Numerose sono le richieste di lettori riguardanti il valore temporale di prossimo venturo in relazione a una data. Altrettanto numerose sono le domande sulla differenza tra prossimo e prossimo venturo, e sull’abbreviazione del plurale prossimi/e venturi/e.
Per il valore di prossimo con unità temporali rimandiamo alla risposta di Raffella Setti, che già chiarisce ampiamente alcuni concetti che riprenderemo in parte.
L’aggettivo venturo ha un significato più complesso rispetto a prossimo, dovuto alla forma verbale da cui deriva, ossia dal latino venturu(m), participio futuro del verbo venīre. Per comprendere pienamente a quale futuro, più o meno vicino al momento dell’enunciazione, si riferisca venturo dobbiamo considerare il valore del participio futuro latino. Il latino aveva tre tempi del modo participio: il presente, il passato (arrivati all’italiano) e il futuro; quest’ultimo, dalla diatesi attiva, si comportava come un aggettivo della prima classe (-urus, -ura, -urum) e si riferiva sia a un futuro imminente, che indicava l’intenzione o il fine del verbo al participio (ad es. in Apuleio: Suspendit se fenestrā sagacĭter perspecturus omnia ‘Si appese alla finestra per spiare bene tutto’), sia a un futuro non precisabile, che alludeva a una destinazione non ben determinata (ad es. in Seneca: Accipimus peritura perituri ‘Noi, che siamo destinati a morire, riceviamo in dote cose anch’esse destinate a morire’). A partire dall’età repubblicana, il participio futuro acquistò anche l’accezione di futuro con destinazione “fatale” (ad es. in Sallustio: O urbem venalem et mature perituram! ‘Oh città in vendita e destinata ad andare ben presto in fallimento!’).
L’origine di questa forma verbale latina rimane ancora incerta e oscilla tra due ipotesi. Secondo alcuni studiosi deriva dall’unione del supino in -um (che indica la destinazione di un movimento), con un infinito, poi scomparso, del verbo esse (probabilmente *erom): il participio futuro di un verbo X significava dunque ‘essere indirizzato/teso a X’ (es. amaturus ‘essere teso ad amare’ così come venturus ‘essere teso a venire’). Secondo altri studiosi la desinenza -urus del participio futuro è la stessa dei verbi latini che esprimono desiderio come esurio ‘voglio mangiare’ e parturio ‘ho le doglie, voglio partorire’. Entrambe le ipotesi interpretative ben esprimono i valori del participio futuro latino: scripturus sum significa tanto ‘mi accingo a scrivere’ quanto ‘ho intenzione di scrivere’ e moriturus sum ‘sono destinato a morire’ (Maurizio Bettini, Renata Fabbri, Luigi Salvioni, La grammatica latina, 3 voll., Scandicci, La Nuova Italia, 1999, vol. I (Teoria), p. 166 e pp. 479-480). In italiano abbiamo solamente pochi aggettivi che derivano, per via dotta, dalle forme di participio futuro latino: per esempio futuro (part. fut. del verbo esse ‘essere’) ‘che sta per essere, per divenire’, morituro letteralmente ‘che, chi sta per morire o è destinato a morire’, nascituro ‘che sta per nascere, prossimo alla nascita’, duraturo ‘destinato a mantenere la propria validità nel tempo’ e pochi altri, tra cui appunto venturo (le definizioni sono tratte dal Devoto-Oli online). Considerati i valori del participio futuro latino, che cosa significa propriamente oggi in italiano venturo? Il latino venturus, -a, -um significava ‘che sta per venire, imminente’ e questo significato è rimasto anche in italiano, tant’è che la maggior parte dei dizionari italiani riporta proprio il significato di ‘che verrà, che deve o sta per venire’ e quindi ‘prossimo’ (GRADIT e Zingarelli 2024). Il GDLI chiarisce ulteriormente: ‘che accadrà in futuro, che è prossimo a verificarsi, istituito o a essere [recte: o a essere istituito,] compilato, compiuto, che è destinato ad accadere, futuro’ e, in unione a prossimo, ‘che verrà a cadere per primo dopo il corrispondente corso o già trascorso (con riferimento a una data, una ricorrenza, a un’unità di tempo qualsiasi)’. Lo stesso dizionario specifica che invece di venturo si può usare anche il participio presente veniente in funzione di aggettivo o la relativa che viene (oltre all’aggettivo futuro, anch’esso dal significato analogo; cfr. GDLI ss.vv. venturo e prossimo).
