Quando e come usare il verbo fare: ovvero, si possono usare fare la cucina e mi fa fame?

Diverse curiosità si appuntano sugli usi del verbo fare. Le dividiamo in due gruppi. Da un lato, tre lettrici chiedono lumi sulle espressioni mi fa fame e mi fa fastidio, due di loro tematizzandone la correttezza o scorrettezza, in modi divergenti che ci permetteranno di entrare in materia. La prima scrive (da Messina): “Molti miei compaesani usano l’espressione: mi fa fame. Ho spiegato loro che non è corretto. Perché si dice: io ho fame. Ma non so in realtà dare una spiegazione plausibile”. Un’altra, da Napoli, osserva: «Da sempre, mia figlia ha detto mi fa fastidio anziché la usuale frase mi dà fastidio, riferendosi al fratello che, a suo dire, la infastidiva. Ha quasi sei anni e, prima di correggerla, vorrei un Vostro parere: ho il sospetto che abbia ragione. Prima mi crei il fastidio, me lo “fabbrichi”, per intenderci, poi me lo consegni. […] Logicamente credo che abbia ragione lei […] che sia corretto dire mi fa fastidio piuttosto che mi dà fastidio o, al massimo, entrambi i modi di dire» (un’ulteriore domanda sulla correttezza o meno di mi fa fastidio proviene da una lettrice di Catania). D’altro canto – passiamo al secondo gruppo – altri lettori e lettrici di varie provenienze pongono questioni come la seguente, telegrafica: “verbo transitivo fare: È corretto usarlo come fare la lavatrice - fare la cucina?”. O anche chiedono lumi circa l’alternativa tra fare i piatti e lavare i piatti.

Risposta

La risposta ai quesiti investe molti àmbiti: da un lato dovremo parlare di sintassi, trattandosi di combinazioni di un verbo (fare) con altri elementi della frase. Dall’altro dovremo anche parlare di sociolinguistica, in quanto la “correttezza” su cui verte la maggior parte delle domande è nozione da commisurare alle sfere d’impiego della lingua nella società, e di geolinguistica, in quanto se sul secondo fronte – quello della (liceità della) combinazione di fare con diversi oggetti (la lavatrice, la cucina, i piatti) – le costruzioni oggetto dei quesiti sono d’impiego comune in tutta la Penisola, sul primo fronte invece i costrutti mi fa fame/fastidio ecc. sono piuttosto localizzati, ristretti all’uso di alcune regioni.

Cominciamo dalla sintassi. Fare ha un significato molto meno specifico di verbi come mangiare o decidere. Anche per questo esso si presta interlinguisticamente a una varietà di costruzioni sintattiche entro le quali esso manca di ogni significato proprio, sul che ironizza, a proposito della formula con cui ci si presenta a estranei in inglese, Voltaire nella Principessa di Babilonia: “Dopo un quarto d’ora di silenzio, [Milord Che-importa] guardò un momento Amazan e gli disse: “How d’ye do?”, alla lettera: Come fate a fare? e nella lingua del traduttore: Come state?, cosa che non vuole dire nulla in nessuna lingua” (Voltaire, La principessa di Babilonia. Le lettere di Amabed, prefazione di Dario Voltolini, traduzione e cura di Lorenzo Bianchi, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 65).

Alle varie costruzioni in cui ricorre fare, per l’italiano, hanno dedicato un nitido volumetto qualche anno fa La Fauci e Mirto (2003): fra queste, l’uso causativo (quello per cui il verbo fare introduce nella proposizione un nuovo soggetto designante chi o ciò che provoca l’evento denotato dal predicato iniziale: es. “Mara fa soffrire i suoi spasimanti”) e quello – su cui, diversamente dal precedente, torneremo – di verbo supporto di un nome predicativo (come in “Gino fa una pennichella”). Un verbo supporto è un verbo utilizzato per inserire nella frase un nome che non ha la funzione di argomento di una predicazione espressa da un verbo bensì è al contrario esso stesso veicolo della predicazione. Mentre infatti in “Mario mangia” il verbo (categoria definita a livello morfolessicale) è anche il predicato (funzione definita a livello sintattico), nel caso di “Mario fa una bella mangiata” quest’ultima funzione non compete al verbo bensì al sostantivo, di cui il verbo fare è, per così dire, un mero supporto morfologico, fornendo la morfologia verbale finita necessaria per una frase (principale) di cui nell’esempio ora addotto l’altro nome, Mario, è l’unico argomento.

