Alcuni lettori si sono rivolti al servizio di Consulenza linguistica per conoscere l’origine delle espressioni farsene una ragione e mettersela via, entrambe impiegate nel significato di ‘rassegnarsi’. Ci viene inoltre chiesto se in italiano l’uso della seconda locuzione sia corretto o se sia invece proprio solamente di alcune varietà regionali.
Farsene una ragione
Proviamo innanzitutto a chiarire l’origine e il significato della prima espressione, farsene una ragione – che uno dei nostri lettori ritiene “non abbia senso se analizzata semanticamente” – scomponendola nei suoi diversi elementi e illustrando il significato di ciascuno di essi, per poi tentare di ricostruire i passaggi semantici che hanno portato alla formazione della locuzione.
Partiamo dal sostantivo ragione: la consultazione dei principali dizionari dell’uso ci permette di verificare che la forma ha diversi significati, tra cui quello di “fondamento oggettivo di qualcosa, causa, motivo; motivo legittimo, che spiega o giustifica un fatto o un’azione” (Devoto-Oli 2024 online). Molti dizionari, tra cui lo stesso Devoto-Oli 2024 online, lo Zingarelli 2024, il Vocabolario Treccani online e il GRADIT, registrano sotto questa accezione una serie di locuzioni verbali formate con il sostantivo, tra cui farsi una ragione nel significato di ‘rassegnarsi, accettare razionalmente un fatto doloroso o spiacevole’.
La combinazione del sostantivo ragione nel significato di ‘causa, motivo’ con un verbo semanticamente ampio e generico come fare ha quindi come esito la formazione di una locuzione che assume la valenza di trovare, dare a sé stessi una ragione, ossia un motivo di comprensione e quindi di rassegnazione di fronte a un fatto o a un evento. Il fatto che il verbo si presenti non nella sua forma base, bensì nella variante pronominale farsi è invece da ricondurre al suo uso come riflessivo indiretto o apparente: come spiegato, tra gli altri, da Serianni 1989, XI 21 e Jezek 2011, i riflessivi indiretti (chiamati anche riflessivi apparenti o transitivi pronominali) sono verbi transitivi che prevedono la presenza di un oggetto diretto (rappresentato nel nostro caso dal sostantivo ragione) e di un pronome personale atono che non svolge la funzione di complemento oggetto, come avviene con i riflessivi veri e propri, ma quella di complemento indiretto (di termine o dativo), che indica il beneficiario dell’evento o dell’azione espressa dal verbo. È il caso di espressioni quali “prepararsi la cena”, “farsi un’idea”, “portarsi un ombrello”, e appunto “farsi una ragione”, che indicano delle azioni svolte a vantaggio del soggetto, “nel suo interesse o per sua iniziativa”.
Come indicato dal Treccani, dal Devoto-Oli e dal GDLI, la costruzione della locuzione può prevedere anche l’esplicitazione del fatto o dell’evento di cui si ricerca una ragione, attraverso il ricorso a un sintagma preposizionale introdotto dalla preposizione di (e dunque “farsi una ragione di qualcosa”), come nel seguente esempio citato dal GDLI, tratto dal romanzo Un cuore arido (1961) di Carlo Cassola: “Mario, io sono ragionevole, credimi. Io arrivo anche a dirti questo: che mi farò una ragione della tua partenza”. La locuzione può però ricorrere anche senza tale esplicitazione, come si può osservare in un altro degli esempi riportati dal GDLI, tratto dalla raccolta di racconti A guerra aperta (1906) di Edoardo Calandra: “Le hanno tolto il suo Bastiano, e non si sa fare una ragione”.
