Su incutere

Diverse lettrici chiedono chiarimenti sull’uso del verbo incùtere. Precisamente, domandano se sia corretto dire, con uso intransitivo, che “i vapori del condizionatore incutono sulla crosta cementizia”; se si possa incutere anche simpatia o solo sentimenti negativi; se una madre possa “incutere nel figlio il timore dei leoni”, o se invece siano solo i leoni a poter incutere timore di sé.

Risposta

Il verbo italiano incutere è voce dotta, tratta dal latino incutĕre, composto di in, che esprime un moto dentro qualcosa, e quatĕre ‘scuotere’. Il senso originario è quindi quello di causare una scossa o un colpo dentro qualcosa. Questo significato si conserva nel verbo italiano, che a differenza di quello latino è però usato essenzialmente in senso figurato, cioè per scosse o alterazioni non fisiche e materiali, ma mentali e interiori. Di questo tipo sono tutti gli esempi dati dal GDLI, che hanno sempre la forma “incutere il sentimento X (a qualcuno)”. Si vedano Manzoni, I Promessi sposi: “Benché quella dignità presente, quell’aspetto e quel linguaggio, lo facessero star confuso, e gl’incutesser un certo timore, che non lo soggiogava affatto, né impediva al pensiero di recalcitrare” (cap. XXVI); Imbriani, Pompei notturna (1863): “Bisogna dire che il mio ceffo incutesse gran paura a’ morti”; Pavese, Il carcere (1948): “Quel bagno nudo e solitario nel mare verde dell’alta marea gl’incuteva sgomento”.

Il GDLI segnala anche, come letterario, l’uso assoluto, equivalente a ‘scuotere, impressionare’, con un esempio di Emilio Cecchi (da America amara [1939]): “I peristili tutti bianchi, con le loro colonne gigantesche, incutono innegabilmente; anche se, dallo stretto punto di vista architettonico, non sanno dirci nulla di nuovo”; e uno di Antonio Baldini (da Diagonale 1930 Parigi-Ankara [1943]): “Bisogna proprio dire che la religione dei grandi uomini riscaldi poco, incuta poco”. Ma si tratta di un uso decisamente ricercato e marginale; e non assimilabile al caso di “i vapori del condizionatore incutono sulla crosta cementizia”, su cui ci chiede un parere una lettrice. Quest’ultimo esempio ci pare sostanzialmente fuori dall’uso italiano, perché davvero intransitivo e non assoluto, cioè privo di oggetto non solo alla superficie dell’enunciato, ma proprio nella sua rappresentazione dell’evento. Qui cioè incutono non evoca niente che venga incusso nella superficie cementizia, e sembra piuttosto un equivalente di incidono, del cui modello potrebbe in effetti risentire, come sembra indicare anche la preposizione su, altrove assente dagli usi di incutere.

È in uso, benché assai meno frequente, anche la costruzione con in [qualcuno], che si trova oggi facilmente nella prosa giornalistica: “(Vittorio Gassman) incuteva soggezione in tutti i presenti” (editoriale di Mina, “La Stampa”, 1/7/2000); “serve una figura maschile, che incuta timore nel bambino” (“La Stampa”, 19/2/1995). Questo si accorda col fatto che in genere i verbi prefissati con in nel suo valore di moto in luogo tendono a potersi costruire con la stessa preposizione in, coerentemente con il loro significato: indurre, infilare, infondere, importare, inserire, insinuare, instillare qualcosa in un luogo o entità X.

Naturalmente sono anche possibili, e frequenti, gli usi in cui la persona o le persone a cui viene incusso il sentimento non sono specificate: “Talvolta è brusco, certo, ma non sempre, e anche quando lo è non incute spavento” (Italo Svevo, Senilità, 1898); “Bellavita, magrissimo, di una magrezza che incute ribrezzo, pallido come di cera” (Luigi Pirandello, Bellavita, 1926).

