Due lettrici chiedono spiegazioni sull’origine e sul significato delle espressioni fare le fiche e fare le fiche in faccia.
A noi lettori moderni la voce fica non può che richiamare alla mente il significato di “organo sessuale femminile, vulva” (GRADIT s.v. fica). Viene dunque spontaneo ricondurre l’espressione fare le fiche al gesto osceno di imitare con le mani la forma dei genitali muliebri. E questa è in effetti la spiegazione che spesso si è data al passo della Commedia dantesca (“le mani alzò con amendue le fiche”, Inf. XXV, 2), cui si deve principalmente la fortuna della locuzione. A tale interpretazione dà conferma, fin dalla prima edizione (1612), il Vocabolario della Crusca:
FICA parte vergognosa della femmina […]. E da questa, per qualche similitudine, si chiama fica quell’atto, che con le mani si fa, in dispregio altrui messo il dito grosso tra l’indice, e ’l medio: onde Far le fiche
Ma esaminiamo più da vicino l’occorrenza dantesca. Dante e Virgilio si trovano nella settima bolgia, intenti a osservare i ladri che subiscono mostruose metamorfosi. Uno di loro, il pistoiese Vanni Fucci, dopo aver parlato con i viandanti dà sfogo a tutta la sua blasfemia: alzando le mani al cielo, mostra a Dio le fiche, accompagnandole a un’imprecazione verbale:
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!” (Inf. XXV, 1-3)
Non ci sono dubbi che l’atto di scherno a cui allude Dante sia identificabile con il fare le fiche, espressione attestata a partire dalla seconda metà del Duecento (l’aveva usata anche Brunetto Latini nel Tesoretto, composto prima del 1274: “E chi gentil si tiene / sanza fare altro bene / se non di quella boce, / credesi far la croce, / ma e’ si fa la fica […]”; cfr. TLIO s.v. fica), e che sia il gesto, descritto nel Vocabolario della Crusca, sia l’espressione dovevano risultare ben noti all’epoca del poeta, dal momento che i primi esegeti del poema non si soffermano con commenti.
Un importante contributo interpretativo giunge invece dai cosiddetti “commenti figurati” alla Commedia, cioè dalle illustrazioni che in molti manoscritti del poema fungono da integrazione o spiegazione del testo dantesco (cfr. Mazzucchi 2001, pp. 305-309). Ne sono un prezioso esempio le miniature di questi tre manoscritti, tutti datati o databili entro gli anni sessanta del Trecento:
Fig. 1: Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 313 (Dante Poggiali), c. 59r (copyright MiC - Illuminated Dante Project. La riproduzione è autorizzata per scopi scientifici e culturali)
Fig. 2: Napoli, Biblioteca e Complesso Monumentale dei Girolamini, CF 2.16 (Filippino), c. 60 v (copyright MiC - Illuminated Dante Project. La riproduzione è autorizzata per scopi scientifici e culturali)
Fig. 3: Chantilly, Chantilly, Bibliothèque du château, Ms 597, c. 163r (copyright Bibliothèque du Château di Chantilly, con licenza Creative Commons [CC BY-NC 3.0])
Nelle immagini è chiaramente visibile la figura di Vanni Fucci che rivolge verso l’alto una o due mani strette a pugno, dalle quali fuoriesce il pollice. È lo stesso gesto di cui si parla nel Vocabolario della Crusca, il che rende implausibili altre interpretazioni in precedenza avanzate.
Dal mondo della storia dell’arte, e nello specifico dai dipinti di argomento cristologico, provengono analoghe testimonianze. Fra queste gioverà almeno ricordare l’immagine del Cristo deriso realizzata da Giotto (si ipotizza tra il 1304 e il 1305) nella Cappella padovana degli Scrovegni (fig. 4). Tra i tanti insulti da parte dei personaggi presenti sulla scena, Gesù viene offeso (alla sua sinistra) anche mediante la solita mano stretta a pugno con il pollice che fuoriesce tra il dito medio e l’indice, il che permette di interpretare il nostro gestaccio non solo come un atto osceno ma anche, e forse soprattutto, come una vera e propria bestemmia nei confronti della divinità (cfr. Del Popolo 2004).
