Se Tommaso Moro ha inventato l’Utopia, com’è nata e cos’è la distopia?

Ci sono giunte varie richieste di chiarimento circa il sostantivo distopia, a proposito della sua effettiva ammissibilità, della datazione e delle modalità del suo ingresso nella lingua italiana, della sua etimologia (un utente si chiede, in particolare, perché si adoperi la forma distopia, in luogo di *disutopia, stante il legame con la parola utopia, sul modello di disfunzione o disvalore), del suo esatto significato, nonché degli aggettivi che si sono ottenuti a partire dal nome.

Risposta

Appare opportuno precisare subito che la ricerca del nome distopia in dizionari dell’uso della lingua italiana quali il Nuovo De Mauro, il Vocabolario Treccani online, il Devoto-Oli 2023 e lo Zingarelli 2023 pone di fronte all’esistenza di due forme omonimiche, vale a dire identiche sul piano del significante e coincidenti foneticamente, benché di origine diversa.

Il sostantivo che, per comodità, diremo distopia1, il più anticamente attestato in italiano (il Nuovo De Mauro e il Devoto-Oli 2023 rinviano al 1982, mentre lo Zingarelli 2023 lo retrodata al 1880), ma non quello su cui ci vengono chiesti lumi, è unanimemente presentato come nato dall’incontro tra un derivato del greco tópos ‘luogo’ e un dis-1 (dal greco dys- ‘male’ e da distinguere dal dis-2 di cui si dirà), prefisso impiegato, soprattutto nel linguaggio medico, in grecismi, di derivazione classica o (molto spesso) formati modernamente, indicanti alterazione, malformazione, funzionamento anomalo (si pensi ai casi di disartrosi, dislessia, dispnea, cui rinvia Dardano 2009, pp. 169-70). Stante tale etimologia, distopia1 è termine della medicina indicante, come si legge nello Zingarelli 2023, lo ‘spostamento di un viscere o di un tessuto dalla sua sede normale’, da cui l’aggettivo distopico1 (da distinguere dal distopico2 di cui si parlerà più avanti), che la stessa opera lessicografica spiega come ‘detto di organo, viscere o trapianto posizionato al di fuori della sua sede naturale’.

Da distopia1 andrà distinto distopia2, quello su cui ci sono giunte richieste di chiarimento, un indubbio derivato, seppur indiretto, di Utopia, lo pseudogrecismo (il termine, pur nato dall’unione di due parole greche, l’avverbio ou ‘non’ e il nome tópos ‘luogo’, non esisteva in greco antico) concepito dal filosofo inglese Thomas More, meglio noto in Italia come Tommaso Moro, che così chiamò l’isola fittizia sulla quale ambientò il suo Libellus vere aureus (1516). Come ho precisato io stesso in un recente contributo sulla famiglia di parole cui la neoformazione cinquecentesca ha dato origine (Agolini 2022), sin dal principio del XVII secolo il sostantivo utopia è stato usato in italiano in senso antonomastico come nome comune, prima nell’accezione di ‘modello politico, sociale o religioso che non trova effettivo riscontro nella realtà, ma che viene prospettato come ideale’, poi in quella di ‘ideale, speranza, aspirazione irrealizzabile, progetto che non può avere alcuna attuazione sul piano pratico’. Proprio con riferimento a tali significati, tra loro connessi, il termine ha dato vita a derivati come l’aggettivo utopico (da cui l’avverbio utopicamente), il nome utopista (da cui l’aggettivo utopistico, donde l’avverbio utopisticamente) o il verbo utopizzare, nonché a sostantivi, come ucronia (‘immaginaria sostituzione di avvenimenti reali, relativi a un dato periodo o evento storico, con altri verosimili’) e, appunto, distopia, che hanno con utopia un rapporto solo indiretto.

