura non marcata, in cui il complemento oggetto ritorna alla sua posizione abituale e non è più individuato come tema:
5. Non ho ancora finito il libro.
Invece, nella frase seguente è il complemento di termine a Giorgio a essere dislocato, ripreso successivamente dal pronome indiretto gli:
6. A Giorgio, non gli ho ancora telefonato.
invece di
7. Non ho ancora telefonato a Giorgio.
Nei casi osservati in 4 e 6 l’elemento dislocato è un nome, ma è possibile anticipare anche un complemento di tipo verbale (una frase infinitiva), ripreso eventualmente dal pronome ne:
8. Di lavorare, non ne ha mai avuto voglia.
invece di
9. Non ha mai avuto voglia di lavorare.
Questo può ricordare il caso suggerito dal nostro lettore, ma con una analisi più approfondita notiamo delle differenze importanti. Nell’esempio 8, di lavorare è un complemento del verboavere voglia, come mostrato dalla parafrasi in 9, mentre nella frase proposta dal nostro lettore l’infinito è una anteposizione del verbo stesso, e non di un suo complemento. Vediamo questa differenza nella frase 10, esempio della costruzione in oggetto:
10. (Di) lavorare, non ha lavorato, ma è stato comunque pagato.
Qui non sarebbe accettabile inserire il pronome ne e, parallelamente, parafrasarla con l’infinito in posizione di complemento del verbo (in linguistica l’asterisco a inizio frase ne indica la non accettabilità):
11. *Non ha lavorato di lavorare, ma è stato comunque pagato.
Data la mancanza del pronome di ripresa, molti studiosi (Benincà 1995; Sabatini 1985; D’Achille 2003) hanno definito la nostra costruzione come un tema sospeso, un altro tipo di tematizzazione che solitamente viene distinta dalla dislocazione. Nel tema sospeso (chiamato anche anacoluto o nominativus pendens), il legame sintattico dell’elemento anticipato è meno esplicito (es. 12) e in alcuni casi (es. 13) totalmente assente:
12. I soldati, è il loro mestiere di prendere le fortezze (A. Manzoni).
13. Giorgio, non conosco nessuno che corra così veloce (Benincà 1995: 132).
In passato, sono state proposte anche altre analisi. Spitzer nel 1921 aveva individuato il fenomeno con il caso dormire dormo su un pagliericcio e al riguardo affermava che “i romanisti hanno dato due spiegazioni: 1) il verbo dormo sarebbe introdotto al posto di un faccio (…) 2) si tratta di un infinito interrogativo dormire?, a cui segue la rispostadormo su un pagliericcio” (Spitzer 2016: 105). La seconda spiegazione potrebbe essere confermata solo dalla presenza dell’intonazione tipica delle domande, intonazione non osservabile in un testo scritto. Nello scritto possiamo solo osservare una pausa dopo l’infinito, la quale è necessaria anche quando si sottintendono le locuzioni in quanto a dormire oper dormire, come notato da Cortelazzo 1976 (p. 137).
Rohlfs 1969 parla di accentuazione del verbo finito e afferma che “Per dar rilievo enfatico a una forma del verbo finito, la si può ripetere in principio di frase, all’infinito, lasciando il verbo finito nella sua posizione normale” (§ 989). Aggiunge, inoltre, che “questo tipo d’espressione è caratteristico del vernacolo toscano, ma lo ritroviamo anche in altre parti d’Italia, per esempio a Verona catarla la caterò mi ‘la troverò io’, parmigiano dì en diré niente ‘dire non dirò niente’, piemontese amnì i venu ‘venire vengono’.
Secondo Bernini 2009, la nostra costruzione permette di scindere in due parti il verbo della principale: l’infinito esprime la componente lessicale, isolandola come argomento della frase; al predicato principale è invece lasciato il compito di esprimere la componente grammaticale, esplicitando i valori di tempo e aspetto del verbo. Seguendo questa analisi potremmo dire, quindi, che è solo la componente lessicale a essere tematizzata, mentre gli elementi tempo-aspettuali rientrano nel rema.