Anzitutto bisogna precisare che, avendo prossimo e venturo un rapporto di (geo)sinonimia (ossia sono sinonimi in molte varietà dialettali), l’espressione prossimo venturo risulta alquanto ridondante: basterebbe usare uno solo dei due aggettivi per indicare il concetto di imminenza temporale (la settimana prossima o la prossima settimana equivale a la settimana ventura, più raro ma non impossibile). La scelta di unire i due aggettivi potrebbe essere imputata al fatto che prossimo può indicare una vicinanza cronologica anche relativa al passato (infatti diciamo passato prossimo), per cui aggiungendo venturo si cerca di disambiguare la doppia accezione di prossimo.
L’aggettivo venturo è usato in unione a prossimo per accentuarne il valore di prossimità, ossia per indicare la data immediatamente successiva a quella che deitticamente si indica con nunc, cioè il presente. Per fare un esempio, se oggi è martedì 2 aprile 2024, dicendo giovedì prossimo venturo intendo ‘giovedì 4 aprile 2024’, cioè il primo giovedì “disponibile” dopo la data in corso. Il dubbio presentato dai nostri lettori non è affatto banale (ed è lo stesso presentato per il quesito su prossimo): riguarda sia l’interpretazione personale del presente, sia del futuro stesso. Molti lettori interpretano la settimana in corso come una settimana quasi trascorsa, i cui giorni restanti appartengono ormai al presente piuttosto che al futuro; la difficoltà è maggiore se facciamo riferimento all’indomani, ossia se oggi è martedì 2 aprile, “mercoledì prossimo venturo” spesso viene interpretato come ‘mercoledì 10 aprile’ e non ‘mercoledì 3 aprile’. È una difficoltà che nasce dall’interpretazione, ma anche dal valore che ha il participio futuro: è vero che il participio futuro latino indicava originariamente un futuro molto prossimo (soprattutto in unione a unità temporali), ma poi aveva assunto anche valore intenzionale, di finalità e di destinazione fatale, ossia aveva assunto valori meno definiti e determinabili nel tempo, quindi più lontani.
Il problema riguarda anche il conteggio che si innesca usando prossimo (e di conseguenza venturo); infatti questo fenomeno è riscontrabile in alcune varietà con le informazioni spaziali: ad esempio, l’indicazione giri al prossimo semaforo spesso non si riferisce al semaforo immediatamente seguente rispetto al luogo dell’enunciazione, ma a quello ancora successivo.
Non solo: il dubbio è lecito anche perché interpretabile in termini di economia linguistica, di diafasia (cioè di variazione in base al contesto comunicativo) nonché di diamesia (variazione in base al mezzo comunicativo). Nell’uso comune e soprattutto in ambito informale, se oggi è martedì 2 aprile, per indicare ‘mercoledì 3 aprile’ e ‘giovedì 4 aprile’ mi aspetto che si dica domani o dopodomani e non mercoledì/giovedì prossimo venturo, che invece prevale nell’uso più formale, nonché in quello scritto. Sempre nel parlato e negli àmbiti più informali potrei usare anche il dimostrativo questo, che, con il valore deittico che si riferisce a qualcosa che è vicino (nello spazio o, in questo caso, nel tempo), esplicita la prossimità del giorno a cui viene associato: mercoledì questo indicherebbe ‘mercoledì 3 aprile’ e conseguentemente mercoledì prossimo venturo indicherebbe il mercoledì della settimana successiva. Abbiamo riscontrato, sia nel parlato sia in alcuni testi digitati che riprendono le caratteristiche del parlato, l’uso di questo che viene, per indicare la data più prossima a cui si vuole fare riferimento: ad es. si preferisce usare giovedì questo che viene per ‘giovedì 4 aprile’ e giovedì prossimo (venturo, nelle situazioni più formali) per ‘giovedì 11 aprile’.
Un altro lettore chiede:
Se in una lettera datata 15 novembre utilizzo l’abbreviazione “24 p.v.”, piuttosto che “prossimo”, si intende correttamente 24 novembre, oppure sarebbe più esatto scrivere c.m. perché “venturo” rimanda al mese a venire, e quindi al 24 dicembre?
In questo caso, con “24 p.[rossimo] v.[enturo]” si intende il giorno 24 più vicino in termini temporali, ossia il 24 novembre. Anche la dicitura “24 c.[orrente] m.[ese]” indica lo stesso 24 novembre, mentre per riferirsi al 24 del mese successivo sarebbe più corretto usare la data completa: “24 dicembre”, seguita dall’anno.
