Alcuni lettori ci chiedono quale sia l’origine dell’espressione, diffusa in area napoletana, puzzare o puzzarsi di freddo o dal freddo.
Sull’espressione puzzare di freddo (o dal freddo), va anzitutto notato come esista anche l’analogo puzzare di fame, probabilmente prodotto per analogia. Sul piano morfologico, inoltre, osserviamo subito che è molto più utilizzata la forma pronominale puzzarsi di (o dal) freddo. Le attestazioni dell’espressione sono innumerevoli, ma tutte circoscritte nella città di Napoli, dove l’uso è evidentemente molto comune, non solo nel dialetto, ma anche nell’italiano locale.
L’espressione possiede anche attestazioni letterarie molto recenti. Ad esempio, in Marianna Pizzipaolo: “se ne sta sul balcone della cucina a puzzarsi di freddo” (Le cicatrici che non ho, Sulmona, Lupi Editore, 2019; è ragionevolmente ipotizzabile che l’autrice, nata a Salerno nel 1988, abbia avuto frequentazione abituale anche a Napoli). O anche, in un racconto di Luca Miniero (nato a Napoli nel 1967), nella raccolta Milano Napoli da casello a casello (Milano, Rizzoli, 2012):
Chi l’ha detto che a Napoli non fa freddo? [….] Quando ero piccolo non c’era il riscaldamento autonomo e nelle regioni del Sud i termosifoni venivano accesi dal primo novembre, mentre a Roma e in tutta l’Italia dal primo ottobre. Ora dico io non è che siamo in Africa che mi devi far puzzare di freddo per un mese, ricoperto di plaid e abbarbicato a una stufa. Chi vi ha convinto che l’equatore passa a Cassino? (p. 45)
Un’importante attestazione dialettale mi è stata gentilmente segnalata in una celebre canzone di Pino Daniele: “Nui ce puzzammo ’e famme, / ’o ssanno tutte quante, / e invece ’e ce aiutà / ce abboffano ’e cafè” (Na tazzulella ’e cafè, nell’album di esordio Terra mia, 1971; la canzone ebbe ampia diffusione anche perché lanciata in radio da Renzo Arbore, conduttore in quegli anni della trasmissione Alto gradimento).
Tuttavia l’espressione non si rinviene nei vocabolari dialettali dell’Ottocento (Puoti, De Ritis, D’Ambra, Andreoli), dove si registra invece morire dal freddo e simili. Nel Vocabolario napoletano-italiano di Raffaele Andreoli (Torino, Paravia, 1887), troviamo solo:
s.v. famme: murirse de famme, morir di fame;
s.v. friddo: ciuncarse o murirse de friddo [con rinvio ai rispettivi verbi];
s.v. murire: murirse de famme, de sete, de suonno, de friddo, e simili, morir di fame, di sete, di sonno, di freddo, ed anche dalla fame, dalla sete, ecc. – murirse de famme, figur., per esser poverissimo, morire di fame
E in effetti nel dialetto napoletano, come ben attestato dalla lessicografia dialettale, piuttosto che puzzare e puzzo, si usano i verbi fètere, fetìre (e fetì’), affetìre, ammorbare, e i sostantivi fiéto, fetènte, fetóre.
Pertanto la nostra espressione viene registrata solo a partire dalla seconda metà del XX secolo (ma risulta tuttavia ancora assente nel corposo Vocabolario napoletano-italiano di Antonio Salzano (Napoli, Edizioni del Giglio, 1989). Si vedano:
1) Antonio Altamura, Dizionario dialettale napoletano (Napoli, Fiorentino, 1968; 1a ed. 1956)
s.v. famma: puzzarse d’ ’a famma, la miseria si sente di lontano;2) Sergio Zazzera, Dizionario napoletano (Roma, Newton Compton, 2013, 1a ed. 2007)
s.v. puzzà’ (puzzare): puzzarse da ’a fàmma, miseria che si sente di lontano;
s.v. frìddo: ciuncàrse opp. morìrse opp. puzzàrse ’e friddo = gelare
s.v. puzzà’: p.se ’e fàmma opp. ’e friddo opp. ’e suónno = avere tanta fame opp. tanto freddo opp. tanto sonno
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L’espressione sembra suscitare molta curiosità fra i parlanti nativi, considerando la presenza di partecipate discussioni sul web, dove si avanzano le ipotesi più stravaganti. Ad esempio: il cadavere di chi muore di freddo o di fame si decompone, e pertanto puzza; “riguardo il puzzare di fame è certo che chi digiuna tanto va in acidosi e il suo alito emana un tanfo di acetone”; qualcuno fa riferimento a un presunto “odore del gelo”, oppure alla minzione incontenibile suscitata dal freddo, o ancora all’odore di panni umidi nei freddi bassi napoletani.
La più curiosa e incredibile è registrata in un post del 17 settembre 2020:
[mentre nelle case dei ricchi ci si scaldava con la stufa], nelle case più misere e dint’ ’e vasce, il tepore umano provocato dalla vicinanza non bastava a riscaldare... Allora, con decenza parlando, “se facevano sotto” per riscaldarsi al tepore delle proprie urine e feci. Di qui l’abbinamento tra il freddo e la puzza, il cui tanfo si diffondeva nei vicoli più poveri.