A questo punto, resta da chiarire quale sia il valore del pronome clitico ne all’interno dell’espressione farsene una ragione, che possiamo forse considerare variante intensiva della locuzione farsi una ragione registrata dai lessicografi: come chiarisce Cordin 1988, pp. 633-634, il clitico ne può essere usato in sostituzione, e quindi con la medesima funzione sintattica, di un sintagma preposizionale formato dalla preposizione di e da un sintagma nominale, come nei seguenti esempi (che si citano sempre da Cordin 1988):
Ottenne finalmente la patente e ne approfittò subito. (ne = della patente)
Mi piace l’ultimo quadro che ho dipinto; ne sono proprio fiero. (ne = dell’ultimo quadro che ho dipinto)
Allo stesso modo può interpretarsi l’uso del clitico nella locuzione qui presa in esame, la cui costruzione, come abbiamo detto, può prevedere proprio la presenza di un sintagma preposizionale introdotto da di, per es. in:
Gli comunicarono la notizia con tatto, ma non riuscì a farsene una ragione. (ne = della notizia)
In altri casi, ne può assumere valore neutro, e riferirsi non a un singolo sintagma, ma a un’intera frase o a un concetto precedentemente espresso, come in:
Quando ho saputo di essere stato convocato, ne sono rimasto proprio sorpreso. (ne = del fatto di essere stato convocato)
Lo hanno licenziato senza preavviso, e non ha saputo ancora farsene una ragione. (ne = del fatto di essere stato licenziato)
Infine, possono verificarsi anche casi in cui l’antecedente a cui fa riferimento il clitico non è espresso, ma è deducibile dal contesto e può sottintendere termini di valore generico come fatto, questione, problema e simili, per es. in “Adesso ne ho abbastanza” o “Me ne sono fatto una ragione” (in cui ne può appunto sottintendere espressioni del tipo “di ciò”, “di questo problema”, ecc.). Non è tuttavia da escludere la possibilità che, come avvenuto per altre locuzioni di uso comune come aversene a male, valerne la pena, non poterne più e simili (per cui cfr. Serianni 1989, VII 55), l’originario valore pronominale del clitico si sia progressivamente indebolito e che l’uso del ne all’interno della locuzione, cristallizzatasi nella forma farsene una ragione, abbia ormai un semplice valore intensivo; per quanto sia comunque ancora possibile, in taluni contesti, che esso si riferisca effettivamente a un antecedente espresso nelle frasi precedenti o da esse deducibile.
Quanto all’origine della locuzione, la sua formazione è relativamente recente: il DELI la data al 1832 e individua la prima attestazione di farsi una ragione in alcuni versi tratti dalla raccolta Versi e prose del poeta toscano Filippo Pananti, riportati anche dal GDLI, che li cita dall’edizione del 1831-1832; da qui probabilmente la data riportata dal DELI. In realtà esiste una precedente edizione dell’opera di Pananti, del 1824, consultabile in Google libri:
L’augel che chiuso in carcere si tiene, / Che non si scuota, che non si strabatta; / Quando è forza restar fra le catene, / È bene una ragione essersi fatta. (Filippo Pananti, Il paretaio. Poemetto didascalico, in Versi e prose del dottor Filippo Pananti di Mugello, Firenze, dalla Stamperia Piatti, 1824, p. 41)
Tutto ognor finisce e muore, / In oblio tutto si pone, / Convien farsi una ragione / Della gran necessità. (Filippo Pananti, Poesie diverse, A bella vedova che rifiutava di rimaritarsi, in ivi, p. 83)
Una ricerca nel corpus Biblioteca italiana BiBit, che raccoglie in rete testi della letteratura italiana dalle origini al Novecento, permette di retrodatare ulteriormente l’espressione alla fine del Settecento, in una lettera di Vincenzo Monti del 2 gennaio 1799 (o “13 nevoso anno 7 della Repubblica”, come indicato nella missiva secondo il calendario rivoluzionario francese, adottato anche in Italia nei territori della Repubblica Cisalpina):
Non v’ha che la filosofia che abbraccia il futuro, che sappia farsi una ragione dei mali presenti e consolarsi colla speranza dell’avvenire. Diversamente la disperazione sforza gli animi poco pazienti a cercare il rimedio de’ loro mali nelle braccia del despotismo. (Vincenzo Monti, Epistolario, lettera n. 661 a G. B. Costabili Containi, 13 nevoso A. 7 R.)