L’impressione di una nostra lettrice che incutere (a differenza del suo quasi-sinonimo suscitare) tenda a selezionare sensazioni e sentimenti negativi è dovuta al fatto che fra le sue attestazioni questo è il caso più frequente. A una ricerca su grandi corpora di scritto giornalistico (le annate 1992-2001 della “Stampa” e il corpus Repubblica SSLMIT) risulta che gli stati d’animo più frequentemente associati a questo verbo sono (nell’ordine) la paura, il timore, il rispetto, il terrore, la soggezione. Vi sono anche, con frequenze nettamente minori, lo spavento, il ribrezzo, l’orrore, la preoccupazione, l’angoscia, l’allarme, il turbamento, l’imbarazzo, la repulsione, il risentimento, il sospetto, le fobie, il panico, la sensazione di impotenza, il complesso di inferiorità, e altre condizioni simili. Potrebbe dunque trattarsi, come suggerito dalla lettrice, di un predicato che esige la connotazione negativa del suo complemento oggetto, ma che alcuni parlanti interpretano semplicisticamente senza accorgersi di questo sottile vincolo semantico, dicendo ad esempio “incutere simpatia”. Un analogo tipo di banalizzazione del significato da parte di parlanti inavvertiti è fenomeno presente con diverse espressioni italiane. È il caso di grazie a, sempre più spesso usato nel senso “alleggerito” di ‘a causa di’, trascurando che per il significato specifico di grazie deve trattarsi di effetto desiderabile (cfr. E. Lombardi Vallauri, Diffusione e motivazione di alcune novità recenti nell’uso di parole italiane, in “Cuadernos de Filología Italiana” 25 [2018], pp. 79-100: p. 91):

il non ricorso al mercato crea la situazione della lettrice, che ha visto il management Pirelli distruggere e non creare valore per i suoi azionisti grazie al calo del valore dei titoli da 3,4 euro in luglio ai 2,5 euro in agosto (La Stampa, 7.8.2001)

Qualcosa di simile succede all’espressione sinonima in virtù di (“ottenere ragione in virtù di un ragionamento convincente”), non di rado usata anche quando la causa di un evento o di uno stato di cose non è una realtà positiva o almeno complessa, ma una mera contingenza negativa (“il treno è arrivato tardi in virtù di un guasto alla linea ferroviaria”). Si veda anche il caso di un predicato come gustare, il cui senso originario comprende qualsiasi sapore, ma che di fatto nell’italiano attuale fa pensare a sapori buoni (“gustare una meringata”), ragion per cui espressioni come “gustare un sapore di marcio”, che si trovano nell’uso, se non sono ironiche o paradossali risultano maldestre.

Tuttavia il caso di incutere è diverso, e abbiamo dato spazio all’ipotesi che selezioni necessariamente come complementi oggetto degli stati d’animo connotati negativamente, solo per meglio sviluppare e spiegare la legittima supposizione della lettrice, poiché può ben essere quella di molti altri lettori. Va notato che negli stessi corpora giornalistici, in terza posizione per frequenza, subito dietro la paura e il timore, vi è l’incutere rispetto, che non può dirsi uno stato d’animo negativo. Qui sopra provvisoriamente non lo avevamo riferito, ma sempre con connotazioni neutrali o positive, anche se con frequenze molto minori, si trovano tenerezza, reverenza, simpatia, ammirazione, fiducia, speranza, coraggio, pietà, stupore, e simili. Insomma, si incutono anche stati d’animo positivi.

