Qualunque sia la verità: il dubbio e l’apocrifia

Diversi lettori chiedono se siano ugualmente corretti i termini apocrifia e apocrificità.

Risposta

Sfogliando i vocabolari dell’italiano contemporaneo si può osservare che solo lo Zingarelli registra, dall’edizione 2010, il termine apocrifia, che indica la “caratteristica di libro, testo e sim. apocrifo”: un nome astratto, più precisamente un nome di qualità, che deriva dall’aggettivo qualificativo apocrifo. Apocrificità, pur documentato con lo stesso significato, non ha trovato ospitalità nelle pagine dei dizionari. Ma proprio dall’aggettivo base apocrifo conviene partire, gettando uno sguardo sulle vicende della parola.

Origine e significati di apocrifo

L’aggettivo apocrifo è una voce di origine e tradizione colta che proviene dal latino cristiano apŏcryphus, adattamento dell’aggettivo greco, già classico, apókryphos, derivato di apokrýpto ‘nascondo, occulto, sottraggo (alla vista)’: significava dunque ‘nascosto, segreto’, in senso traslato ‘oscuro, recondito, difficile da capire’.

Usato dapprima per indicare i libri ‘segreti’ di diffusione settaria (testi gnostici), la cui lettura era riservata agli iniziati, e non ammessi all’uso liturgico, il termine è poi impiegato nella medesima tradizione giudaico-cristiana dai Padri della Chiesa per indicare i testi non accolti nel canone delle Sacre Scritture, ovvero il catalogo dei libri biblici considerati ispirati. Al termine di questa transizione semantica, che si conclude nel IV secolo, apocryphus, alludendo a uno scritto dubbio nell’autorevolezza e nell’attribuzione, portatore di teorie di fede malsicure, finisce così per diventare sinonimo di ‘spurio, falso’, o addirittura ‘eretico’.

Gli apocrifi biblici (Apocalissi apocrife, Atti, Vangeli apocrifi) costituiscono in realtà un variegato insieme di scritti di contenuto religioso, che narrano fatti ed eventi della vita di Gesù, diseguali per data, lingua, autore, genere letterario, fortuna e uso. In contesto religioso la nozione di apocrifo è dunque in opposizione dialettica al concetto di canone (gr. kanṓn, ‘misura’, ‘regola e norma’). L’affermazione di un corpus di testi normativi, secondo criteri di accoglimento, determina diversi percorsi di ricezione e differenti destini dei testi apocrifi, e la loro conseguente svalutazione; tuttavia tale qualifica non ne esclude, criticamente, dal punto di vista filologico e storico, l’autenticità o la veridicità (selezioni diverse possono provocare “apocrifizzazioni” diverse). 

Con questa connotazione del linguaggio religioso il termine apocrifo entra nell’italiano, dove è attestato dal XIV secolo (nel TLIO la prima attestazione è datata al 1363 nel Libro del difenditore della pace, nella forma apocrifes, pur con il dubbio che si tratti di un francesismo non adattato; la datazione “av. 1328” proposta dal vocabolario Zingarelli rimanda al commento di Jacopo della Lana alla Commedia, nel proemio di Inferno XIV, in riferimento agli Apocrifi di Esdra, secondo la lezione dell’edizione di Luciano Scarabelli [1866-67], mentre la più recente edizione di Mirko Volpi [2009] legge Apocraxi o Apocrisi), nel significato di ‘non veritiero, non autentico’, per indicare, come aggettivo e sostantivo, ‘i libri non canonici dell’Antico e del Nuovo Testamento’. E con tale valenza semantica deteriore apocrifo percorre l’età medievale e moderna, dove viene usato anche al di fuori dell’ambito teologico-ecclesiastico, ed è detto “di scritto, documento, opera d’arte attribuita a un autore o a un’epoca, ma in realtà non autentica” (Sabatini-Coletti 2008), o almeno di dubbia autenticità riguardo al contenuto e all’autore, la cui veridicità non è accertata; sospetta, sebbene ampiamente diffusa come vera. Per estensione, nella sua accezione più generale, si intende per apocrifo qualsiasi ‘falso’.