Di pochi anni precedente è invece la prima attestazione – che è stato possibile individuare – della variante farsi ragione (senza l’articolo indeterminativo davanti al sostantivo), rinvenuta attraverso una ricerca in Google libri in una commedia del 1792 del letterato friulano Marzio di Strasoldo:
FALCO: […] sono molto sorpreso, vedendo quella gran premura che avete d’abbandonare una casa comoda e signorile, dove siete avvezza di vivere con comodo, e senza far niente; io non me ne posso abbastanza maravigliare. LENA: Bisogna farsi ragione di tutto; e questa ragione c’insegna di cercare la nostra felicità, non già in quello stato in cui potremmo essere; ma in quello che siamo effettivamente. (Il giuoco della fortuna, Atto III, Scena I, in Commedie del signor conte Marzio Strasoldo, Trieste, presso Gio. Tom. Höchenberger, 1792, pp. 53-54)
L’osservazione di questa e delle successive attestazioni di farsi ragione nel significato di nostro interesse ci consente di ipotizzare che, almeno nella sua prima circolazione, la locuzione potesse essere impiegata anche senza articolo, seppure con frequenze decisamente minoritarie rispetto alla variante concorrente; in tale forma, la locuzione ricorre ancora nel secondo Ottocento nelle lettere di Giosue Carducci, come attesta il GDLI (“Pur una volta bisognerà farsi ragione o farla finita: che ne dici tu?”), ed è ancora registrata come possibile alternativa da alcuni dizionari di fine secolo, tra cui il Novo vocabolario della lingua italiana (1890) di Giorgini e Broglio (“farsi ragione o una ragione d’una cosa: rassegnarvisi, darsene pace”; Giorgini-Broglio s.v. ragione). Tuttavia, essa viene in seguito del tutto soppiantata dalla variante maggioritaria farsi/farsene una ragione, che è oggi l’unica ancora in uso: la causa è forse da ricercare nel fatto che farsi ragione ricorreva già da tempo in italiano nel significato di ‘farsi giustizia’, e ciò avrebbe potuto creare dei fraintendimenti nell’interpretazione dell’espressione.
Mettersela via
Veniamo ora alla seconda locuzione da esaminare, mettersela via, anch’essa impiegata nel significato di ‘rassegnarsi, accettare qualcosa di spiacevole o doloroso’, e proviamo a ripetere lo stesso percorso seguito per farsene una ragione, tentando di ricostruire l’origine dell’espressione a partire dal significato dei singoli elementi componenti. Anticipiamo subito che, a differenza della prima, la seconda locuzione non è registrata da alcun dizionario italiano dell’uso, e questo ci offre una prima conferma di quanto ipotizzato dai nostri lettori a proposito dell’origine regionale dell’espressione, la cui diffusione appare appunto limitata solamente ad alcune varietà locali.
Partiamo nella nostra analisi dall’avverbio via, che, come indicato nei principali dizionari sincronici, esprime di norma allontanamento, specialmente in combinazione con verbi di moto, quali andare, correre e simili, ma che “può esprimere, con altri verbi e in molte locc. particolari, il distacco, l’eliminazione e altri sign. ricavabili dal contesto” (cfr. Sabatini-Coletti 2008). Come fare, anche mettere è in italiano un verbo di significato “ampio e generico, dai confini semantici non ben definiti, che comprende in sé le accezione di porre, collocare, posare, introdurre, ficcare, attaccare, versare, e di parecchi altri verbi” (cfr. Vocabolario Treccani online): la sua combinazione con l’avverbio, che appunto può indicare un allontanamento o un distacco, reale o figurato, dà luogo a una locuzione (mettere via) che assume il significato di ‘accantonare, riporre, mettere qualcosa da parte’ (per es. “mettere via i vestiti estivi”), e per estensione quello figurato di ‘ignorare, trascurare, dimenticare’, con riferimento soprattutto a un problema o a una questione (per es. “per un momento metti via i problemi”, cfr. Vocabolario Treccani online). La locuzione può però anche essere usata in riferimento a una persona, nel significato di ‘lasciare da parte qualcuno, interrompere con lui ogni rapporto sociale o lavorativo’, come attestato dal GDLI, che registra la costruzione mettere via qualcuno (s.v. mettere, § 61), riportando un esempio dalla raccolta di racconti Il paese del melodramma (1930) dello scrittore Bruno Barilli: “Che cosa almanaccava dunque, quali progetti erano i suoi? e se l’avevano appunto messo via, che e che cosa voleva... la buonauscita?”. Sul piano semantico, si potrebbe allora ipotizzare che dal significato figurato di ‘mettere qualcosa o qualcuno da parte, trascurarlo, dimenticarlo’, si sia in seguito sviluppato quello di ‘smettere di preoccuparsi di qualcosa o qualcuno’ e quindi ‘rassegnarsi, accettare un fatto o un evento spiacevole o doloroso’.