Ora, i nostri dizionari dell’uso, benché concordi nel riconoscere nello pseudogrecismo di coniazione moriana la base di distopia, sono divisi sulla natura del dis- che gli sarebbe stato premesso: se il Treccani, il Nuovo De Mauro e il Devoto-Oli 2023 ipotizzano che si tratti dello stesso dis-1 di derivazione greca di cui si è già detto, lo Zingarelli 2023 ritiene si abbia a che fare con un dis-2, prefisso reduplicante il latino dis-, dal valore separativo, ed esprimente, riprendendo una distinzione proposta da Claudio Iacobini (Prefissazione, in Grossmann-Rainer 2004, pp. 97-163: p. 137, pp. 144-47, ma cfr. già Rohlfs 1969, § 1011, e Tekavčić 1980, vol. III, pp. 158-159), anteposto a nomi o a verbi, in derivati di ascendenza classica o formati modernamente, tanto separazione (disgiungere, distrarre), quanto privazione (disaccordo, discredito) o, solo quando preverbale, regressione (disfare, disinquinare, disunire). Prescindendo per ora dall’esatta matrice del dis-, va detto che il sostantivo distopia si è imposto quale antonimo di utopia, ossia come termine adoperato per andare a designare una ‘forma di società caratterizzata da aspetti negativi e indesiderabili, dovuti a fattori come lo sviluppo tecnocratico o l’eccesso del controllo statale’, secondo la definizione dello Zingarelli 2023; questo dizionario, rispetto al Nuovo De Mauro e al Devoto-Oli 2023, che collocano la prima attestazione del sostantivo nel 1997, retrodata la parola al 1978. Proprio con il detto significato il termine risulta esser stato largamente adoperato nell’arco degli ultimi quarant’anni, come testimoniato, ad esempio, dalla consultazione dell’archivio di un quotidiano come “la Repubblica”, da cui traggo i due contesti sottostanti, contenenti rispettivamente l’attestazione più antica, limitatamente al detto corpus, e una delle più recenti:

Mi concentrerò allora su questo romanzo appena ripubblicato: Erewhon. Se osservate bene, Erewhon è l’anagramma di “Nowhere”: in nessun posto, in nessun luogo. Non è una “Utopia” come quella di Tommaso Moro; è una controutopia, o utopia negativa, o distopia, come I viaggi di Gulliver di Swift. (Beniamino Placido, Avventura nel Paese che non c’è, “la Repubblica”, 24/4/1984)

È uno dei rari esempi di documentario che mescola verità e distopia. Preconizza quello che rimarrà del nostro pianeta nel 2054. Cioè, nulla. Solo deserto. E un’umanità costretta all’isolamento per le sempre più frequenti ondate pandemiche. (Fulvio Paloscia, Dall’emergenza clima alla Gkn sulle tracce della realtà, “la Repubblica”, 25/10/2022)

Circa l’esito distopia, e non *disutopia, partendo da dis- e utopia, sarebbe possibile supporre, postulando una derivazione tutta interna al sistema della lingua italiana, o l’intervento di una sincope della vocale atona intermedia /u/, o, più probabilmente, un processo di rianalisi della base, con sostituzione di dis- a u-, esito del prefisso avverbiale di derivazione greca ou- ‘non’, e anteposizione del nuovo affisso direttamente al derivato del greco tópos ‘luogo’, ancora carico dei già ricordati valori semantici dello pseudogrecismo del Moro, usato in senso antonomastico come nome comune.

In realtà, dopo una serie di ricerche in rete, soprattutto in Google libri, si può affermare che distopia non è una neoformazione endogena, bensì un calco sull’inglese dystopia (e il fatto che l’inglese mantenga l’uso della y, come il tedesco, che ha Dystopie, induce a ritenere che il prefisso dis- aggiunto alla base sia esso stesso quello di derivazione greca). Nel mio recente contributo sopra ricordato, infatti, avevo già ulteriormente retrodatato, rispetto allo Zingarelli 2021, seppur di soli due anni, la prima attestazione di distopia in italiano, tramite il seguente passo:

Prima di tutto teniamo a chiarire che non ci riferiamo qui a quel tipo di fantascienza ortodosso per più versi preso in esame da Gillo Dorfles a proposito dei nuovi feticci ritualizzati che vengono a costituire una parte notevole delle industrie culturali, bensì a un genere che va impropriamente sotto il nome di fantascienza sociologica e che noi preferiamo chiamare, con un termine usato dal Frye, distopia. (Pietro Pelosi, Salvatore-Floro Di Zenzo, Metodologia e tecniche letterarie, Napoli, Guida, 1976, p. 46)

L’individuazione del locus dell’opera di Frye cui Pelosi e Di Zenzo fanno riferimento permette di spostare al 1969 quello che sembrerebbe essere il primo impiego del sostantivo distopia di cui si abbia traccia all’interno di uno scritto in lingua italiana, rinviando i due alla traduzione di mano di Vittorio Di Giuro del saggio The modern century (1967) del celebre critico letterario canadese, da cui si traggono i passaggi seguenti, accompagnati dagli originali inglesi dello stesso Northrop Frye, il quale, pur non essendo l’inventore del termine (quello che si direbbe, con un tecnicismo, l’onomaturgo), percependolo come nuovo, sentiva il bisogno di porlo tra apici e di definirlo come “the nightmare of the future”, cioè ‘l’incubo del futuro’, subito dopo averlo impiegato con riferimento a quello che è tuttora considerato il romanzo distopico per eccellenza, vale a dire Nineteen Eighty-Four (1984, pubblicato nel 1949) di George Orwell, massimo esponente, assieme a Aldous Huxley, della letteratura che si suole dire, appunto, distopica:

Ai nostri giorni l’utopia è stata sostituita da quella che viene chiamata, per analogia, “distopia”, l’incubo del futuro [In our day the Utopia has been succeeded by what is being called, by analogy, the ‘dystopia’, the nightmare of the future]. (Northrop Frye, Cultura e miti del nostro tempo, traduzione di Vittorio Di Giuro, Milano, Rizzoli, 1969, p. 41)

1984 di Orwell è meglio nota come distopia, e forse si avvicina più di ogni altro libro ad essere il vero Inferno dei nostri tempi [Orwell’s 1984 is a better-known dystopia, and perhaps comes as close as any book to being the definitive Inferno in our time]. (Ibidem)

Eppure, attraverso la consultazione dell’Oxford English Dictionary si rinvengono attestazioni di dystopia (e di suoi derivati) ancora anteriori, a partire dall’uso, già da parte dell’economista e filosofo britannico John Stuart Mill, in un atto parlamentare del 1868, dell’aggettivo dys-topians, affiancato a caco-topians, derivato inglese di cacotopia, nome (non impostosi in italiano) ottenuto con anteposizione al già ricordato elemento -topia (dal greco tópos ‘luogo’) del confisso caco- (dal greco kakós ‘brutto, cattivo, sgradevole’):

It is, perhaps, too complimentary to call them Utopians, they ought rather to be called dys-topians, or caco-topians. What is commonly called Utopian is something too good to be practicable; but what they appear to favour is too bad to be practicable [Forse è troppo lusinghiero chiamarli Utopiani; dovrebbero, piuttosto, esser chiamati dis-topiani, o caco-topiani. Ciò che viene comunemente chiamato Utopiano è qualcosa di troppo bello per esser realizzato, ma ciò che quelli sembrano favorire è troppo brutto per esser messo in pratica (trad. mia)].

Ma Google libri permette una notevole retrodatazione dell’inglese dystopia, forma adoperata all’interno di un componimento poetico di Henry Lewis Younge, intitolato Utopia, or Apollo’s golden days, apparso in rivista nel settembre del 1748; il poeta la impiega, in particolare, quale toponimo designante un’isola infelice, risollevata e tramutata in Utopia per intervento divino, glossandola in nota (“an unhappy country”, ossia ‘un paese infelice’, scrive):

Unhappy isle! scarse known to fame; / DYSTOPIA was its slighted name [Isola infelice! Poco nota al grande pubblico; DISTOPIA era il suo nome insignificante (trad. mia)]. (Henry Lewis Younge, Utopia, or Apollo’s golden days, in “The Gentleman’s Magazine and Historical Chronicle”, 18 (settembre 1748), pp. 399-402: p. 400)