Questi ampliamenti di significato si possono considerare codificati tra XVI e XVII secolo, sebbene un’attestazione sporadica si trovi già nell’anonimo Commento all’Ars amandi del 1388, laddove spiega i nomi di Bacco (l. I, v. 563): “ma questa cosa non è autentica, ma sì è apocrifa, çò è cosa che non ha certo actore”. Nella percezione di valore di autenticità incerta per anonimia, il termine è attestato in Francesco Berni, nel Capitolo del gioco della primiera (Roma, per Francesco Minizio Calvo, 1526): “io ho più volte udito dire un proverbio che non so se si è apocrifo, o autentico, perché è senza autore”. L’uso estensivo di apocrifo nel valore pieno di ‘finto, falso, ingannevole’ è testimoniato dal GDLI nelle Scintille poetiche o poesie sacre e morali del gesuita Giacomo Lubrano, pubblicate a Napoli da Parrino e Muzio nel 1674, sotto lo pseudonimo di Paolo Brinacio, in cui sono descritti “apocrifi cimieri”, cioè capigliature posticce, parrucche; “apocrifi volumi”, libri intagliati nel legno; una “apocrifa fortuna”, un’illusoria ricchezza che non c’è, e così via. 

Come termine tecnico della filologia, apocrifo sembra non appartenere al vocabolario degli umanisti (manca in Silvia Rizzo, Il lessico filologico degli umanisti, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1973), tra le operazioni della loro attività critica testuale. Nella letteratura profana il termine apocrifo riguarda essenzialmente il problema dell’autorialità di un testo, ed è per lo più utilizzato come sinonimo di pseudepigrafo (lett. ‘dal falso titolo’, o ‘falsa intestazione’), opera o manoscritto cioè falsamente attribuiti a chi non ne è il vero autore, per accidente della tradizione o deliberata scelta di falsificazione. Compito della filologia è stabilire l’autenticità dell’opera, ovvero la sua paternità (filologia attributiva) e restituirla nella forma più vicina all’originale, in cui l’autore l’ha composta, attraverso una corretta interpretazione del testo (restitutio textus), liberandola da eventuali alterazioni.

Nella lingua del diritto le espressioni firma apocrifa, testamento apocrifo (‘testamento olografo falso’) indicano una sottoscrizione ‘non autentica’, ‘falsa’, ovvero non di pugno dell’autore effettivo della scrittura o della persona deceduta, ma apposta da altra persona; con estensione a una possibile, parziale o completa, alterazione e falsificazione della redazione della scrittura stessa. I tratti peculiari della parola, che si identificano nel dubbio di paternità del documento e della sua genuinità, sono così espressi in Giovanni Battista De Luca, Il Dottor Volgare, Roma, nella Stamperia di G. Corvo, 1673: “però in tutte [le dichiarazioni] cam[m]ina l’istessa regola; cioè, che non si dia loro fede alcuna, quando non siano autentiche, cioè con la sottoscrizione, e col sigillo del Cardinal Prefetto, e del Segretario, attesoche molte sono apocrife, overamente alterate” (l. XV, cap. XI). Il termine apocrifo si trova nella lingua della dottrina giuridica e della pratica del diritto, ma non nei testi normativi, che si riferiscono alla non autenticità di atti e scritture con altri termini, come falso, contraffazione o alterazione

Di un qualche spostamento della parola dal linguaggio specialistico a quello comune, come sinonimo di ‘falso, finto’ (relativo sia all’autorialità sia ai contenuti/testo) troviamo tracce sfogliando i quotidiani, per es. un “telegramma apocrifo” (Al processo dei russi, “Corriere della Sera”, 13/5/1910); un “sito [web] apocrifo” (Francesco Grignetti, L’agente segreto con licenza di raccontare, “La Stampa”, 28/9/2005).