Fig. 4: Giotto, Cristo deriso (ca. 1304-1305), it.wikipedia.org
Delle fiche molto più “innocue”, ma visivamente efficaci per il nostro discorso, sono quelle (in fig. 5 un esempio) disegnate da Giovanni Boccaccio nei margini del manoscritto C 67 sup. (oggi alla Biblioteca Ambrosiana di Milano) per esprimere disappunto nei confronti del poeta latino Marziale, di cui in quel codice aveva copiato gli Epigrammi (cfr. Petoletti 2007, p. 142).
Fig. 5: Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, C 67 sup., c. 35v (copyright Veneranda Biblioteca Ambrosiana; Mondadori Portfolio)
Se dunque risulta chiaro quale sia l’aspetto esteriore del gesto, è però lecito avere dei dubbi che esso abbia a che fare con la forma dell’organo sessuale femminile. Infatti, la voce italiana fica nel senso di ‘vulva’ si affermerà solo tra il sec. XV e il sec. XVI (cfr. GDLI s.v. fica; Berisso 1999, p. 589). Andrea Mazzucchi (Mazzucchi 2001, pp. 311-315) avanza più convincentemente l’ipotesi che alla base dell’espressione ci sia piuttosto l’accezione di fico (o fica) nel linguaggio veterinario antico nel senso di “tumore più o meno voluminoso […] che si osserva d’ordinario intorno alle aperture naturali del corpo e sugli organi della generazione dei quadrupedi domestici, e più specialmente degli asini e dei muli” (Tommaseo-Bellini s.v. fico). Il gesto del fare le fiche sarebbe quindi l’imitazione, tramite il pollice, delle escrescenze carnose che crescono sui genitali di determinati quadrupedi. Nel caso di Vanni Fucci il discorso è ancora più calzante: il ladro pistoiese, il quale a Inf., XXIV, 124-125, aveva dichiarato che «“Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch’i fui”» e dunque si era paragonato proprio a un mulo, a Inf., XXV, 1-3 alza le sue “escrescenze” verso Dio, invitandolo a prendergliele e strappargliele via («“Togli, Dio, ch’a te le squadro!”»).
Sull’espressione fare le fiche in faccia vale quanto detto fin qui. Nonostante le sue prime occorrenze esplicite si rintraccino nel rifacimento toscano cinquecentesco, di Francesco Berni, dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (“Voltasi egli, e le fa due fiche in faccia”; “Egli a lei fa per beffe, e strazio, e scorno / e ceffo, e crocchi, e cento fiche in faccia”; cfr. il Vocabolario della Crusca [quarta impressione, 1729-1738] s.v. fica), l’esibizione del gestaccio davanti al viso dell’interlocutore sembra sottintesa già in molte attestazioni antiche del sintagma fare le fiche. Si veda, ad esempio, quella nel Novellino (“Quello donzello li fece la fica quasi in fino a[l]l’occhio, dicendoli villania”), per cui cfr. TLIO s.v. fica.
L’origine dell’espressione fare le fiche risulta oscura alla gran parte di noi moderni perché il referente che designa è caduto in disuso (il GRADIT lo registra infatti con la marca d’uso OB, “obsoleto”). Il nostro gestaccio sembra però sopravvivere, ad esempio, in alcune zone della Sardegna, e nello specifico in quelle logudorese e campidanese, in cui l’atto del fai is fichas o fagher sas ficcas verso l’interlocutore esprime vilipendio o una bestemmia vera e propria (cfr. Wagner 1960 s.v. fìk(k)a; Porru 1976 s.v. fica; Casu 2002 s.v. fìcca).
Nota bibliografica:
Francesca Spinelli
24 aprile 2023
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