Nelle costruzioni sin qui menzionate, fare è o francamente insostituibile (il causativo) ovvero può essere sostituito, in dipendenza dal lessema nominale in questione: “Mara fa uno sbadiglio/una dormita” sono sostituibili con “Mara sbadiglia/dorme”, mentre così non è per il citato fare una pennichella, non esistendo un verbo *pennichellare (l’asterisco anteposto segnala l’inaccettabilità di una forma o frase). Ma la debole specificazione semantica sta all’origine del riflesso condizionato alla base della prescrizione scolastica che invita a sostituire fare con verbi dal significato più specifico ovunque possibile. È probabilmente quest’indicazione che motiva il disagio di lettori e lettrici di fronte a fare la lavatrice/la cucina o sim. E se anziché fare i piatti li si può lavare, e invece di fare la lavatrice si potrà dire fare il bucato con una perdita d’informazione minima, irrilevante per l’uso in una società in cui i panni non si lavano più al fiume, per fare la cucina non esiste un sostituito altrettanto vicino che per le altre due espressioni ora citate.

Qui entrano in gioco considerazioni sociolinguistiche. Appurato che, se si parla di operazioni domestiche, fare la cucina è difficilmente sostituibile con un’espressione altrettanto sintetica, non resta che dare l’indicazione seguente: la si può senz’altro usare se, parlando e scrivendo, non si mira a un registro alto, mentre in quest’ultimo caso si potranno invece usare espressioni quali sbrigare le faccende di cucina. Si dovrà però fare attenzione a scegliere bene l’espressione più specifica atta a sostituire quella corrente con fare, onde non incorrere in errori grossolani quali quello (discusso in Loporcaro 2005, p. 54) andato in onda nel servizio del Tg2 delle h. 20.30 del 1° aprile 2001, in cui, dopo il lancio “I camici si tingono di rosa”, si dava notizia dell’aumento percentuale delle donne nella professione medica durante l’anno appena trascorso dicendo fra l’altro che “le donne recitano la parte del leone anche fra i dentisti”. La parte del leone, tuttavia, si fa, non si recita, perché l’immagine passata in proverbio non rimanda a una parte teatrale bensì alla parte disuguale di una spartizione iniqua: la pars leonina, appunto, di cui alla favola di Fedro Vacca et capella, ovis et leo (I, 5). L’estensore del servizio mostra invece di avere interpretato l’espressione far la parte del leone, ignorandone la genesi nella favola citata, come se contenesse quell’uso che La Fauci e Mirto (2003: pp. 87 sgg.) chiamano “FareRuolo”: es. “nel Gattopardo di L. Visconti Alain Delon faceva Tancredi”) mentre in fare le parti ‘spartire’ il verbo fare ha la funzione di verbo supporto.

Passiamo ora a mi fa fame/fastidio. Anche qui ripeteremo l’osservazione sociolinguistica, qualificandole come espressioni inadatte allo scritto e al parlato formale, con l’aggravante – per dir così – che esse sono ancor più lontane dall’italiano standard: in particolare la prima in quanto fortemente regionale. Aprendo ad es. il Vocabolario siciliano (VS) di Giorgio Piccitto et alii, i nostri costrutti si trovano al num. 145 tra i 222 sottoparagrafi (dedicati a singole accezioni, espressioni fissate ecc.) in cui si articola la voce (VS II 24-27): “mi fa-fami, mi fa-ssiti ho fame, ho sete” (accanto ad es. a “mi fa-ccori di na cosa ho desiderio di qc.”, al num. 144). Dunque chi dice mi fa fame nell’italiano regionale di Sicilia sta impiegando un dialettismo, né più né meno come il mi fa sangue sdoganato in quei particolarissimi testi italiani che sono i romanzi di Andrea Camilleri ma non ancora entrato nell’uso comune.