Il valore dell’aggettivo può essere traslato e si può dunque riferire anche a persone fisiche e non solo a documenti scritti, estendendo il suo valore di ‘falsità’ e ‘impostura’: nel 1850 sul giornale satirico “Il fischietto” troviamo Un cardinale apocrifo, di Carlo A. Valle, sotto lo pseudonimo di Fra Bonaventura. Un esempio letterario è in Giovanni Faldella, nel romanzo Nemesi o Donna Folgore, scritto tra 1906 e 1909 (ma rimasto inedito e pubblicato solo nel 1974), a proposito di nuovi compiti per le curie vescovili e i tribunali civili “per discernere, se certe monache siano apocrife od autentiche” (dov’è sotteso un gioco col senso religioso di apocrifo). Altri simili usi sono presenti sui giornali, fino ai nostri giorni: “fatta non al meglio l’Europa, commenterebbe un apocrifo D’Azeglio, facciamo gli italiani” (Francesco Manacorda, Fatta (male), “La Stampa”, 22/4/2014) ecc.

Nel libro di Gesualdo Bufalino Le menzogne della notte (1988) la domanda di senso sull’esistenza prende così forma nei pensieri di Consalvo De Ritis, in un tempo sospeso in cui si specchiano memorie e invenzioni, la maschera e l’uomo, la vita e la morte:

Io, chi sono? Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri, siamo dipinti? […] Apocrifi noi tutti, ma apocrifo anche chi ci dirige o raffrena, chi ci accozza o divide: metafisici niente, noi e lui, mischiati a vanvera da un recidivo disguido; nasi di carnevale su teschi colmi di buchi e d’assenza. (Milano, Bompiani, 1988, p. 152)

Infine, sul quotidiano “la Repubblica” del 31 dicembre 2020, Angelo Di Liberto (Le parole irrinunciabili del “corsaro” Pasolini) offre i suoi consigli di lettura, «anche se a fine di un anno “apocrifo”, turbolento e disgraziato»: un anno cioè non canonico, da non tramandare, da rigettare nella sua drammatica autenticità; da disperdere, esiliare nell’ombra della memoria, da relegare nell’archivio della coscienza individuale e collettiva.

Apocrifia, apocrifità, apocrificità o… apocrifezza?

Qual è allora il sostantivo, il nome astratto che deriva dall’aggettivo apocrifo, che Franz Rainer (I nomi di qualità nell’italiano contemporaneo, Wien, Braumüller, 1989, p. 114) indicava come privo di “nome di qualità usuale”?

Il vocabolario Zingarelli, come si è detto all’inizio, accoglie nel suo lemmario il sostantivo apocrifia, “caratteristica” (condizione o evenienza) di un’opera, libro, scritto o documento apocrifo, datandone la prima attestazione al 1846 e desumendola con buona probabilità dal saggio dell’edizione con commento della Divina Commedia (Inferno, canti I-III) di Marco Aurelio Zani de’ Ferranti, pubblicata appunto in quell’anno (Parigi, Baudry Libreria europea), a proposito del De vulgari eloquentia, del qual trattato “concessane pure l’apocrifia, non per tanto si rimarrebbe dall’essere dotta e bella scrittura”.

Il termine appare attestato in realtà fin dal XVII secolo. Nella quarta edizione (1626) del Flos sanctorum di Pedro de Ribadeneira si legge che

Procoro scrisse un libro di San Giovanni Evangelista: il quale racconta molti miracoli fatti dal Santo. Ma tal libro da gli uomini dotti e gravi è tenuto per apocrifia e indegno di fede; se bene chi lo scrisse prende il nome di Procoro. (trad. it. Grazio Maria Grazi, Venezia, appresso il Ciotti, 1626, p. 605)

È opportuno però notare che le edizioni precedenti (ma anche quelle successive), italiane e castigliane, del florilegio agiografico, stampato per la prima volta nel 1599, hanno in questo luogo apocrifo (lezione senz’altro plausibile).

