Sull’evoluzione di però

F. V. da  Reggio Calabria ci pone un quesito al quale Luca Serianni aveva già risposto sulle pagine della Crusca per voi n. 18 (aprile 1999).

Risposta

Sull’evoluzione di però

 

«A che epoca però è passato dall’antico valore causale-conclusivo (‘quindi’, ‘perciò’) all’attuale valore avversativo?

                              

Già nell’italiano antico il prevalente valore causale-conclusivo di però non escludeva il valore avversativo, poi destinato a imporsi. In alcuni casi possiamo renderci conto di questo passaggio; si prenda il passo del Purgatorio (X, 106) in cui Dante, dopo aver descritto la dura pena dei superbi, che procedono curvi sotto il peso di enormi massi, osserva: “Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi / di buon proponimento per udire / come Dio vuol che ’l debito si paghi”. Quel però ha, in primo luogo, l’abituale significato arcaico causale-conclusivo (‘non voglio, per questo, cioè per aver saputo di pene tanto gravose , che tu ti distolga dal pentimento’); ma è presente anche una sfumatura avversativa: ‘ma non voglio che tu ti distolga ecc.’.

È difficile dire a che epoca il però causale-conclusivo sia tramontato. Nella combinazione e però (o con univerbazione: epperò) questo valore si può trovare ancora oggi in una prosa sostenuta o libresca. Eccone un esempio vecchio solo di cinquant’anni, dal romanzo di quel raffinato e colto scrittore che fu Tommaso Landolfi (La pietra lunare, 1944); il passo si legge nel Grande dizionario della lingua italiana fondato da S. Battaglia, Torino, UTET, 1961 ss., XIII p. 73): “Sapeva bene che spettacolo lacerante lo attendeva, e però se ne andava malinconico e il più lentamente possibile”».

 

Luca Serianni

10 dicembre 2012


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