Vari quesiti giunti alla redazione chiedono se sia corretto dire “provare di fare qualcosa” o se si debba dire piuttosto “provare a fare qualcosa”. Proviamo a rispondere.
Il verbo provare è un verbo transitivo. Nel significato di ‘fare un tentativo per raggiungere uno scopo’ può reggere sia un complemento oggetto diretto (es. “provare un esame”) sia una frase col verbo all’infinito, normalmente introdotto dalla preposizione a: “provare a risolvere un problema”. In questa accezione, possiamo usare anche il verbo tentare (“tentare un esame”), che regge invece un infinito introdotto dalla preposizione di (“tentare di risolvere un problema”).
Nel Vocabolario dei sinonimi della lingua italiana di Pietro Fanfani (1884) si legge (s.v. tentare) che “Chi tenta diffida del risultato: chi prova spera di riuscire”. L’idea di una gradazione semantica tra i sinonimi torna anche nell’approfondimento presente nel Dizionario dei sinonimi e dei contrari Treccani (diretto da Raffaele Simone, 2003) alla voce tentare, messa a confronto con i verbi provare e cercare: “Cercare implica di solito lo sforzo minore, tentare quello maggiore, oltre a essere il più formale dei tre. Inoltre, mentre in cercare e tentare è sottolineato il desiderio del risultato, provare esprime soltanto l’atto di fare il tentativo”.
Il fatto che sia tentare sia cercare reggano la preposizione di porterebbe a pensare che la costruzione provare di (fare qualcosa) sia modellata per analogia sui verbi concorrenti, tutti appartenenti alla classe semantica dei ‘conativi’, indicanti uno sforzo del soggetto teso al compimento di un’azione.
Un’altra ipotesi possibile è che la costruzione provare di sia stata ricalcata sul francese essayer (de) nell’Ottocento, o, più recentemente, sull’inglese try (to).
Il fatto, poi, che le richieste di consulenza vengano prevalentemente dal Nord-est (Veneto, Cento, in provincia di Ferrara, Bologna) potrebbe far pensare che si tratti di un uso regionale.
Va però detto che il verbo provare è citato nella grammatica italiana di Serianni (Serianni 1989, XIV 45. IV) tra i verbi transitivi che possono reggere una frase oggettiva solo di forma implicita (con il soggetto controllato dal verbo della reggente). Nell’indicazione della reggenza, in tabella, si citano sia la proposizione di, sia la proposizione a, che risultano messe sullo stesso piano (benché nell’esempio citato nel testo, “provo a smettere di fumare”, sia utilizzata la preposizione a).
Cercando nel GDLI, si trovano in effetti esempi del verbo provare, nella forma pronominale provarsi, che regge indifferentemente la preposizione a (come nell’esempio di Bernardo Davanzati: “Nerone si provò a tagliare il monte vicino all’Averno”) o la preposizione di, in un arco temporale che va dal XIII al XX secolo. Della variante non pronominale si riporta un esempio di Lorenzo de’ Medici, nel quale provare regge la preposizione di: “di piacer a altri pruovo”.
Anche il dizionario storico ottocentesco di Tommaseo e Bellini riporta (Tommaseo-Bellini s.v. provare) le costruzioni provarsi di fare o a fare o per fare checchessia, dove l’ultima costruzione, con la preposizione per, sembra accentuare l’idea di finalità implicita nella semantica del verbo. Per la variante non pronominale si riporta solo un esempio con la preposizione di (“Ho provato di chiedere”). A conferma dell’impiego anche letterario della costruzione nel XIX sec., riportiamo un esempio tratto da Le mie prigioni di Silvio Pellico:
Provai di tornare al cibo de’ sani, ma non v’era guadagno a fare, giacchè disgustava tanto ch’io non potea mangiarlo. (Torino, Bocca, 1832, capo LXIV, p. 222)
I dizionari italiani dell’uso contemporaneo consultati sono però concordi nell’indicare come costruzione del verbo provare, quando ha significato di ‘cercare’, quella con la preposizione a: abbiamo provato a rispondere. La frase oggettiva implicita retta dalla preposizione di è sì attestata, ma quando il verbo provare ha un significato diverso, di ‘dimostrare’: abbiamo provato di saper rispondere.
L’uso in rete, per contro, ci mette di fronte a vari esempi in cui provare nel senso di ‘cercare’ regge di, plausibilmente come risultato di una traduzione non sorvegliata:
Ogni giorno, proviamo di farvi continuare di sognare (versione italiana di un sito commerciale francese)
è quasi impossibile presentare tale ricchezza di antichità e di opere d’arte su un singolo sito Web: ma pazzesco che sia, proverò di farlo. (versione italiana del sito di un’università americana)
A livello politico, proviamo di superare gli ostacoli cercando soluzioni pragmatiche. (versione italiana del sito del Parlamento europeo)
L’esperienza di parlanti, d’altra parte, ci mette di fronte a una diffusione regionale del costrutto, confermata dal fatto che le richieste di consulenza vengano prevalentemente dal Nord-est (Veneto, Emilia-Romagna).
Per concludere, la costruzione di provare rientra in uno di quei casi di reggenza verbale flou, in cui un verbo che prevedeva (a parità di significato) l’alternanza preposizionale (a/di) recupera una possibilità che sembrava aver accantonato (provare di) e la riattualizza, se non altro negli usi regionali. E ciò per effetto di un insieme di fattori, tra cui la crescente pressione dell’inglese sulle strutture dell’italiano.
Cristiana De Santis
24 luglio 2024
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