Più sicura è l’attestazione nell’Apologia per frate Gioanni Annio viterbese (1673), dove l’inquisitore Tommaso Mazza prende le difese del domenicano Annio da Viterbo, la cui opera era stata bollata di impostura e falsificazione, rivendicando l’autenticità di frammenti da lui pubblicati, a proposito delle genealogie dei figli di Noè e della loro dispersione:

Darrà poi credito e fermezza a tutte queste attestazioni, togliendoli, con amorevole riscontro, e contesto, quella vacillazione, e fiachezza, che li dà l’apocrifia, l’ultima, che è di Giulio Solino, autore non anniano, ma classico, certo, e di credito universale. (Verona, per Antonio Rossi e Francesco Gamba, 1673, p. 87)

È nell’Ottocento che il termine riaffiora e comincia a essere attestato regolarmente, a partire dalla trattazione su Petrarca, Giulio Celso e Boccaccio. Illustrazione bibliologica delle vite degli uomini illustri del primo di Cajo Giulio Cesare attribuita al secondo e del Petrarca scritta dal terzo (Trieste, Giovanni Marenigh, 1828), in cui l’avvocato e letterato Domenico Rossetti de Scander esamina due lettere volgari che, sotto nome del Petrarca, Ugo Foscolo aveva pubblicato a Londra (Essays on Petrarch, London, J. Murray, 1823), provando “l’apocrifia de’ suoi supposti autografi”.

Raffaele Ala, procuratore della Curia romana, interviene a sostegno di Mariano Alberti, erudito bibliomane querelato per “truffa e falsità dei manoscritti” da Candido Mazzarini, con il quale aveva formato una società per la pubblicazione di poesie inedite pseudoautografe di Torquato Tasso. Nell’allegazione n. 44 (Romana calunniosa imputazione di stellionato, falsità e truffa. Allegazione a difesa del nobil uomo signor conte Mariano Alberti, Roma, Stamperia della Rev. Cam. Apostolica, 1843) l’Ala, in un crescendo retorico, rivendica la buona fede e l’innocenza del conte Alberti contro chi insiste tuttavia a “giurare di apocrifia con la sola guida di un tipo apocrifo, quando la maggior parte degli scritti di Tasso posseduti dall’Alberti aveva in sé la prova certa di autenticità”.

Nel corso del secondo Ottocento e poi nel Novecento fino a oggi le attestazioni, prevalenti in testi di critica letteraria e filologica, si alternano a quelle in ambito giuridico (apocrifia della firma, del testamento ecc.): l’“apocrifia delle firme” spunta fuori anche in contesto sportivo nelle colonne del “Corriere della Sera” ("Da Inter e Milan nessuna firma falsa", 27/1/2007), a proposito di contratti e calciatori.

Il termine era già comparso più volte sulle pagine del “Corriere” in occasione dell’accesa polemica letteraria, che si consumò tra l’estate 1997 e l’inverno successivo, a proposito del Diario postumo, titolo arbitrario di una raccolta di 84 liriche attribuite a Eugenio Montale, composte tra 1969 e 1979 (e pubblicate da Mondadori nel 1996), di cui Dante Isella sottolineava l’“affermata e qui più ribadita apocrifia” (Montale. Il verdetto del grafologo, 27/7/1997). La complessa questione dell’autenticità dell’ultima produzione poetica (pseudo)montaliana si è protratta per molti anni: materiali d’autore o clamoroso falso?

La denuncia e l’accusa di sospetta o presunta apocrifia si fondano su indizi o prove evidenti; l’indagine è condotta attraverso l’analisi dei testimoni (in filologia, manoscritti o libri a stampa antichi per mezzo dei quali è trasmesso un testo; in giurisprudenza, persone che hanno assistito a un fatto e possono affermarne la veridicità) e culmina nel giudizio sull’acclarata autenticità o apocrifia. Che si tratti di un documento o di un’opera letteraria, le due discipline – filologia e giurisprudenza – condividono con scopi diversi i modi e la terminologia dell’“investigazione poliziesca” (come scrive Zeno Verlato, L’‘apocrifo profano’ e il canone letterario, in Contrafactum. Copia, imitazione, falso. Atti del XXXII Convegno interuniversitario, Bressanone/Brixen, 8-11 luglio 2004, a cura di Alvise Andreose, Gianfelice Peron, Padova, Esedra, 2008, pp. 293-310), alla ricerca inesausta della verità (autoriale e testuale in filologia; fattuale e giudiziale, processuale in giurisprudenza).

