Sulla lingua del film Il giovane favoloso

E. M. ci scrive da Pescara: "Ho visto Il giovane favoloso, il film su Leopardi. È una scelta giusta quella del regista di far parlare Leopardi e i suoi parenti in un italiano perfetto? Mi sembra molto strano soprattutto il contrasto con i personaggi napoletani che parlano invece il loro dialetto. Nel resto d'Italia, agli inizi dell'Ottocento, si parlava l'italiano?"

Risposta

Sulla lingua del film Il giovane favoloso

Oltre agli innumerevoli commenti, alle recensioni più o meno entusiaste, Il Giovane favoloso di Mario Martone ha suscitato anche alcune riflessioni linguistiche che sono arrivate alla nostra redazione. In particolare è stato notato che il regista (anche autore della sceneggiatura con Ippolita di Majo) ha deciso di far parlare i protagonisti del film in uno italiano di matrice letteraria sostanzialmente privo di connotazioni locali, lasciando occasionalmente qualche spazio marginale, pur se ben riconoscibile, alle varietà regionali e dialettali, sempre con marcature molto leggere. La lingua che attraversa tutta la sceneggiatura è quella della prosa leopardiana (Zibaldone, Lettere e Operette morali), con alcuni momenti e spazi ben circoscritti di lingua poetica assegnati alla magistrale recitazione di Elio Germano. In questo modo il film riesce a tenere saldati il piano dell’inevitabile finzione del racconto nella sua rappresentazione in immagini e quello della produzione letteraria di Leopardi, che appare come l’unico vero strumento per trasmettere l’essenza, la verità del pensiero del poeta. L’effetto inevitabile di questa scelta è una lingua orientata verso l’alto, che non permette di rispecchiare nei personaggi una semplice colloquialità e l’uso reale di quel tempo e di quei luoghi.

La vicenda umana e intellettuale del giovane Leopardi si snoda su uno sfondo narrativo che contiene la famiglia, Recanati con i suoi abitanti e le città Firenze e Napoli, mete degli spostamenti del poeta. Le scelte linguistiche degli sceneggiatori hanno mirato a rendere “fedelmente” la lingua letteraria e poetica di Leopardi, e per raggiungere questo scopo si sono modellate su quella tacita convenzione che vige tra cineasti e pubblico per cui il realismo linguistico non è effettiva ricostruzione dell’uso linguistico nel tempo e nei luoghi rappresentati. In questo caso poi non si tendeva certo a una narrazione che potesse dirsi realistica, e lo stesso titolo del film, ripreso da una splendida immagine di Anna Maria Ortese, in cui quel favoloso vale come ‘immaginifico’, appare quasi manifesto programmatico. L’ambizioso obiettivo di Martone l’aveva già intuito Bernardo Bertolucci quando, all’inizio del progetto, gli chiese come avrebbe fatto a filmare la poesia: sono state filmate immagini, persone, luoghi, paesaggi, e riprese parole, battute, scambi dialogici, ma tutto contribuisce alla fine a dare l’impressione di essere scaturito dalle parole delle opere di Leopardi. L’unica realtà che si voleva rappresentare era quella del pensiero e delle parole del poeta. Se, sotto il profilo linguistico, si fosse rincorsa a tutti i costi l’aderenza alla realtà storica si sarebbe dovuti ricorrere al dialetto (ai tempi di Leopardi anche le persone colte parlavano in dialetto), ma così, oltre a realizzare un parlato ai più difficilmente comprensibile, sarebbe venuta meno la fedeltà alla varietà linguistica e alla peculiarità della lingua poetica leopardiana, unica realtà a cui il film mirava. Attraverso la finzione filmica è possibile comunque superare questo tributo al realismo e sfruttare anche la minima alternanza di codici per rappresentare lo scarto culturale, sociale che intercorre tra i componenti della famiglia Leopardi e degli intellettuali che le ruotano intorno e i personaggi, ma ancor più i contesti, popolari e segnati da tratti di marginalità. Uscendo poi dalla cerchia della famiglia e degli amici, c’è Recanati con i suoi abitanti, a quel tempo senza dubbio tutti dialettofoni: sulla base dell’ormai assodata convenzione filmica sono sufficienti pochi indizi di inflessione marchigiana su una base di lingua essenziale e priva della ricercatezza formale dei componenti della famiglia Leopardi, per tracciare la linea linguistica e culturale che separa questi due mondi. Negli inserti narrativi dedicati ai viaggi del poeta a Firenze e a Napoli si è calcato con un po’ più di insistenza sui tratti del fiorentino e del napoletano, ma con finalità ed effetti molto diversi tra loro: a Firenze Leopardi è seguito nei suoi incontri con i letterati del Gabinetto Vieusseux e con gli accademici della Crusca, impegnato in conversazioni segnate spesso da divergenze politico-filosofiche, in cui le battute dei “fiorentini” sono segnate da evidenti e forse fin troppo insistiti tratti del fiorentino colto; a Napoli, città che diventa simbolo dello scatenarsi della natura nella sua indomabile energia, cade il filtro della lingua letteraria e il dialetto esplode sulla bocca di personaggi che sembrano sorgere direttamente dalla terra. La comparsa del dialetto non è neanche in questo caso un omaggio al realismo, ma un modo per sottolineare il ruolo della Natura nella vita dell’uomo, tema-cardine della poetica leopardiana.

 

A cura di Raffaella Setti
Redazione Consulenza Linguistica
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20 febbraio 2015


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