14. Non ha studiato.
15. Studiare, non ha studiato (parafrasabile con “Quanto a studiare, dico che non ha studiato”).
Questa divisione è ancora più evidente in casi di predicati nominali, in cui le due componenti sono già scisse tra la copula e il predicato nominale (ess. 16 e 17) o da casi, più frequenti in altre lingue (es. 19), in cui il predicato della principale è sostituito da una proforma verbale, ovvero da un verbo “vuoto” semanticamente accompagnato da un pronome (es.18):
16. Utile, è utile.
17. Per essere articolati e ricchi di dettagli, questo è certo, lo erano (esempio da Bernini 2009:118-119).
18. Studiare, l’ho fatto, ma non ho passato l’esame.
19. She had been opening letters. The paper-knife was there on the desk. Carpenter seized it and drove it in. She may not have meant to kill, but kill she did (P. D. James, A Certain Justice, esempio citato in Bernini 2009: 118-119).
Le dislocazioni e il tema sospeso, in quanto tematizzazioni, condividono la stessa funzione: enfatizzare una parte dell’enunciato, spostando o riportando l’attenzione del nostro interlocutore su un argomento nuovo o precedentemente introdotto. Berruto 1985 ne individua una doppia funzione: da una parte il bisogno del parlante di evidenziare il suo centro di interesse, dall’altra il facilitare la ricezione delle informazioni da parte dell’interlocutore. Tali esigenze sono maggiormente presenti nella lingua parlata, in cui, diversamente dallo scritto, manca la possibilità di rivedere ciò che è già stato detto. Per tali motivi si ricorre più di frequente alle tematizzazioni nel parlato (o nelle varietà di scritto più vicine al parlato, come la messaggistica istantanea, ma anche l’epistolografia).
Dopo aver descritto il fenomeno, possiamo rispondere alla prima domanda del nostro lettore, riguardante la sua accettabilità.
Nonostante specifici riferimenti a questa costruzione non siano presenti nelle più accreditate grammatiche normative, possiamo segnalare quanto espresso riguardo alle dislocazioni che, come si è visto, sono fenomeni piuttosto simili. Per Serianni 1989 (pp. 214-215) “il costrutto, proprio della lingua parlata, alla stregua di tanti altri fenomeni di enfasi e di ridondanza (…), disturba invece nella lingua scritta che non riproduce dialoghi”. Nei secoli passati, altri grammatici si erano mostrati avversi a simili fenomeni, come ad esempio il Ruscelli 1581 che include gli anacoluti tra i “vitii delle sentenze”.
Tuttavia, D’Achille 1990 evidenzia come alcuni casi di dislocazione siano accettabili e riporta citazioni di grammatici ben più inclini ad accogliere questo tipo di costruzioni, soprattutto se intese come “ornamento” stilistico o se utili alla chiarezza. A titolo esemplificativo, citiamo la posizione di Mastelloni 1898 circa le “particelle pronominali usate per pleonasmo”:
Se è una goffaggine il ripetere o aggiungere nella medesima clausola le particelle pronominali, là dove ragion di efficacia e di chiarezza lo richiede, noi ce ’l recheremo a gloria l’esser goffi co’ nostri più nobili scrittori, i quali non si sono mica riguardati di autenticarne l’uso con il loro esempio (pp. 48-9).
In effetti, nella lingua parlata, in registri informali e colloquiali, la nostra costruzione è sicuramente accettabile. Anzi, costituisce un utile mezzo espressivo per enfatizzare una parte del discorso. Ma anche nello scritto, se ne trovano esempi in molti scrittori, in testi che cercano di ricalcare, per l’appunto, dialoghi o in generale la lingua parlata.
Debbo avere qualche linea di febbre. - Johnny andò a tastargli la fronte, ma nulla potevano giudicare le sue dita insensibilizzate dal freddo. Però, - Per tremare tremi, - disse (Fenoglio, Il partigiano Johnny, 277).
Dispiacere non mi dispiacete (Fucini, Le veglie di Neri, 17).
Riconoscere lo deve riconoscer di certo anche lei (Fucini, Le veglie di Neri, 108).
Trovarla, la troverò io (Manzoni, I promessi sposi).
A cura di Rossella Varvara
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
Nota bibliografica:
12 ottobre 2018
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