Pizzòchere e pizzòcheri: un’affinità apparente

Un lettore ci chiede se esista un legame etimologico tra il nome delle Pizzochere, donne dedite alla carità in tempi antichi, e quello della tipica pasta di origine Valtellinese a base di grano saraceno, i pizzo(c)cheri.

Risposta

Le due parole in questione costituiscono un caso singolare di convergenza in quanto sono derivate da due basi lessicali del tutto diverse anche se già in partenza formalmente simili. La prima suona familiare ai fiorentini grazie all’odonimo Via delle Pinzòchere nel quartiere di Santa Croce, che prende il nome dalle terziarie francescane residenti un tempo nella zona; la variante fiorentina mostra il fenomeno della “geminazione distratta”, dovuto alla pronuncia rilassata e nasale della doppia zz, come è avvenuto in striminzito da strimizzito e in maganzino, variante popolare di magazzino. Al maschile la forma ridotta pinzo, che si definisce “retroderivato” indica lo zitellone, lo scapolo invecchiato. Pinzo da un lato e pinzòchera dall’altro derivano dal termine intermedio bizzòco o bizzòcco, testimoniato fin dal XII secolo col significato di ‘bigotto, bacchettone, baciapile’ ovvero di ‘laico che ostenta una devozione eccessiva’; la b- iniziale in luogo di p- ci avverte che siamo in presenza di parole di origine imitativa che possono presentare varianti fonetiche con oscillazioni formali, come in questo caso la sonorizzazione della consonante iniziale, non consentite nel lessico ordinario.

Se si estende l’area del confronto, le variazioni si accentuano e la gamma dei significati si arricchisce pur restando nello stesso campo semantico: abbiamo il napoletano pecuozzo ‘servente dei frati’ e il barese pecuzze ‘sagrestano’ con metatesi consonantica fra la seconda e terza sillaba, e finalmente il sardo piccioccu, pizzoccu ‘ragazzo’, il cui significato generico e neutrale è probabilmente quello originario. Tutti i termini citati sono riconducibili alla base picc-/pizz-, voce del lessico familiare affettivo usata per riferirsi ai figli e in genere ai piccoli; a essa appartengono piccino e le voci regionali piccitto, picciotto, zito e zita, di cui zitella è un derivato. Nell’ambiente ecclesiastico il significato generico di ‘fanciullo, ragazzo’ si è fissato in quello di ‘minore addetto alla manutenzione della chiesa’, ‘inserviente dei frati’, da cui gli ulteriori sviluppi di ‘sagrestano’ e ‘terziario laico’.

La seconda parola della coppia proposta dal lettore fa invece parte della stessa famiglia lessicale di pizza e discende quindi dal latino pinsare ‘pestare, schiacciare colle mani’, che nella variante ampliata nel latino volgare *pi(n)siare ha dato pigiare. A questo verbo risalgono diversi termini culinari, che indicano cibi ottenuti manipolando una sfoglia di acqua e farina a cominciare dal più noto e diffuso, ovvero pizza, proprio dell’Italia centro-meridionale, a indicare una focaccia impastata di acqua e farina e condita con vari ingredienti. Dallo stesso verbo nella variante ampliata e priva della consonante nasale *pisiare discendono anche i pici senesi e i piciarelli amiatini, che nella ricetta originaria, anteriore alla loro commercializzazione, sono vermicelli di acqua e farina, grossi e irregolari, tirati a mano (per entrambi i termini cfr. l’Etimologico s.vv.).

Fino a qualche anno fa si riteneva che i discendenti di pinsare appartenenti al lessico culinario si trovassero solo nell’Italia peninsulare, ma una conoscenza più approfondita e capillare dei dialetti delle valli alpine, dovuta in gran parte alle ricerche promosse e realizzate dal compianto don Remo Bracchi, ha aperto nuove prospettive. Così a Bormio è attestata la pizza blota, che indica una focaccia non lievitata, dove blota è alla lettera ‘nuda, spoglia’ e corrisponde al lombardo biota. Nel dizionario di Grosio, località della Valtellina poco distante da Bormio, la voce dialettale pizòcher è correttamente classificata come un derivato di pizza e definita nel modo seguente:

anticamente con tale termine si indicavano gli gnocchi di farina mista di frumento e di grano saraceno, il cui impasto veniva direttamente versato nell’acqua bollente per mezzo di un cucchiaio, mentre le tagliatelle, corrispondenti agli attuali pizzocheri erano chiamate taaroi. (Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, Dizionario etimologico grosino, Sondrio, Arti grafiche Ramponi, 1995, s.v. pizòcher)


Alberto Nocentini

12 settembre 2025


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