Sono arrivate varie domande sul verbo sobbarcare e la maggior parte riguarda la costruzione del verbo usato pronominalmente (sobbarcarsi): da quale preposizione deve essere correttamente introdotto il complemento (sobbarcarsi a un compito difficile o sobbarcarsi di un compito difficile)? Ma il verbo pronominale può reggere anche il complemento oggetto (sobbarcarsi un compito difficile)? E si può dire essere sobbarcato di lavoro?
Usato transitivamente sobbarcare vuol dire 'sottoporre persone o enti a oneri e responsabilità gravosi' (Treccani online: a.v.), come nel seguente esempio: "è assurdo chiedere al contribuente di sottostare in perpetuo ad un onere non indifferente, manifestamente dannoso, e sobbarcare la nazione ad una permanente distruzione di ricchezza" (Dario Morelli, Il protezionismo industriale in Italia dall'unificazione del regno: I fatti, le teorie, la critica, Milano, Società editrice libraria, 1920, p. 361). Il verbo è però usato più comunemente nella forma pronominale riflessiva (mi sobbarco, ti sobbarchi), nel significato di 'accettare o offrire la propria disponibilità allo svolgimento di un incarico, di un compito, di un’impresa faticosa, all’assunzione di una grave responsabilità, di un impegno, di un onere, ecc.' (GDLI: a.v.).
L’uso pronominale è documentato molto precocemente, già a partire dalla prima attestazione del verbo, che il GDLI individua nel passo dantesco: «Molti rifiutan lo comune incarco; / ma il popol tuo sollicito risponde / sanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”» (Pg, VI, 133-135). Meno antiche sono invece le attestazioni riportate dal GDLI per la variante non pronominale, tra cui spiccano i due versi del poeta didascalico Cesare Arici, in cui, come mostrano le parole rima, è evidente il richiamo a Dante: "Di scarso viatico chi l’omero incarca, / Chi al pondo de’ fiacchi le spalle sobbarca" (I parganiotti, 1838). Da una rapida ricerca condotta nel corpus di testi letterari dalle Origini al Novecento consultabile in BibIt (http://www.bibliotecaitaliana.it/), sobbarcare e sobbarcarsi sembrano usati soprattutto tra Otto e Novecento.
Sintatticamente sobbarcarsi si dovrebbe costruire con un complemento introdotto dalla preposizione a, come nel passo seguente tratto da un articolo di Scalfari: "penso che i sindacati e i partiti della sinistra debbano darsi carico direttamente della lotta contro l’inflazione, senza stare a guardare troppo se gli altri gruppi sociali si sobbarcano al sacrificio con la medesima intensità" (Eugenio Scalfari, Articoli, vol. I, Milano, Gruppo editoriale "L’Espresso", 2004, p. 184). Ma si vedano anche le seguenti occorrenze tratte da testi letterari: "Disse subito una bugia lamentando di dover sobbarcarsi alla fatica del viaggio" (Italo Svevo, Corto viaggio sentimentale); "si è deciso ad accettare la candidatura, sebbene esitasse molto a sobbarcarsi all’incarico" (Giuseppe Verga, I Nuovi Tartufi). Anche quando regge un infinito, sobbarcarsi seleziona la preposizione a: "la principessa Mariastella aveva dovuto […] sobbarcarsi a fare una visita a Margherita Ponteleone" (Tommasi di Lampedusa, Il Gattopardo).
A partire dalla seconda metà del Novecento sobbarcarsi è però più frequentemente costruito con un complemento diretto. Calvino nella traduzione dei Fleurs bleues di Raymond Queneau scrive: "Cidrolin, guarito, tornò a sobbarcarsi i lavori di ridipintura", ma è sufficiente consultare Google books o gli archivi dei quotidiani in rete per toccare con mano la preponderanza della costruzione diretta.