Recensendo l’ultima opera di Gesualdo Bufalino sul “Corriere della Sera” (E i “patrioti” tradirono. Una parabola pseudorisorgimentale di Bufalino, 3/4/1988), Enzo Siciliano scrive del caleidoscopio di apparenze tra le finzioni della pagina scritta (“quella apocrifia che è lo scrivere”) e l’esistenza reale, del velo tra vero e falso, che si confondono tra le menzogne della notte.

Dal punto di vista grammaticale, apocrifia è un’impeccabile e trasparente formazione sostantivale, ottenuta aggiungendo all’aggettivo apocrifo il suffisso -ìa, risalente al greco -ía: un suffisso molto impiegato nelle terminologie scientifiche, dove si aggiunge a elementi formativi di origine greca. Il termine non esiste dunque in greco o in latino; è una neoformazione italiana.

Nella formazione di nuove parole la presenza nel lessico di una parola blocca spesso (ma non sempre) la nascita di altre parole con lo stesso significato: questa tendenza non si è verificata nel nostro caso, dove l’aggettivo apocrifo ha assunto altri suffissi, concorrenti, dando luogo ad altri sostantivi dal medesimo esito semantico. Tra i suffissi derivativi – suscettibili nella selezione delle basi e sensibili a restrizioni fonologiche, stilistiche e semantiche – a disposizione dell’italiano, caratteristico per la creazione di nomi astratti è -ità, che si lega preferibilmente ad aggettivi con più di due sillabe, stilisticamente piuttosto elevati. Come in apocrifità.

La forma apocrifità appare documentata nel Compendio storico di memorie cronologiche concernenti la religione e la morale della nazione armena suddita dell’Impero ottomano (1786) del marchese Giovanni de Serpos, ricco banchiere di origini armene (ma dietro al quale si cela la penna del teologo Giuseppe Marinovich), a proposito della veridicità della cronaca dello storiografo armeno del V secolo Agatangelo, sull’introduzione del Cristianesimo in Armenia da parte di san Gregorio Illuminatore:

non esistendo più, come s’è detto, l’autografa storia di questo scrittore, i moderni vocaboli, che nelle successive sue copie s’incontrano, provano sibbene l’età respettive de’ copiatori, ma non provano l’apocrifità assoluta di essa storia, com’è chiaro da’ termini. (Venezia, nella Stamperia di Carlo Palese, 1786, tomo I, p. 208)

Nella Biografia degli uomini illustri trapanesi dall’epoca normanna sino al corrente secolo (tomo I, Trapani, presso Mannone e Solina, 1830) di Giuseppe Maria Di Ferro, la storia del martirio di Antonino Paci è descritta nella stampa palermitana, a differenza di quella di altre città, “con qualche apocrifità”, ovvero con qualche particolare falso, ma non completamente: quasi un’estensione semantica del termine da qualità ad atto, a indicare ‘elementi di falsità’.

Nelle sue Correzioni e giunte al Vocabolario degli Accademici della Crusca sin qui publicato (Forlì, Matteo Casali e C., 1869) Alfonso Cerquetti lamenta l’assenza nel vocabolario del termine apocrifità, come astratto di apocrifo.

Nel corso dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento il sostantivo apocrifità è sulla punta della penna di filologi e letterati, come Pietro Fanfani, Costantino Arlìa, Isidoro Del Lungo, Michele Barbi: usato frequentemente, di preferenza nella comunicazione accademica filologica, il suo uso si dirada dalla metà circa del Novecento a vantaggio di apocrifia.

La prima occorrenza di apocrificità pare invece rintracciabile nell’opera La democrazia combattuta coll’esperienza di tutti i secoli (1800), pubblicazione anonima, ma attribuibile al prelato Paolo Vergani, in un passo in cui l’autore, ripercorrendo le varie età storiche, ritrova nell’opera di san Tommaso d’Aquino un’ulteriore testimonianza a favore del governo monarchico:

[…] la nostra causa non verrebbe ciò non pertanto a mancare di una sì rispettabile autorità, essendo essa chiaramente registrata in una di quelle opere del S. Dottore, su cui non cade alcun dubbio di apocrificità, e che di più è fra tutte la più rinomata, e la più celebre […]. (Venezia, presso G. Storti, 1800, p. 103)

