Questa risposta serve allo scopo

Un lettore ci chiede se sia legittimo l’uso di servire lo scopo, anziché servire allo scopo, che trova in testi “formali/burocratici” quali “la Gazzetta Ufficiale”: si tratta forse di un’influenza dell’inglese to serve a purpose?

Risposta

Il verbo servire seguito come complemento dalla parola scopo significa “essere utile, conveniente A (allo scopo, al fine prefisso, sperato ecc.)” e quindi richiede di essere collegato ad essa in maniera indiretta attraverso la preposizione a. In italiano standard la costruzione corretta del verbo servire è, in questo significato e combinazione, quella cosiddetta intransitiva, cioè completata da un complemento indiretto. Google apre oltre 40 mila pagine nella ricerca di “servire allo scopo” e dimostra che la maggior parte degli italiani si attengono alla regola. Ma il nostro lettore ha ragione a segnalare il costrutto transitivo di servire con la parola scopo nel ruolo di complemento diretto del verbo nello stesso (o quasi) significato precedente: “servire lo scopo”. E ha ragione non solo perché, come lui ha notato, il costrutto è arrivato persino alla “Gazzetta Ufficiale”, ma anche perché ci sono più di 10 mila pagine di Google che lo attestano: non poche:

Ad un efficace investimento deve anche corrispondere una efficace politica di risparmio, evitando di destinare i fondi pubblici alla costruzione di strutture veterinarie pubbliche là dove è presente un numero di strutture veterinarie private convenzionate che potrebbero servire lo scopo della lotta al randagismo (Relazione introduttiva alla Proposta di legge presentata alla Camera dei deputati il 4/6/2008)

Gli studiosi sostengono, con argomenti convincenti, che il ruolo più importante di un manager è servire lo scopo di un’organizzazione (Dallo scopo all’impatto trad. it. di Nick Craig e  Scott Snook, From purpose to impact, “Harvard Business Review - Italia”, maggio 2014)

Con le organizzazioni Teal, servire lo scopo diventa più importante che servire l’organizzazione (Armando Agulini, Lo sviluppo sostenibile all’interno delle nuove forme di business, creatoridifuturo.it, 20/8/2019)

Va precisato che non pochi casi di complemento diretto potrebbero essere dei refusi e che la maggior parte sembra provenire da traduzioni dall’inglese. Anche il testo della “G.U.” citato dal nostro lettore è la versione italiana di un testo edito sulla stessa “Gazzetta” anche in inglese. Resta comunque il problema di una frequenza che richiede attenzione.

Cominciamo col chiederci perché questo costrutto. Il lettore ha già dato la risposta più plausibile: è un calco sintattico dell’inglese to serve the purpose, che traduce il nostro servire allo scopo ‘essere utile a raggiungerlo’ e non a caso compare spesso, come appena detto, in traduzioni dall’inglese o nel linguaggio aziendale che dell’inglese è intriso. È una frase che ha il suo posto tra le locuzioni più frequenti in inglese con il verbo to serve. Questa dunque la spiegazione del costrutto.

Ci domandiamo ora: l’italiano è pronto a riceverlo e gli è utile? Pronto lo è, a dire il vero, perché il verbo servire può essere tanto costruito come transitivo quanto come intransitivo (“X serve il padrone, il popolo, gli ospiti, il caffè // mi serve Y, Y non è servito a nulla”) e perciò nessuna regola grammaticale astratta impedirebbe di costruirlo con scopo come complemento diretto. Non c’è neppure una restrizione data dalla natura della parola, per cui non vale ricordare che in genere si serve qualcosa di concreto (un bicchiere di vino, lo stato, il cliente…) e che invece scopo è un sostantivo astratto; ad esempio, è frequentissimo servire un altro astratto come il bene comune (o meglio: è frequente dirlo…). Per di più, se la parafrasi più efficace per servire allo scopo è “essere utile a raggiungere lo scopo”, la possibile parafrasi di un eventuale servire lo scopo con “favorire, agevolare lo scopo” dimostra che anche semanticamente la costruzione è plausibile o non impossibile.

E tuttavia il costrutto è fortemente sconsigliabile perché non conviene, dato che si introducono una variazione e un’oscillazione nel sistema senza alcun vantaggio comunicativo (che invece si deve riconoscere in varie transitivizzazioni di verbi intransitivi come abusare o sedere di cui ci siamo già occupati). Per spiegarci, prendiamo l’esempio che abbiamo appena fatto del bene comune in dipendenza dal verbo servire. Con questo complemento le due costruzioni di servire sono non solo formalmente ammissibili, ma utili entrambe. Infatti, nella costruzione transitiva (servire il bene comune), che richiede in genere un soggetto animato, la frase equivale a “essere al servizio del bene comune”. Nella costruzione intransitiva (servire al bene comune), che predilige soggetti non animati o astratti, la frase vale “essere utile al bene comune”. Invece, non c’è alcuna differenza tra servire lo scopo e servire allo scopo e quindi l’innovazione, pur spiegabile e di per sé non inammissibile, è inutile. E come spiega Dante nel Convivio I, X: “vuole essere evidente ragione che partire faccia l’uomo da quello che per li altri è stato servato lungamente”: deve essere, cioè, ben chiaro perché, a che scopo (è il caso di dirlo), si cambia qualcosa rispetto alle abitudini, alle regole accettate da secoli. E qui, nell’innovazione del costrutto transitivo, se c’è una spiegazione (il solito anglismo), non c’è “evidente ragione”, nessun valido motivo di economia linguistica o energia comunicativa. Solo la solita pigra dipendenza dall’inglese anche là dove l’italiano è ben fornito e funzionale di suo. È uno spreco che, paradossalmente, viene da ambienti che dovrebbero essere sensibili alle ragioni del… risparmio. Meglio evitare dunque di servire lo scopo, visto che c’è già l’ottimo e funzionante servire allo scopo.

Una postilla. Qualcuno potrebbe chiedersi perché, mentre servire ha utilizzato il suo possibile, duplice costrutto (transitivo e intransitivo) per produrre due significati diversi se segue bene comune, non lo stesso ha fatto quando segue scopo. Cercherò di rispondere con un altro esempio. Si prendano queste frasi: “X serve l’azienda (da anni)”, “Y serve all’azienda (da tempo)”, “Y serve al pareggio di bilancio” e “*X serve il pareggio di bilancio”: perché l’ultima è di fatto incongrua se non proprio anche agrammaticale, come lo sarebbe anche “X serve lo scopo”? Perché non si è sviluppato un significato specifico pure per il costrutto transitivo quando seguono pareggio di bilancio o scopo? Perché il significato di servire come “essere al servizio di” (bene comune, azienda ecc.) comporta che ciò che riceve il servizio sia un dato definito, già presente (il cliente, la comunità) e non ancora in potenza, possibile ma non attuale, che invece è a suo agio col valore di servire come “essere utile”, che però richiede in italiano un complemento di termine e quindi un legame indiretto col verbo tramite la preposizione a. Considerazione analoga andrebbe fatta per il valore di servire (il caffè, il dolce…) come ‘presentare’, possibile non solo con cose di natura concreta, ma anche presenti realmente e non puramente attese o sperate o ipotizzate, come è lo scopo, che quindi neppure in questo senso può dare un significato specifico al nostro verbo se gli viene legato direttamente.

Vittorio Coletti

19 luglio 2023


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