Nella percezione dei parlanti sobbarcarsi sembra essere passato da verbo riflessivo diretto (mi sobbarco al compito ‘io sobbarco me stesso al compito’) a verbo riflessivo indiretto (mi sobbarco il compito ‘io sobbarco a me stesso il compito’), segno che al pronome è attribuita la funzione sintattica di complemento di termine (o, in termini semantici, di ricevente). La direzione del cambiamento è confermata anche dall’analisi dei dizionari: se le quattro edizioni del Vocabolario dell’Accademia della Crusca non forniscono materiale molto utile (risulta infatti citato soltanto l’esempio dantesco, privo di un complemento espresso), il fatto che nel Tommaseo-Bellini sobbarcarsi sia costruito con la preposizione a (non posso sobbarcarmi a spesa sì grave) conferma la sostanziale estraneità della forma riflessiva indiretta all’uso linguistico dei secoli scorsi. Sobbarcarsi qualcosa in effetti compare soltanto nei dizionari novecenteschi:
- nel GDLI si segnalano entrambe le costruzioni;
- il GRADIT mette a lemma sobbarcare transitivo nell’accezione di ‘caricare qualcuno di un peso’ e sobbarcarsi verbo pronominale transitivo e intransitivo, dandone due accezioni distinte, anche se effettivamente molto simili: "v. pronm. intrans., accettare od offrire la propria disponibilità allo svolgimento di un compito faticoso o spiacevole, all’assunzione di una responsabilità, o sim.: s. all’onere dell’organizzazione; v. pronom. trans., assumersi un onere, un impegno gravoso, una responsabilità: si è sobbarcato tutte le spese";
- nel DISC invece si presenta soltanto la costruzione mediante complemento oggetto della cosa cui ci si sobbarca: "Assumersi un onere, un impegno gravoso: s. tutte le spese".
Anche Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, nel fortunato vademecum grammaticale Ciliegie o ciliege? (Milano, Sperling & Kupfer, 2012, p. 123), ammettono entrambe le costruzioni. In effetti, sebbene minima, possiamo intravedere nelle due diverse strutture (riflessiva diretta e riflessiva indiretta) una differenza nella rappresentazione dell’evento espresso dalla frase, dovuta alla diversa distribuzione dei ruoli sintattici: sobbarcarsi alle spese esprime in maniera più accentuata l’assoggettare sé stessi a qualcosa, mentre in sobbarcarsi le spese risulta prevalente l’idea dell’assunzione attiva di un onere, perché semanticamente il pronome riflessivo non è più paziente.
A complicare il quadro sinora delineato intervengono anche alcune oscillazioni nell’uso della preposizione, tanto nella forma pronominale quanto in quella passiva. A proposito della prima sono ancora Della Valle e Patota a precisare che nell’uso di sobbarcare riflessivo è da evitare la preposizione di (dunque sobbarcarsi un impegno, sobbarcarsi a un impegno, ma non sobbarcarsi di un impegno). Nella forma passiva essere sobbarcato la costruzione regolare dovrebbe prevedere l’impiego della preposizione a: trasformando una frase attiva come Luigi sobbarca Pietro a tanti impegni otteniamo infatti la frase Pietro è sobbarcato a tanti impegni (da Luigi). Tuttavia, negli ultimi tempi la forma passiva del verbo sobbarcare è usata con la preposizione di (o da per introdurre la cosa cui si è sobbarcati e non un complemento d’agente): è ancora la rete a fornirci diverse attestazioni di essere sobbarcato di / da tasse, rifiuti, lavoro ecc., nel senso di ‘essere sommerso di/da qualcosa’. Per il momento il costrutto, di cui i dizionari non fanno menzione, non sembra molto diffuso nei testi caratterizzati da un maggiore grado di formalità (saggistica scientifica e testi letterari), mentre può comparire, anche se sporadicamente, nell’italiano dei giornali: "Resta il problema del personale, diretto dal primario Giuliano Michelozzi, che già oggi è sobbarcato di lavoro" (“La Stampa”, 03/06/1999). Tuttavia, non è chiaro se la costruzione essere sobbarcato di/da sia volontariamente evitata dai parlanti colti nei contesti comunicativi più controllati, anche perché la frequenza del verbo non è di per sé altissima.
Chiarire l’etimologia del verbo potrebbe dunque aiutare a descrivere meglio i suoi usi, tuttavia la questione è piuttosto discussa. Il GDLI vede in sobbarcare un derivato dal prefisso sub ‘sotto’ e dal verbo imbarcare (etimologia riportata anche dal GRADIT); segnala tuttavia, ritenendola meno plausibile, anche un’altra ipotesi etimologica, in base alla quale il verbo sarebbe il continuatore del lat. *subbrachiare ‘prendere sotto braccio’ (denominale da brachium). Questa etimologia è riportata anche nel DEI di Battisti e Alessio.