Nell’arco dell’Ottocento e anche in tempi più vicini l’uso del vocabolo sembra diviso tra ambito giudiziario e filologico-letterario, con una lieve inclinazione per il primo campo: ad esempio, nella grafologia forense, in perizie per pareri legali al fine di stabilire l’autenticità o l’apocrificità di documenti olografi (firme, lettere, testamenti, assegni, cambiali, contratti); ed è a questo proposito che si trova l’unica attestazione del sostantivo sui quotidiani (La grafologia protagonista a Savona, “La Stampa”, 25/5/2001), in occasione di un incontro del Circolo degli Inquieti: “i tribunali, addirittura, del grafologo si servono per […] sancire l’apocrificità di una firma”.

Si può riscontrare poi l’uso del termine in una sentenza sulla contraffazione di opere d’arte, dove si legge che la “consapevolezza della falsità” derivava dal “significativo grado di apocrificità [dei quadri]” (Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, 12/03/2008, Ud. 17/01/2008, Sentenza n. 11096), per l’evidente, maldestra imitazione dei dipinti e dello stile personale del pittore plagiato.

Sul piano morfologico, apocrificità potrebbe derivare da apocrifico, aggettivo che è documentato nel Corpus OVI in un volgarizzamento pisano della Legenda aurea di Iacopo da Varazze, databile alla fine del XIII secolo, che comprende quattro episodi mariani: nel capitolo dell’Assunzione della Vergine si dice di un libro “apocrifico chiamato” in cui “alcuna cosa n’è da credere”. L’edizione critica della Legenda aurea in latino (ed. di Giovanni Paolo Maggioni [1998], cap. CXV), porta nel medesimo punto apocryphus; un aggettivo apocryphicus non sembrerebbe documentato nella tarda latinità (l’unica attestazione, registrata dal Thesaurus linguae latinae, nell’epistola 237 di sant’Agostino a Cerezio sull’eresia priscillianista corrisponde alla lezione rifiutata dall’editore A. Goldbacher [1911, CSEL 57/4, p. 527]), ma solo in età moderna, nella trattatistica soprattutto religiosa in lingua latina, tra Seicento e Ottocento.

Il suffisso -ico (lat. -ĭcus, gr. -ikós) viene non di rado aggiunto ad aggettivi originariamente greci (e passati in latino) terminanti in -o senza desinenza aggettivale, per sottolineare il loro valore di aggettivo, reso riconoscibile proprio dal suffisso -ico (peraltro particolarmente frequente e produttivo nell’italiano moderno soprattutto nel linguaggio tecnico-scientifico: cfr. Bruno Migliorini, Note sulla fortuna moderna degli aggettivi in -ico [1962], ora in Id., La lingua italiana nel Novecento, a cura di Massimo L. Fanfani, Firenze, Le Lettere, 1990, pp. 199-212).

L’aggettivo apocrifico si trova poi nel volgarizzamento di Nicolò Malerbi della Legenda aurea (Legendario delle vite de’ santi), nell’edizione veneziana del 1588 presso F. Prati, all’interno della vita di san Mattia, dove si parla di “una certa historia (benché ella sia apocrifica)”, in alternanza all’apocrifa di poche righe più su. Nelle Stuore di Giovanni Stefano Menochio si afferma che il “libro quarto di Esdra è apocrifico, et anco favoloso”, al contrario del secondo “che è canonico, et autentico” (così solo in alcune edizioni, per es. quelle di Venezia, presso P. Baglioni, 1675; Bologna, presso G. Longhi, 1678; altre edizioni riportano apocrifo).