Quanto alla presenza del pronome clitico si all’interno della locuzione (che appunto prevede l’uso del verbo mettere nella variante pronominale mettersi), questa può essere spiegata con ragioni intensive: come chiarito, tra gli altri, da Serianni 1989, VII 40, in italiano i pronomi atoni possono assumere una funzione affettivo-intensiva, per sottolineare la partecipazione del soggetto all’azione o all’evento descritto dal verbo a cui si legano, per es. in espressioni quali “farsi una passeggiata”, “mangiarsi una pizza”, “fumarsi una sigaretta” (su cui cfr. anche la scheda di consulenza linguistica di Massimo Bellina), o appunto “mettersi via qualcosa”. Anche il pronome atono la non si riferisce a un antecedente reale, ma svolge la funzione di oggetto neutro, come avviene in altre locuzioni verbali cristallizzate che vedono la combinazione del clitico con altri pronomi, quali darsela a gambe, godersela, prendersela comoda, vedersela brutta, e simili (per cui cfr. Serianni 1989, VII 44 e Jezek 2011), per le quali Tullio De Mauro ha introdotto nel GRADIT l’etichetta di “verbi procomplementari”, a indicare dei verbi che vengono stabilmente impiegati con una o più particelle clitiche e che in conseguenza di ciò assumono un significato cristallizzato, non sempre o non del tutto riconducibile al verbo di base.
Una selezione di questi verbi è stata di recente raccolta in Ondelli 2022, unico repertorio lessicografico italiano a registrare l’espressione mettersela via nel significato di ‘lasciar perdere, non preoccuparsi più’. Trattandosi di un “Piccolo dizionario”, lo studioso si limita a datare la locuzione al XX secolo e a riportare la prima attestazione scritta rinvenuta nel corpus oggetto di spoglio (in un racconto della raccolta Musica in… Lettere! del 2014: “Me la sono messa via, quindi. Capitava che pensassi a lei, ma non era certo un chiodo fisso”), senza fornire ulteriori indicazioni sull’origine o la diffusione dell’espressione.
Una ricerca in rete e negli archivi dei principali quotidiani nazionali permette tuttavia di ipotizzare una diffusione della locuzione circoscritta all’Italia settentrionale, in particolare al Veneto e ad alcune regioni confinanti (Lombardia, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige): la maggior parte delle attestazioni nei giornali si trova infatti in articoli di cronaca locale veneta o in interviste a personalità di origine veneta o genericamente settentrionale, come per es. in
Ma in famiglia di questo schietto spirito anti-glob che cosa ne pensano? «Nulla di particolare. Sono tutti tranquilli. Come diciamo noi, “Se la sono messa via”». (Mario Porqueddu, Il nipote di Cacciari: quella rissa con i seguaci del Black Bloc, “Corriere della Sera”, 10/8/2001, p. 6)
La storia parla chiaro: all’inizio furono gli immigrati. Anche gli abitanti di Sarmeola di più radicato albero genealogico devono mettersela via: non ci sono tra loro discendenti di autoctoni, perché i primi abitanti del paese venivano dall’estero, e pure da lontano. (Francesco Jori, “Il paese sarebbe felice” tessere di storia dell’operosa Sarmeola, “Il mattino di Padova”, 12/10/2018)
La contravvenzione, si faccia attenzione, non è certo una spesa di poco conto visto che si parla di una cifra che può raggiungere i 335 euro. Insomma, troppo per non contestarla. Così, almeno, l’ha pensata il giovane punito con l’ammenda che ha impugnato il provvedimento davanti al giudice di pace. L’altro «sinistrato», invece, ha preferito mettersela via senza obiettare. (Nicola Guarnieri, Non si mettono d'accordo dopo l’incidente. Multati perché intralciano il traffico, l’Adige.it, 18/5/2019)
