Alcune domande giunte alla redazione ci chiedono di chiarire i significati e le costruzioni del verbo inveire.
Il verbo inveire ha un’etimologia chiara: continua infatti il verbo latino inveho invehĕre, propriamente ‘portare (vehĕre) verso o contro (in-)’, quindi ‘introdurre (qualcosa)’ e in senso figurato ‘attaccare (qualcuno)’. In latino il verbo era transitivo e aveva anche una forma medio-passiva, all’infinito invehi, che è probabilmente all’origine del verbo italiano.
In italiano il verbo si diffonde nel XVI secolo come parola dotta e si specializza con il significato di ‘attaccare verbalmente’. Dal momento che la particella in- è diventata semanticamente opaca, non stupisce che, fin dalle prime attestazioni, il verbo regga una preposizione come contro, che specifica la direzione verso cui si rivolgono le parole di attacco, offesa, minaccia. Tra le prime attestazioni riportate nel GDLI troviamo questo esempio di Bernardino Daniello, che nel suo commento alla Commedia di Dante (1568) scrive: “dalle ebrezze e grate accoglienze fatte vicendevolmente da Sordello a Virgilio prendendo occasione, il poeta inveisce, con bella e a proposito fatta digressione, contra Italia”; in questo esempio notiamo l’uso della forma antica della preposizione, contra, che alterna con contro; contro poteva poi entrare in combinazione con la preposizione a, come in questo esempio tratto dalle polemiche Considerazioni al Tasso di Galileo Galilei: “Inveisce assai nobilmente qui Tancredi contro alla fellonia di Argante”.
Neppure stupisce che il verbo, nell’italiano dei secoli scorsi, si trovi usato anche con la particella pronominale si, senza che questo ne faccia un verbo riflessivo: si tratta piuttosto di un uso vicino al valore medio del latino (come quando diciamo arrabbiarsi); ecco un esempio tratto dallo scienziato seicentesco Lorenzo Magalotti: “Questo dotto e santo cardinale... s’inveisce contro i sacrileghi dissipatori di questi beni” (GDLI).
Oggi il verbo inveire, intransitivo, quando regge un argomento si costruisce sempre con la preposizione contro (non seguita da a) e si usa senza la particella pronominale.
Diversamente, scagliarsi, che può essere usato come sinonimo di inveire ed è sempre costruito con la preposizione contro, presenta la particella pronominale, facilmente interpretabile come riflessiva. Infatti il verbo scagliare – originatosi in età tardo-medievale da un termine gotico (skalja ‘tegola’ e ‘scheggia’) e presto diffusosi con il significato di ‘lanciare con forza qualcosa (contro qualcuno o qualcos’altro)’ – è un verbo transitivo (trivalente) e la forma riflessiva, scagliarsi, è usata sia con il significato letterale di ‘avventarsi (contro qualcuno o qualcosa)’, sia nell’accezione metaforica ‘inveire, attaccare verbalmente qualcuno’.
Anche alla luce dell’etimologia, meritano un approfondimento i verbi usati per le controversie verbali, così frequenti nei secoli in cui ci si sfidava ancora a duello, e per le dispute intellettuali, spesso affidate alla forma del dialogo (sia che vertessero su questioni di lingua e letteratura, sia che affrontassero temi scientifici).
Notiamo intanto che alla stessa famiglia del verbo inveire appartiene il sostantivo invettiva, usato per indicare il discorso con cui ci si scaglia violentemente contro qualcuno (o contro le idee di qualcuno) arrivando a formulare accuse, minacce, offese.
Secondo la ricostruzione del DELI, può essere accostato al verbo latino vehĕre (se non altro per paretimologia) anche l’aggettivo veemente, che esprime un temperamento impetuoso.
Al di là della parentela etimologica, va notato che l’italiano – come già il latino – per parlare del modo in cui strutturiamo le nostre argomentazioni nel corso di una polemica, ricorre a una rete di metafore che rimandano al campo semantico della guerra: come se fossimo al fronte, ci affrontiamo, attacchiamo, ci difendiamo, colpiamo nel segno, vinciamo o perdiamo.
D’altra parte, come hanno messo in luce George Lakoff e Mark Johnson nel volume Metafora e vita quotidiana (Bompiani, Milano, 1998, ed. orig. Metaphors we live by, University of Chicago Press, Chicago, 1980), quella della “discussione come campo di battaglia” è una metafora concettuale che pervade e struttura il nostro modo di rappresentare la realtà. La metafora in questo caso non rappresenta un artificio retorico, ma uno strumento del pensiero (prima ancora che dell’espressione linguistica): concepiamo la discussione come una guerra e ci comportiamo di conseguenza; le metafore concettuali, inoltre, non sono isolate ma formano una costellazione di concetti coerenti.
Anche se si tratta di metafore divenute opache, vale la pena tenere a mente che le dispute affidate a parole (pronunciate o scritte) richiamano per analogia la guerra, e possono prepararla.
Cristiana De Santis
9 luglio 2025
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