Mentre nel Settecento abbiamo attestazioni in testi di argomento religioso, l’uso dell’aggettivo si estende più tardi anche in ambito filologico-letterario. Tra i documenti presentati come prova di accusa nella già citata vicenda del conte Alberti, sulla falsificazione dei testi tassiani (Romana di truffa con falsità contro il conte Mariano Alberti, Roma, nella Stamperia della Rev. Cam. Apostolica, 1842), ecco un biglietto attribuito al Tasso: ma “presentando questo scritto le già spesso segnalate prove di falsità, si dichiarò apocrifico ad ogni riguardo”. Nel 1878 Pietro Fanfani (Le metamorfosi di Dino Compagni, Firenze, Tip. del Vocabolario), riporta un giudizio sulla Cronica “non assolutamente apocrifica, ma illegittima”; nel 1892 Costantino Arlìa nel suo Dizionario bibliografico (Milano, U. Hoepli) esemplifica la voce apocrifo scrivendo “Evangelio apocrifico, libri apocrifi, scritto, codice apocrifo”; sul “Giornale storico della letteratura italiana” del 1898 Michele Losacco, passando in rassegna la fioritura di pubblicazioni dedicate a Giacomo Leopardi, in occasione del centenario della nascita del poeta, elenca, in una recensione, le sviste e gli errori nel libro di Hjalmar Hahl, in cui “ci s’imbatte con meraviglia in un apocrifico (passim)”.

La forma apocrifico sembra dunque circolare parallelamente ad apocrifo, con modesta ma regolare frequenza, e qualche apertura verso contesti diversi. Rare sono le occorrenze nei giornali: sul “Corriere della Sera” (Telegrammi Stefani, 2/2/1881) “la pretesa nota [scritta]… è completamente apocrifica”; ricompare dopo un secolo nell’articolo Figurine senza droga (“La Stampa”, 10/1/1989, a firma: Simonetta) un “volantino apocrifico”, riportante cioè una falsa segnalazione sulla presenza di sostanze stupefacenti in certe figurine-tatuaggio per ragazzi; in un trafiletto sulla “Stampa” (24/11/2001) si apprende che il presidente di una società calcistica è stato deferito “per aver apposto, ovvero fatto apporre la firma apocrifica” nella lista di trasferimento di un giocatore. Infine, sulla “Repubblica” (A Greccio il primo presepe. E il mistero dell’asino e del bue, 7/12/2017) Eraldo Affinati scrive del bue e dell’asinello nel presepe, che “non sono presenti nel Vangelo, bensì nella tradizione apocrifica, indicando rispettivamente il popolo ebraico e quello pagano”.

La desinenza -ità di apocrificità ben rappresenta espressivamente il carattere di astrattezza e al tempo stesso di tecnicità e univocità comuni ai linguaggi settoriali, e in particolare propri della prosa giuridica, che cristallizza e sublima cripticità, elevatezza del registro e autorevolezza.

L’uso del sostantivo (e anche dell’aggettivo apocrifico) può essere inoltre favorito anche da un meccanismo di analogia di termini appartenenti all’area di interesse: agiografico, apocrifico, autentico, canonico; apocrificità, autenticità, canonicità, veridicità.

Infine, della forma apocrifezza abbiamo testimonianza isolata nel saggio di Vittorio Imbriani Sulla rubrica dantesca nel Villani, pubblicato nel 1880 sulla rivista “Il Propugnatore” e ristampato nel volume dei suoi Studi danteschi (Firenze, G. C. Sansoni, 1891), laddove riporta, fra “le pruove ex silentio dell’apocrifezza della Cronaca di Dino Compagni” annoverate da parte di Pietro Fanfani, il fatto che Dino non ricordi che Dante fosse a Campaldino. Un’invenzione lessicale, con una venatura semantica sottilmente connotata, quasi che l’apocrifezza fosse una caratteristica intrinseca, quasi stato o difetto fisico e morale.

E proprio a sostantivi esprimenti disposizioni umane oppure qualità estetiche, come ci ricordano i manuali di linguistica, il suffisso -ezza (continuazione popolare del latino -ĭtia) può talora dare origine, legandosi ad aggettivi con particolari terminazioni, a participi aggettivali in -to, o anche creando neologismi in accezioni e ambiti semantici differenziati. La media produttività del suffisso trova riscontro anche nel nostro caso, in cui gli informatori di Rainer (nell’inchiesta di cui si dà notizia nel libro già menzionato, a p. 114), “seppur con molta reticenza, hanno dato la preferenza a -ità”, ovvero alle forme apocrifità e apocrificità rispetto ad apocrifezza.