La risposta alle domande circa la correttezza o meno di mi fa fame in italiano è dunque univoca: si tratta di un costrutto di forte impronta dialettale e come tale da evitare in un italiano standard accurato, a meno che, come nei testi di Camilleri, non si voglia ricalcare il dialetto. E questo nonostante il fatto che costruzioni simili, come ad es. mi fa pena/schifo, siano invece patrimonio comune. Quanto all’altra espressione su cui vertono i quesiti (anch’essi di provenienza siciliana e napoletana, come detto in apertura), ovvero mi fa fastidio, qui invece non si rintraccia un modello diretto nei dialetti delle zone corrispondenti in quanto la lessicografia dialettale, siciliana come napoletana, non registra l’uso del sostantivo (napol. fastidio, fastio, sicil. fastid(d)iu) in combinazione col verbo fare. Si tratta evidentemente della medesima costruzione, che si sarà ingenerata a partire dal modello di mi fa fame/sete e che può insorgere poligeneticamente, come mostra il fatto che in testi di scriventi italiani consultabili in rete (ricerca su Google il 5/1/2025) “mi fa fastidio” si ritrova sotto la penna virtuale di persone provenienti (a giudicare dal cognome, quando localizzabile, o da altri elementi, come nel caso di uno scritto premiato in un liceo di Vicenza) da regioni diverse. A proposito di quest’espressione il secondo dei quesiti citati si appella alla logica, usando l’aggettivo corretto in un senso diverso da quello sin qui tematizzato, relativo alla prescrizione normativa, in particolare scolastica. La sensazione espressa dalla lettrice è che, per ragioni appunto logiche, fastidio si combini meglio con fare che non con dare. Tuttavia qui non è possibile consentire con la gentile lettrice: una presunta maggior logicità non può fare aggio sull’uso linguistico effettivamente prevalente, uso che la norma in larga parte rispecchia pur operando una selezione. Nel nostro caso sia l’uso prevalente che la norma parlano a favore di mi dà fastidio e relegano invece mi fa fastidio ai margini della lingua, fra gli impieghi idiolettali e idiosincratici (ossia, propri di singoli individui).

Tutto ciò – è appena il caso di ricordare – vale per l’oggi, ma si dovrà tener conto che ogni norma linguistica è calata nella storia e può modificarsi nel tempo. Oggi è ancora così per i costrutti citati, proscritti dall’italiano comune, ma un domani la situazione potrebbe mutare, come mostrano vari esempi: per restare al verbo fare, e alla connotazione regionale di un costrutto che lo coinvolga – connotazione che tuttora si scorge in mi fa fame –, solo lo storico della lingua ha contezza, nel Duemila, che far ridere i polli o avere a che fare sono espressioni un tempo non di uso universale in italiano bensì di origine lombarda (registrate ad es. nella rassegna di dialettalismi per questa regione da Zolli 1986, p. 53). Nell’Ottocento, mentre aver che fare con ancora largamente prevale, si registra il primo esempio di avere a che fare con reperito nel documentatissimo studio di Castellani Pollidori (1985, p. 435) nella prima edizione dei Promessi Sposi (la ventisettana): “Questo non ci ha a che fare” (corretto nella quarantana in “Questo non ci ha che fare”, cap. XXXVIII §9). Tutti gli altri esempi reperiti dall’autrice per la prima metà dell’Ottocento sono di scrittori lombardi, mentre solo con Matilde Serao (napoletana, benché nata a Patrasso nel 1856) “si cambia latitudine” (Castellani Pollidori 1985, p. 436), con un esempio del 1884. E nonostante da metà Novecento avere a che fare si sia largamente imposto, ancora oggi qualcuno raccomanda aver che (o da) fare con, che ne è tradizionalmente il corrispettivo toscano: ma qui l’originaria prescrizione di aver che fare – con la complementare proscrizione di avere a che fare – ha ceduto – ormai anche nel parlato toscano – sotto la spinta dell’uso maggioritario, situazione registrata da Patota (2015) in base alla citata ricostruzione della plurisecolare competizione fra le diverse varianti del costrutto (con inoltre, in toscano antico, anche †avere a fare con) da parte di Castellani Pollidori (1985).