Tornando alla lingua italiana, per rispondere alla domanda sulle forme aggettivali derivate da distopia, andrà detto che l’unica registrata all’interno del Devoto-Oli 2023 e dello Zingarelli 2023 (non lemmatizzano alcun aggettivo, invece, né il Nuovo De Mauro né il Vocabolario Treccani, per limitarci ai dizionari dell’uso sinora presi in considerazione) è distopico (per noi distopico2, per distinguerlo dal distopico1 che si era ottenuto da distopia1 e che, per ragioni di economia linguistica, potrebbe averne influenzato la forma), definito dal Devoto-Oli 2023 ‘relativo alla distopia come rappresentazione di una società profondamente negativa, totalitaria e tecnocratica (realtà distopica); relativo alla distopia come forma letteraria (romanzo distopico)’. Tuttavia, occorre anche far presente che, per evidente influsso degli aggettivi ricavati da utopia (su cui si era già espresso, in una sua risposta per questo stesso servizio di Consulenza linguistica, Paolo D’Achille), non mancano attestazioni, per quanto sparute (se ne riportano di seguito solo alcune), e ricavate unicamente tramite Google libri, mentre non se ne ha traccia, ad esempio, nell’archivio del quotidiano “la Repubblica”, di forme aggettivali non registrate, per quel che si è potuto vedere, dalla lessicografia, e da usare, per questo, con estrema prudenza, quali distopista e distopistico (ricalcate rispettivamente su utopista e su utopistico):

Alcune scelte facilitarono certamente la strada alla controrivoluzione staliniana (che nell’economia, acquisterà però una sua fisionomia precisa solo a partire dal 1928-29, cioè un quinquennio dopo aver vinto sul piano politico); ma «controrivoluzionarie», nel vero senso del termine, ancora non erano in quello scorcio del 1917-inizio del 1918, quando nemmeno il visionario distopista più esaltato avrebbe potuto immaginare gli eccessi cui sarebbe giunta un giorno la trasformazione staliniana dell’URSS. (Roberto Massari, L’inizio autentico: i soviet, i comitati di fabbrica, in Crollo del comunismo sovietico e ripresa dell’utopia, a cura di Arrigo Colombo, Bari, Dedalo, p. 79)

Le opere individuali che mettono in mostra una visione distopistica del futuro dell’uomo con i suoi computer, hanno in comune alcune caratteristiche: sono quasi tutte dei romanzi, al contrario della narrativa collocata nella categoria del sistema isolato, ch’era costituita prevalentemente da racconti brevi. Queste storie distopistiche sono quasi tutte ambientate in un vicino futuro, e ricorrono a tecniche d’estrapolazione per passare dal presente al futuro: prendono alcuni aspetti contemporanei della società e li proiettano nel futuro. (Patricia S. Warrick, Il romanzo del futuro. Computer e robot nella narrativa di fantascienza, traduzione di Cinzia Portoghese, Bari, Dedalo, 1984, p. 158)

Nessun dubbio, in conclusione, circa l’ammissibilità del termine distopia come antonimo di utopia. E ci auguriamo che, attraverso questa nostra risposta, la possibilità di aver chiare le idee circa la storia del nome e il suo esatto significato appaia, a quanti necessitavano di lumi al riguardo, non più utopica!

Nota bibliografica:

  • Matteo Agolini, Un’integrazione al Deonomasticon Italicum circa i nomi di luoghi immaginari: il caso di Utopia, in “Rivista Italiana di Onomastica”, XXVIII, 1, 2022, pp. 175-83.
  • Maurizio Dardano, Costruire parole. La morfologia derivativa dell’italiano, Bologna, il Mulino, 2009.
  • Pavao Tekavčić, Grammatica storica dell’italiano, 3 voll. (vol. I, Fonematica; vol. II, Morfosintassi; vol. III, Lessico), Bologna, il Mulino, 1980 (I ed. 1972).

Matteo Agolini

21 giugno 2023


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