A Laura Bellinzani di Mantova, che ci chiede quale sia l'origine del termine sciuscià, riproponiamo gran parte del testo di Alberto Menarini apparso in Profili di vita italiana nelle parole nuove (Firenze, Le Monnier 1951, pp. 182-184), seguito da un breve aggiornamento a cura di Matilde Paoli sull'uso recente della parola.
Sciuscià
«Una delle creazioni lessicali più famose dell'ultima guerra mondiale, non meno popolare, fra i contributi americani, di okay e di segnorina.
A Napoli, e in altri centri dell'Italia centro-meridionale, i ragazzi si servivano di questo termine per offrirsi come lustrascarpe ai militari alleati dopo la loro venuta in Italia, nel 1943. Una forma di accattonaggio, una piaga sociale, quella di questi ragazzi laceri, sporchi, affamati e privi di qualsiasi appoggio.
La parola sciuscià, così pronunciata a Napoli, Roma ecc., riflette l'americano shoeshine, il quale meglio si riconosce nella forma in cui essa era da principio diffusa a Firenze e altrove: sciusciài. Ma poiché furono i giornali di Roma i primi a denunciare la nuova piaga, è stato nella forma sciuscià che la voce si è rapidamente imposta attraverso tutta la penisola, diventando presto sinonimo di "giovane vagabondo, accattone" e persino di "ladro": abbiamo letto in un giornale dell'aprile 1947: Poteva diventare sciuscià, forse diventerà marinaio. Oggi, e specialmente dopo l'interesse suscitato dal film omonimo di Vittorio De Sica (1946), sciuscià è venuto a identificarsi, per molti italiani, col tradizionale scugnizzo, sostituendolo nell'uso che se ne fa fuori di Napoli.
La nostra voce sembra originata dall'espressione con cui gli Americani stessi chiedevano la lucidatura delle scarpe: lavoro sùbito intrapreso su larga scala, come il mezzo più facile e redditizio per guadagnare alcune lire. Non pare che nell'imposizione della voce, c'entrino gli Italo-Americani, che pure militavano numerosi sotto la bandiera statunitense e che per ovvie ragioni erano stati destinati in Italia (ciò che invece può essere avvenuto con un altro vocabolo, paesano); difatti, quel curioso linguaggio parlato dai nostri emigrati negli Stati Uniti e dai loro discendenti, e che appunto si chiama "italo-americano", si serve di voci diverse dalla nostra per indicare l'umile mestiere, tanto diffuso tra gli italiani che emigravano un tempo: sciainare "lucidare le scarpe", sciainatore "lustrascarpe", e figuratamente sciainato "lustro, azzimato". Questi sono tutti vocaboli che derivano dal secondo dei due elementi che compongono l'espressione inglese (to shine "lucidare") ma che ignorano invece il primo (shoe "scarpa") il quale tuttavia figura in altre voci italo-americane, anche composte, quali sciose, sciuse, sciussi "scarpe" (dal pl. ingl. shoes), sciumecco, sciumèca "calzolaio" (da shoemaker).
Sciuscià è una parola "storica"; rimarrà come episodio triste della nostra tragedia, anche se non più vedremo sotto i portici delle piazze, agli angoli delle strade, questo sciamar di ragazzi e adolescenti, strappati, vociferanti in dialetto, azzuffantisi fra loro, disputandosi un grosso negro o un soldato americano per offrirgli i loro servigi, anche i più vergognosi: il lustrare le scarpe era sovente un pretesto. Ma anche per qualcuno non fu che la necessaria obbligatoria inserzione nella vita disperata di allora, tra il 1943 e il 1945».
Alberto Menarini
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La voce è tuttora presente nelle ultime edizioni dei dizionari di lingua con il valore originario legato al particolare contesto sociale delle città italiane durante l'occupazione alleata ("ragazzino che durante l'occupazione americana si offriva come lustrascarpe e si dedicava a piccoli traffici" GRADIT).
Rimasto per molto tempo legato nell'immaginario comune degli italiani al film di De Sica, il termine sciuscià ha goduto di una nuova stagione di notorietà a partire dal 1996 come titolo di un progetto di Michele Santoro costituito da una serie di sette documentari sui bambini del sud del mondo, titolo trasferito poi al noto programma condotto dallo stesso Santoro dal 2000 su Rai Uno, presto passato a RAI Due e cancellato dai palinsesti dopo alterne vicende nel 2002.
In tempi più recenti, con l'intensificarsi del fenomeno dell'immigrazione e l'acuirsi della crisi economica mondiale, anche in Italia si sono riproposte condizioni dell'infanzia e dell'adolescenza che si supponevano scomparse e il termine sembra poter tornare attuale. È dell'agosto del 2008 la discutibile espressione vu sciuscià, coniata per incontro con vu cumprà, epiteto spregiativo entrato (purtroppo) in lingua verso la fine degli anni Ottanta (GRADIT 1986) per indicare i venditori ambulanti, specialmente se nordafricani o di colore; con essa, stando a un articolo comparso su "Repubblica" (Paola Coppola, Massaggi sul lettino, scatta lo stop ma sulle spiagge è subito rivolta, 21 agosto 2008) si sarebbero designati sul lido di Lipari "extracomunitari [che] sventola[va]no dei ventagli per 5-10 euro l'ora per i bagnanti sdraiati" (!).
Non molto dissimile l'espressione rom-sciuscià risalente sempre all'agosto 2008 quando il prefetto di Roma propose di far fare lo sciuscià ai ragazzi rom; l'espressione (e non solo quella) venne rifiutata dal presidente dell' Opera Nomadi, Massimo Converso, non foss'altro perché "evoca la strage, da parte dei nazisti, di oltre 300 bambini rom, nell' autunno del '41 sulla piazza di Kragujevac in Serbia", strage provocata dal rifiuto di un piccolo rom lustrascarpe di pulire gli stivali di un ufficiale nazista macchiati del sangue di civili fucilati (Carlo Picozza, Il prefetto: i piccoli rom facciano gli sciuscià, "Repubblica " 14 agosto 2008).
Esiste anche una recentissima versione "per raffinati" dell'antico mestiere: lo sciuscià chic ("Corriere della Sera" 18 dicembre 2009), le cui prestazioni sono state messe a disposizione di chi indossasse pregiate scarpe rigorosamente italiane dall'Associazione nazionale calzaturifici italiani, a Roma, Torino e Milano, durante il periodo dello shopping natalizio da poco trascorso.
A cura di Matilde Paoli
Redazione Consulenza Linguistica
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