Tornando infine dalla storia a questioni squisitamente sintattiche, un’oscillazione fra ho fame/sete e mi fa fame/sete, comunque connotata dal punto di vista regionale e diastratico, non sarebbe però possibile senza determinate condizioni strutturali: in tutti questi costrutti la funzione predicativa compete al nome, non al verbo. Quelli con fare rientrano dunque nell’àmbito delle costruzioni a verbo supporto. Inoltre, l’oscillazione fra i due costrutti – uno in cui l’esperiente (della sensazione in questione) è sintatticamente soggetto (io ho fame), l’altro in cui esso è invece oggetto indiretto in una struttura impersonale, ossia priva di soggetto (mi fa fame, in cui fame non è soggetto, questione su cui però non possiamo addentrarci) – replica quel tipo di oscillazione che già vi era in latino per l’espressione del possesso (o di relazioni assimilabili quali la parentela) fra mihi est x (lett. ‘a me è x’ = ‘ho x’) e habeo x, sinonime benché distinte per contesti d’uso, livelli di lingua e traiettoria diacronica. La prima, il dativo di possesso, è originaria (non solo del latino ma è anche più antica e diffusa nella famiglia indoeuropea: Benveniste 1960, p. 231) e perde progressivamente terreno a vantaggio dell’uso di habere, sopravvissuto (e rinvigorito) nelle lingue romanze (> it. avere, fr. avoir ecc.) come mostra il fatto che nella tarda latinità si iniziò a sentire il bisogno di glossare appunto con habere la costruzione con dativo di possesso, come nella glossa sunt mihi : habeo (CGL IV 177, 67; i glossari tardo-latini sono una sorta di protovocabolari che s’iniziano a comporre nella tarda antichità e registrano voci rare o di difficile comprensione fornendone una traduzione/spiegazione, detta glossa). Favorirono inoltre la sostituzione di habere al dativo di possesso la presenza di un primo argomento designante essere umano (che del resto era il caso normale, dato che molto più raramente tale argomento si riferiva a oggetti inanimati come ad es. nella frase al verso 1250 dello Pseudolus plautino: magnum hoc vitium vinost ‘il vino ha questo gran difetto’; cfr. Hofmann e Szantyr 1965, p. 90) e di un secondo argomento designante un oggetto concreto (mihi est domus > habeo domum ‘ho una casa’; v. ad es. García-Hernández 1995, p. 328). Al contrario un secondo argomento astratto, come nel caso dei nomi predicativi di cui ci occupiamo, rallentò il processo il che ha fatto sì che il rumeno, sola fra le lingue romanze, restasse alla costruzione originaria per esprimere sensazioni e stati d’animo quali îmi este foame/sete/frică ‘ho [lett. ‘mi è’] fame/sete/paura’ (v. ad es. Iliescu e Macarie 1964, p. 440 n. 14). In italiano, viceversa, avere con costruzione personale si è esteso anche qui, dove il siciliano presenta invece – lo si è visto – la costruzione impersonale mi fa-fami, mi fa-ssiti ‘ho fame/sete’, ricalcato nell’uso regionale (mi fa fame ecc.) da cui ha preso avvio questa nota.

Nota bibliografica:

  • CGL: Corpus glossariorum Latinorum a Gustavo Loewe incohatum auspiciis societatis litterarum regiae Saxonicae. Composuit recensuit edidit Georgius Goetz, 7 voll., Leipzig, Teubner, 1888-1923.
  • Émile Benveniste, Etreet avoir dans leurs fonctions linguistiques, “Bulletin de la Société de Linguistique de Paris” 55, 1960, 113-134, poi in Id., Problèmes de linguistique générale, Paris, Gallimard, 1966, pp. 187-207, tr. it. “Essere” e “avere” nelle loro funzioni linguistiche, in Id., Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 223-247 (da cui si cita).
  • Ornella Castellani Pollidori, A proposito di un’a di troppo («avere a che fare»), “Studi Linguistici Italiani” 11, 1985, pp. 27-49, poi, con una postilla, in Ead., In riva al fiume della lingua: studi di linguistica e filologia, 1961-2002, Roma, Salerno ed., 2004, pp. 425-450.
  • Benjamín García-Hernández, La expresión de la noción verbal de posesión del latín al romance, in Latin vulgaire – latin tardif IV. Actes du 4e colloque international sur le latin vulgaire et tardif. Caen, 2-5 septembre 1994, a cura di Louis Callebat, Hildesheim - Zürich - New York, Olms-Weidmann, 1995, pp. 323-336.
  • Johann Baptist Hofmann e Anton Szantyr, Lateinische Syntax und Stilistik. Mit dem allgemeinen Teil der lateinischen Grammatik, München, Beck, 1965.
  • Maria Iliescu e Liliana Macarie, Aspects de l’évolution syntaxique du génitif et du datif en latin tardif, “Revue Roumaine de Linguistique” 9, 1964, pp. 437-444.
  • Nunzio La Fauci e Ignazio M. Mirto, Elementi di sintassi, Pisa, ETS, 2003.
  • Michele Loporcaro, Cattive notizie. La retorica senza lumi dei mass media italiani, Milano, Feltrinelli, 2005.
  • Giuseppe Patota, Con che cosa abbiamo che fare? O a che fare?, 16/11/2015.
  • VS: Giorgio Piccitto, Giovanni Tropea e Salvatore C. Trovato, Vocabolario siciliano, 5 voll., Catania, Centro di studi filologici e linguistici siciliani. Opera del vocabolario siciliano, 1977-2002.
  • Paolo Zolli, Le parole dialettali, Milano, Rizzoli, 1986.

Michele Loporcaro

7 aprile 2025


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