La locuzione si ritrova inoltre in blog e portali di diverso tipo curati per lo più da autori settentrionali o che trattano di argomenti variamente collegati alle realtà locali, soprattutto venete: sono per es. pagine che pubblicizzano prodotti gastronomici e ristoranti (per es. Pasticceria Tonolo, “Space delicious”, 27/8/2023,); recensiscono serie televisive (per es. Marco Triolo, Bridgerton: Regé-Jean Page non tornerà mai, “Screenweek”, 15/7/2022,); offrono consulenze psicologiche (Paura di litigare con le persone: come vincerla?, “Tuo Psicologo”, 1/12/2021,); o danno consigli sulle politiche di marketing (Giorgio Soffiato, La solitudine del direttore marketing, “Marketing Arena”, 10/3/2020).
Una conferma dell’origine settentrionale della locuzione si può ricavare dalla consultazione dei dizionari dialettali, in cui è possibile rinvenire alcune costruzioni di valore semanticamente affine, a partire dalle quali potrebbe essersi sviluppato per estensione il significato di nostro interesse: il Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio (1829), registra per es. meterla via nel significato di “mettere a non calere o in non cale o in non calere; Appiccare o attaccare le voglie all’arpione; Appiccarla a un chiodo; Appiccar l’arme al tempio, vale Aver lasciato le voglie o il desiderio d’una tal cosa” e meter via una cossa in quello di “Mettere in non cale; Cavarsi di capo una cosa; Riporne, Deporne il pensiero”; il Dizionario vicentino-italiano di Giulio Nazari (1876) glossa l’espressione mètarla via con “lasciar di parlarne”; mentre il Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto di Emilio Zanette (1980) annota per métarla via il valore di “smetterla, non insistere”, e per métar via non solo il significato letterale di “riporre, mettere da banda”, ma anche quello metaforico di “incassare: a chi ha avuto una rispostaccia e non replica”. Simile alla definizione proposta da Boerio l’accezione registrata nel Dizionario del dialetto triestino di Ernesto Kosovitz (1889) per meterla via, “attaccare la voglia all’arpione, o appiccare l’arme al tempio”; e valore affine presenta anche il meti vie registrato nel Vocabolario friulano di Pirona (1992), detto “di pretese, desideri, ecc.”, e soprattutto il metile vie nel Vocabolario italiano-friulano di Gianni Nazzi (2005) nel significato di “rassegnarsi, arrendersi, darsi per vinto, desistere”. Infine, una qualche prossimità semantica al significato di mettersela via si può riconoscere anche nel mitilia via registrato nel Vocabolario bresciano di Giovan Battista Melchiori (1817) col valore di “Dimenticare. Scordar checchessia”.
Sulla base delle attestazioni rinvenute, possiamo dunque confermare che mettersela via è un’espressione di origine e diffusione regionale, per cui non è da escludere l’influsso dialettale; il significato attuale, vicino a quello di farsene una ragione, si sarebbe sviluppato per estensione, in senso figurato, a partire da quello proprio della locuzione mettere via ‘mettere da parte, riporre’. Per rispondere quindi ai nostri lettori, l’uso della locuzione mettersela via non è da considerarsi scorretto, ma, in ragione della sua circolazione ancora circoscritta ad alcune varietà regionali settentrionali e della sua connotazione familiare, è da evitare nell’italiano standard e nei contesti più formali.
Nota bibliografica:
Sara Giovine
13 marzo 2024
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Per concomitanza con le Feste, la visita all'Accademia della Crusca dell'ultima domenica del mese di dicembre è stata spostata al 12 gennaio 2025 (ore 11).