Alcuni lettori ci chiedono se per indicare per esempio la posizione di un militare si debba dire che si trova di stanza in un certo luogo oppure d’istanza in quel luogo. Per un lettore il dubbio è invece tra di stanza e di stazza.
Di solito è sconsigliabile reagire a un dubbio linguistico in modo apodittico: un responso del genere rischia di apparire aleatorio, deludente e approssimativo, se non francamente erroneo. Quando però l’incertezza non è motivata dalla varietà dei contesti comunicativi (scritto/parlato, familiare/sorvegliato…) e non riguarda la grammatica, bensì la grafia di un termine o di un nesso praticamente esclusivo dello scritto, sembra lecito limitarsi a una replica “bidimensionale” (cfr. Silverio Novelli, Si dice? Non si dice? Dipende, Bari, Laterza, 2014). Non c’è motivo, ad esempio, di sfumare troppo la risposta a chi si interroga sulle presunte alternative di stanza in Antartide / d’istanza a Sassari / di stazza a Roma, che si riferiscono soprattutto a veicolo o personale militare (questo l’unico significato in uso secondo GRADIT; Zingarelli glossa ʻavere sede abituale’ ma l’unica esemplificazione fornita è di nuovo militaresca), ma anche a una persona o a un gruppo che si trova in una sede strategica dalla quale condurre un’attività o perseguire un obiettivo. L’unica forma corretta è categoricamente di stanza (a / in).
La ragione è legata alla storia della parola. Diversamente che nei non pochi casi nei quali una stessa parola o locuzione è stata conosciuta e registrata in forme diverse nel corso dei secoli (bobbiense / bobbiese, la rena / l’arena, mal’ora / malora), e nei quali quindi resta spazio oggi per una legittima esitazione o una licenza, questa volta il dubbio nasce dall’omofonia, totale o parziale, di voci completamente slegate tra loro. Istanza (dal lat. instantĭa) ʻrichiesta o sollecito, spec. di carattere ufficialeʼ è un latinismo del linguaggio giuridico e amministrativo; stazza (dal lat. stadĭa) ʻmisura (in diversi lessici speciali); corporatura, spec. molto robustaʼ è chiaramente senza rapporti con il modo di dire in questione. Invece stanza (da un lat. non attestato *stantĭa) ha tra i suoi molti significati desueti quelli di ʻdimora, domicilio, sede’ (GDLI) e, almeno dal 1420-30 ca. (DELI), quello di ʻquartiere militareʼ: si tratta con ogni evidenza dell’unica parola pertinente in questi contesti. Le indebite sovrapposizioni di istanza e di stazza costituiscono altrettanti malapropismi (scambi di parole dal suono simile); quello di istanza per stanza è forse facilitato anche da una lontana parentela etimologica che rimonta al verbo latino stāre, da cui instare (per una visione d’insieme della “famiglia di parole” si può consultare il RIF). La prima variante indebita costituisce un buon esempio della tendenza ad orientarsi sul cosiddetto “burocratese”, comune negli scriventi che mirano a uno stile sorvegliato pur senza padroneggiare del tutto i registri meno spontanei. Il fenomeno fu rilevato da Giovanni Nencioni già nel cap. 8 di un suo celebre contributo risalente al 1982 (Autodiacronia linguistica: un caso personale, oggi consultabile anche in rete). Nel caso di stazza la reinterpretazione arriva a modificare la sequenza dei suoni con la caduta della nasale e l’allungamento della consonante seguente, secondo uno sviluppo non insolito nell’italiano scritto popolare (cfr. Paolo D’Achille, L’italiano dei semicolti, in Storia della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, vol. II, Scritto e parlato, Torino, Einaudi, 1994, p. 67).
Mentre le due varianti improprie si trovano registrate solo in rete e in epoca molto recente (con frequenza non insignificante, bisogna ammettere), di stanza in / a ha una lunga tradizione, precedente il suo legame con il lessico militare. Deviazioni come quelle proposte in questo quesito si sono con ogni probabilità già prodotte in passato ma sono state anch’esse scartate di volta in volta per motivi analoghi a quelli qui proposti. Già alla fine del Duecento un itinerario toscano per la Terrasanta descrive “uno poggietto di stanza sopra una piaggia” (TLIO s.v. stanza); nei secoli successivi di stanza (a / in) si trova più spesso in riferimento a religiosi “comandati” in una specifica sede dall’autorità ecclesiastica. Solo più tardi la locuzione entra nel lessico militare, e in particolare dell’amministrazione delle forze armate: la connessione sembra apparire solo in una lettera di Francesco Algarotti datata al 1739 ma edita nel 1760 (“Sono di stanza qui insieme col reggimento d’Ingermanlaski”); il Cavaliere in visita a Venezia nel Campiello di Goldoni (1756) dice di sé: “E quel tempo, ch’io sto quivi di stanza / Vorrei quieta mirar la vicinanza [delle donne locali]” (entrambe le citazioni sono ricavate dalla BIZ).
Nel lessico tecnico relativo alla gestione di uomini in armi è documentabile con continuità solo a partire dal secondo terzo del XIX sec. (Ordinamento del corpo dei veterani ed invalidi del dì 8 di aprile 1834, Torino, Coi tipi di Giuseppe Fodratti, s.d.: “La Compagnia di stanza a Torino”, “dalla Compagnia di stanza a Mondovì”). Potrebbe quindi far parte del folto numero dei piemontesismi del lessico militare italiano. Non è semplice stabilire con sicurezza se le espressioni odierne riferite ad attività civili continuino l’uso generico antecedente alla specializzazione militare o siano invece traslati recenti da quest’ultima. Di certo l’accezione originaria si incontra ormai anche molto diluita, fino a diventare commutabile con un semplice “residente a” (“Scritto da un giovane critico francese di stanza a Londra”: “La Stampa” in CODIS; “Fernando Bermúdez, scrittore argentino di stanza a Stoccolma”: “la Repubblica”, 21/11/2020, p. 22).
Francesco Crifò
17 settembre 2021
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