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Dopo questa rassegna di ipotesi, tutte poco persuasive, osserviamo che:
Tuttavia, dopo aver rilevato che puzzarsi assume in quelle espressioni la stessa funzione di morire, resta ancora da spiegare le ragioni originarie dell’utilizzo del verbo puzzare.
Vediamo anzitutto la spiegazione che presenta Raffaele Bracale (autore di varie pubblicazioni sul dialetto, sulla cultura e sulla cucina napoletana, deceduto nel 2022), che traggo dalla citazione di un post e nella quale si assegna l’origine delle espressioni e la precedenza cronologica a puzzarsi di fame:
A margine e prendendo spunto dal termine famma (fame) rammento che in napoletano è viva e vegeta l’espressione Puzzarse ’e famma che serví da modello a Puzzarse ’e friddo usate per comunicare al colto ed all’inclita di avvertire i morsi della fame o quelli del freddo. L’espressione di partenza fu “puzzarse ’e famma” talora imbarocchita in “puzzarse d’ ’a santa famma”; l’altra fu creata per analogia. Ma perché: “puzzarse ’e famma”? Perché quando si avvertono i violenti morsi della fame, lo stomaco comincia a secernere i succhi gastrici della digestione che lavorando a vuoto, producono eruttazioni maleolenti donde l’espressione. E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento.
Il meccanismo fisiologico così descritto non persuaderebbe il gastroenterologo. Vero è invece che l’insufficiente apporto di carboidrati nell’alimentazione induce l’organismo a bruciare grassi per produrre energia, fino a generare la condizione chetonemica detta acetone; il quale, com’è noto, ha spesso come primo sintomo uno sgradevole odore di frutta matura, emesso dai polmoni.
In ogni caso, di là dalla fondatezza di queste ipotesi, quello che sembra comunque verosimile è che l’origine di entrambe le espressioni puzzare/puzzarsi di freddo o di fame sia connessa con la miseria: chi è povero, chi sta morendo di fame o di freddo, generalmente trascura anche l’igiene personale, circostanza che può aver indotto ad associare espressivamente la povertà con la puzza, il freddo e la fame. Si può quindi ipotizzare un meccanismo mentale metonimico, che associ il fetore alla miseria, alla fame, alla scarsa igiene, e magari anche alla morte, sostituendo così morire con puzzare. In questa direzione è interessante leggere un brano che traggo dal primo romanzo di Erri De Luca (Non ora, non qui, Milano, Feltrinelli, 1989: una rievocazione della sua infanzia a Napoli, dove è nato nel 1950):
Molte schifiltoserie mi ha suscitato la città che meno se ne cura. Il moccio del naso, lo sputo, la tosse catarrosa, la dissenteria che procurava il freddo [...]. Il freddo faceva venire la cacarella. Solo da bambino l’ho saputo e ora mi pare quasi di inventare una notizia anziché ricordarla. L’ho riscoperta un mattino d’inverno quando mi trovai, molti anni in più, nella piazza delle corriere a Brunico nel Tirolo del sud. Quel freddo profumava di gelo tenuto fuori dalle case, di abeti gonfi di neve, di cuoio ingrassato e sbuffi di caffettiere. Lo respirai e ricordai d’improvviso il tanfo del freddo del mio vicolo dove la voce gelava in gola ai passanti, nessuno parlava più bene ed erano tutti balbuzienti. Le mani erano gonfie, la dissenteria infestava il poco spazio comune; da quelle mie parti si usava dire: puzzare di freddo. A Brunico sentii l’aroma fragrante del gelo, l’allegria che può contenere e che non conoscevo. Seppi che può anche profumare il freddo.
Diversamente dal Bracale, l’ipotesi contraria della precedenza cronologica di puzzarsi di freddo e dell’associazione con la miseria è piaciuta da ultimo a Roberto Saviano, che la ricorda in un recente articolo (12 febbraio 2021, su Corriere.it – “Corriere della sera” online; il testo va contestualizzato nell'ambito della polemica dell'autore contro l’abbandono dei migranti al gelo nell’Europa dell’Est):
Nella mia terra, a Napoli, c’è un’espressione meravigliosamente drammatica: «puzzarsi dal freddo». Ha un significato profondissimo ed eloquente, declinabile in due grandi macrostorie. La prima: il freddo, quando lo vivi per strada e sei mal coperto, ti prende soprattutto allo stomaco, lo senti lì, e tutto ciò che hai dentro non lo trattieni, va giù nei pantaloni, ti cachi addosso, e puzzi. La seconda è quella dei bassi napoletani, le abitazioni al piano terra che danno sul marciapiede: un tempo, d’inverno, nei bracieri spesso non c’era nulla da ardere, né legno né carbone, quindi a letto ci si urinava addosso per scaldarsi, e questo ti faceva puzzare. L’intera Europa, il governo bosniaco e quello croato stanno puzzando per il proprio comportamento, un puzzo assai peggiore del puzzare dal freddo, perché il loro puzzo è morale, politico, un puzzo che solo la barbarie sa emanare. (Roberto Saviano, Il Generale Inverno, arma contro i migranti. Ma è l’Europa barbara che puzza dal freddo; grassetto nell’originale)
Si noti tuttavia che viene qui riproposta l’inaccettabile spiegazione del “farsela sotto”, già presentata nel post prima citato del 2020: comportamento che sembra assurdo, e che risulta in pratica anche molto poco economico per ovvie ragioni di termologia.
Massimo Bellina
29 settembre 2023
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