Per completezza aggiungiamo che la locuzione prossimo venturo è antica e le sue prime attestazioni risalgono alla prima metà del XIV secolo, in testi di area pisana, viterbese e perugina:
che in fra die octo proximi venturi a die del dicto comandamento facto, u ad altro termine u termini a loro, et ciascuno di loro da me dicto prorogare, ciascuno di loro marcare facia la sua canna colla quale eli misura [...].
E che li consulti de la corte, infra uno mese proximo venturo dal die del loro iuramento conputare, siano tenuti a di fare comandare a tucti soctoposti de la corte vendenti panno lino a misura, ched elino [sic] conprino a misura de la corte; e sed ei conprino senza misura neientemeno diano tenuti di pagare ai misuratori de la corte lo loro salario, cusì come quello panno lo quale vendesseno, avesseno misurato. (Breve dei consoli della Corte dell’Ordine de’ Mercatanti dell’anno MCCCXXI, in Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, a cura di Francesco Bonaini, vol. III, Firenze, Vieusseux, 1857, pp. 171-344: p. 274 v. 20 e p. 322 v. 23)
E nullu generale overo governatore, finitu il tempu del loro officiu, poçça essere electu ad officiu di governatore se nno po tre mesi proximi venturi. (Statuto della confraternita dei Disciplinati di San Lorenzo, in Testi viterbesi dei secoli XIV, XV e XVI, a cura di Paola Sgrilli, Viterbo, Sette Città, 2003, pp. 37-46: p. 37 v. 27)
e p(er)ò no è scritto pagat(o); àne a tenire d(i)c(t)o fitto iiij a(n)ni p(ro)simi venturi. (Libro d’amministrazione delle terre d’Uguicione di Ghino Marchese di Civitella e dei suoi figli (1360-1387 – parti in volgare 1361-1387), in Testi trecenteschi di Città di Castello e del contado, a cura di Francesco Agostini, Firenze, Accademia della Crusca, 1978, pp. 169-253: p. 237 v. 21)
Le attestazioni antiche confermano che la locuzione prossimo venturo si riferisce alle unità temporali immediatamente successive al momento dell’enunciazione, nonostante in questi esempi non sia specificata una data in particolare. Anche le occorrenze cinquecentesche che siamo riusciti a reperire tramite Google libri confermano questo significato (ne riportiamo solo una a titolo esemplificativo):
La Cometa che si vide quest’anno passato nel segno del Leone sarebbe atta à portare siccità importantissima, & caldi pestilenti questo Agosto prossimo venturo, se il Sole non si trovasse confortato dal sinistro sestile di Giove, & dalla presenza di Venere benefica. (Mario Vergeri da Legnago [Accademico Veneziano], Discorso astrologico, Verona, Stamparia Girolamo Discepolo, 1597, p. 7)
Infine rispondiamo a tutti quei lettori che ci chiedono quale sia l’abbreviazione corretta del plurale prossimi/e venturi/e (per un discorso più ampio sulle sigle, rimandiamo alla risposta di Raffaella Setti). Nell’italiano scritto, il plurale delle abbreviazioni avviene raddoppiando l’abbreviazione per intero o raddoppiandone l’ultima consonante: es. il v.[erso] >> i vv.; la pag.[ina] >> le pagg. o la p.[agina] >> le pp. o anche ss. e sgg. per ‘seguenti’. Luca Serianni, descrivendo questo fenomeno nella sua Grammatica italiana (Serianni 1988, III.84), parla di “un procedimento inconsueto per il tipo linguistico italiano”, talmente inconsueto da trovare diverse oscillazioni, soprattutto per quanto riguarda l’uso della punteggiatura e la ripetizione delle lettere nel plurale. Le sigle, al plurale, raddoppiano ciascuna lettera che compone la sigla: ad es. FF.SS. sta (o meglio stava) per ‘Ferrovie dello Stato’ e così PP.TT. per ‘Poste e Telecomunicazioni’. Il punto può essere inserito all’interno della sigla (FF.SS.) oppure, più raramente, collocato a fine sigla (FFSS.). Nel nostro caso dunque l’abbreviazione più corretta e che consigliamo per prossimi/e venturi/e è pp.vv.; non si escludono anche altre possibilità, sebbene meno corrette, come ppvv. oppure, stando sempre a Serianni, p.vv. e pvv.
Miriam Di Carlo
28 ottobre 2024
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