In realtà le disquisizioni sull’etimologia del verbo rimontano molto indietro nel tempo, addirittura ai primi commentatori della Commedia. Benvenuto da Imola glossa l’I’mi sobbarco usato dal poeta con il verbo latino subcingo, cioè "erigo pannos ad cincturam ut sim expeditior ad aliquid agendum" (citato in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1970-1978, s.v.), cioè ‘alzo le vesti sino alla cintola per essere più spedito nel fare qualcosa’. Diverso il parere di Francesco da Buti che spiega così il passo: "io faccio di me barca, o io mi piego a sopportarlo e a sofferirlo" (citato in ibidem). Due le ipotesi elaborate dagli Accademici della Crusca nelle quattro impressioni del Vocabolario: nelle prime due edizioni (1612 e 1623) sobbarcarsi ‘sottentrare’ è ricondotto al latino subire; invece nella terza e nella quarta edizione (1691, 1729-1738) ‒ dove il verbo è glossato con ‘sottoporre’ ‒ si ricorda l’espressione arcus in morem flecti ‘piegato come un arco’, attribuita a Plinio. L’ipotesi è però del tutto rigettata da Quirico Viviani, che, accusando gli accademici di aver preso un granchio (testuali parole), ritorna di fatto all’interpretazione butiana: "il vocabolo non è composto da sub e arcus, ma da sub e barca e il significato metaforico è io mi sommergo" (La Divina commedia di Dante Alighieri: giusta la lezione del codice bartoliniano, III, 2, Udine, Mattiuzzi, 1828). Nel 1818, nel corso di una lezione sulla Commedia, l’accademico Luigi Fiacchi opponendosi sia al Buti sia alla Crusca, prospetta un’altra soluzione: sul modello di rabbruzzare e rabbruzzolare ‘oscurarsi, farsi buio’, sobbarcare sarebbe infatti da ricondurre a sobbarcolare ‘cingersi le vesti al petto’. Entrambi deriverebbero infatti da arca ‘torace’ e dal diminutivo arculus. Secondo il Fiacchi, Dante ricorrendo a sobbarcare avrebbe inteso alludere all’uomo che "non si piega, e s’abbassa umilmente a ricevere il peso, ma si dà moto, e s’addestra ad agevolmente portarlo" (Sopra alcuni luoghi della Divina Commedia, Lezione di Luigi Fiacchi, detta nell’adunanza del dì 9 giungo 1818, in Atti dell’Imperiale e Reale Accademia della Crusca, II, Firenze, Tipografia all’insegna di Dante, 1829, pp. 116-128, a p. 124).
A loro volta i compilatori del dizionario Tramater, nella Risposta alle osservazioni del signor Pietro Monti, che vedeva in sobbarcare un esito della combinazione sub (prefisso latino) e carco, osservano che la naturale evoluzione da subcarco avrebbe dovuto produrre per assimilazione regressiva *soccaricare o *soccarcare. Il Tramater arricchisce dunque la lista delle supposte etimologie di sobbarcare ricorrendo all’illirico barcs ‘cumulo’: il passo dantesco indicherebbe dunque l’azione di assoggettarsi alle cariche pubbliche figurativamente intese come un pesante ammasso o una catasta (cfr. Vocabolario universale italiano compilato a cura della Societa Tipografica Tramater, Napoli, 1835, vol. 5, p. X).
In tempi decisamente più recenti il LEI ha ricondotto sobbarcare e sobbarcolare, alla base preromana *bar(r)- /*ber(r)- ‘fascio, mucchio, carico’, che in italiano e nei dialetti avrebbe dato vita a varie parole designanti covoni di paglia, mucchi di grano (it. barchessa), cataste di legna ecc., ma anche a verbi che esprimono l’idea di ammucchiare, accatastare (abbarcare e barcalare). In tal senso sobbarcarsi sarebbe legato etimologicamente all’idea di piegarsi al peso di una catasta. A questa proposta aderisce anche il TLIO (Tesoro della lingua italiana delle origini: http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/), che, pur non ritenendola del tutto certa, individua l’etimologia di sobbarcare in barca2, non il natante, ma il "mucchio compatto di paglia o fieno coperto, a forma di cupola", parola a sua volta originatasi dal prelatino *barrica.
Non è escluso, ma l’ipotesi andrà vagliata meglio, che l’oscura etimologia del verbo e l’assimilazione di sobbarcare a verbi come imbarcare possano aver favorito il cambiamento di costruzione.
Elisa De Roberto
13 settembre 2016
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