Rare e disperse sono, da ultimo, le attestazioni di altri derivati di apocrifo, come apocrifamente (avverbio documentato dal XVI secolo) ‘in modo apocrifo’, ‘falsamente’; apocrifare, usato da Ippolito Pindemonte nell’Elogio del marchese Scipione Maffei (negli Elogi di letterati, tomo I, Verona, presso la tipografia Libanti, 1825: “apocrifare un passo”, ovvero ‘rendere apocrifo’ un testo, considerandolo falso), cambiato nella seconda edizione (Milano, per Giovanni Silvestri, 1829) in apocrificare, registrato da Alfonso Cerquetti con il significato di ‘guastare il sentimento di una scrittura’. Formati sul modello di canonizzare, canonizzazione e testimoniati più o meno dall’ultimo quarto del secolo scorso, sono poi apocrifizzare ‘rendere apocrifo’, ‘escludere da un canone’ e apocrifizzazione ‘il rendere apocrifo e il suo risultato’.

La sostanziale assenza nei repertori lessicografici (eccezion fatta per le note tardo-ottocentesche di Alfonso Cerquetti e il vocabolario Zingarelli nel nuovo millennio), dovuta anche alla settorialità degli ambiti in cui esse hanno trovato circolazione, ha provocato probabilmente la coniazione di più forme lessicali per il sostantivo derivante dall’aggettivo apocrifo, con conseguente oscillazione d’uso.

Anche in altre lingue possiamo constatare questa situazione di instabilità e talora di incertezza lessicale, che si concretizza nell’uso del virgolettato. In francese la forma apocryphité (registrata nel TLFi) è affiancata da apocryphie (minoritaria la forma apocryphicité); in inglese apocryphalness (attestata nei dizionari Merriam-Webster e Collins, ma non nell’OED) ricorre più frequentemente di apocryphicity, titolo altresì di un blog dedicato alla discussione sugli apocrifi religiosi cristiani creato nel 2006 da Tony Chartrand-Burke, docente di Studi biblici alla York University di Toronto. In tedesco abbiamo non frequenti attestazioni, dall’Ottocento a oggi, delle forme Apokryphie e Apokryphität; in spagnolo troviamo apocrifidad e apocrifia, ma nessuno dei due sostantivi si trova nel Diccionario della Real Academia Española, che registra solo apócrifo.

L’aggettivo apocrifo, tradizionalmente radicato nella sfera teologico-ecclesiastica, si estende dunque nel linguaggio filologico-letterario e giuridico, interessando talvolta anche la lingua comune, sempre con il significato di ‘falso, finto’. A quest’uso corrisponde un impiego più ristretto del sostantivo astratto, che da apocrifo deriva (e di cui conserva le eredità semantiche), di solito collocato in una frase dalla costruzione stilisticamente più ricercata e formale; è la conseguenza del ricorso alla nominalizzazione, che comporta, dal punto di vista semantico, l’astrazione dalla realtà molteplice dei fatti, dal particolare all’universale: a quell’universalità a cui le lettere e soprattutto il diritto tendono, per conferire scientificità e validità generale alle riflessioni dottrinali e ai testi normativi.

Premessa la difficoltà di definire la “correttezza” di una forma lessicale, i sostantivi analizzati, coniati secondo regolari processi derivativi, e sinonimicamente sovrapponibili, presentano tutti (escludendo l’occasionalismo apocrifezza) una tradizione di attestazioni e circolazione. Una limitata affermazione fino ai nostri giorni, tra diritto e filologia, sembra avere apocrificità; ridotta vitalità appare invece possedere la forma apocrifità, il cui apice d’uso e popolarità si concentra tra secondo Ottocento e prima metà del Novecento. Su questi si afferma la forma sostantivale di più antica attestazione: largamente prevalente nell’uso specialistico, costante nell’impiego contemporaneo più esteso, è infatti apocrifia, limpida formazione neoclassica, nella materia talvolta labile, dai confini non sempre netti e dai contorni sfrangiati, del discrimine tra il vero e il falso.


Mariella Canzani

16 dicembre 2022


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