Eppure, non ogni stato mentale si può incutere: risultano assenti (o al massimo episodici) anche nei corpora più estesi l’incutere amore, disprezzo, dissenso, attenzione, diffidenza, ostilità, creatività, progettualità. Quindi, dopotutto, si deve ammettere che il verbo incutere pone un vincolo sulla natura degli stati che causa, anche se il vincolo non è che si tratti di cose positive. Esso deriva direttamente dalla sua semantica, che quindi riesaminiamo con più attenzione. Il processo psicologico descritto da in + quatĕre è il portare una scossa o un colpo dentro qualcuno, cioè causare in lui un cambiamento mediante un intervento (tipicamente, energico) che va dall’esterno all’interno. È una modificazione dello stato mentale che è originata da una fonte esterna e viene subita da qualcuno che ne è il bersaglio. La persona a cui si incute uno stato d’animo (tecnicamente, in linguistica diremmo che ha il ruolo semantico di Esperiente) è dunque passiva: è il terreno su cui agisce una forza, non è il soggetto attivo dell’insorgere, al proprio interno, di quello stato d’animo. Quindi si possono incutere sensazioni e sentimenti la cui natura permette che siano causati direttamente dall’esterno, ma non sentimenti o atteggiamenti che sorgano in modo spontaneo e indipendente, cioè senza contatto con l’esterno, da dentro la persona, oppure che siano il frutto di una sua volontà autonoma o elaborazione attiva. Questo esclude appunto che si incutano amore, attenzione, creatività, diffidenza, disprezzo, dissenso, ostilità, pazienza, perseveranza, ponderazione, progettualità. Ma non esclude che si incuta simpatia, dato che questa (come gli altri stati d’animo positivi e negativi che abbiamo elencato precedentemente) può anche essere la reazione immediata a uno stimolo esterno.

Insomma, il tratto semantico veramente pertinente che incutere seleziona nel suo complemento oggetto è la “passività dell’Esperiente”. Il trattarsi più spesso di sentimenti negativi che positivi è solo un effetto collaterale di questo, comprensibile poiché ciò che si subisce senza partecipazione della propria volontà e senza poterlo evitare ha più probabilità di essere, o essere percepito, come negativo che come positivo.

Questa semantica di incutere determina che, se si decide di usarlo anche con sentimenti e stati d’animo più “attivi” e solitamente costruiti dall’interno, il sentimento di cui si tratta (amore, coraggio, simpatia, speranza) è in questo caso rappresentato soprattutto come reazione immediata a uno stimolo esterno, o come ricevuto passivamente. Dicendo “in lui sorse una simpatia per il cane dei vicini” si caratterizza la simpatia come uno stato d’animo abbastanza organizzato, internamente coltivato e mentalmente complesso, mentre dire “il cane dei vicini gli incuteva simpatia” fa pensare a una simpatia istintiva, che sorge come reazione irriflessa e tale rimane, senza strutturarsi interiormente.

Infine, alla lettrice che chiede se solo il leone possa incutere in un bambino il timore del leone, o se invece questo timore possa incuterlo anche la madre, ad esempio descrivendogli il leone come feroce e pericoloso, possiamo rispondere che qui non ci sono vincoli: chiunque può incuterci un timore, e non solo il timore di sé. Ma anche questo dubbio che ci viene gentilmente rappresentato può essere occasione per una riflessione utile. L’impressione che il Soggetto di incutere timore debba proprio essere la fonte prima del timore e non chi ce la descrive, viene ancora una volta da fatti di frequenza. Quasi in tutti gli usi concreti, infatti, è questo lo stato di cose che viene rappresentato: il leone incute direttamente paura o timore, il vecchio zio incute rispetto o soggezione, la serpe incute ribrezzo, il medico competente incute fiducia e speranza. Ben più raramente, di fatto, qualcuno incute in noi indirettamente i relativi sentimenti descrivendoci le cose che li causano. Ma l’essere qualcosa raro o improbabile nei fatti non rende meno grammaticali gli usi che lo descrivono. Altrimenti, “spero di perdere il concorso” sarebbe meno grammaticale di “spero di vincere il concorso”, e addirittura “ho bevuto una fiasca di ambrosia” sarebbe meno grammaticale di “ho bevuto un bicchier d’acqua”.

Edoardo Lombardi Vallauri

25 giugno 2025


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