Sull’uso di impattare e impattante

Diversi lettori ci scrivono per avere delucidazioni sul verbo impattare nel significato di ‘avere un certo effetto’: gli utenti ci chiedono se esiste ed è corretto l’uso in italiano del verbo in tale significato (e del corrispondente aggettivo impattante). In molti si domandano inoltre quale sia la corretta costruzione del verbo, se debba essere seguito dalla preposizione su o se sia accettabile anche la costruzione transitiva, con l’oggetto diretto.

Risposta

Il verbo impattare ‘urtare, colpire’ e, in senso figurato, ‘avere o produrre un determinato impatto, effetto’, è una formazione denominale che deriva, con l’aggiunta del suffisso -are, dal sostantivo impatto, su cui sarà opportuno soffermarci brevemente prima di procedere a illustrare usi e significati del verbo in questione.

Il termine impatto nel significato di ‘urto, incontro più o meno violento di un corpo con una superficie’ è attestato per la prima volta in italiano nel 1950, come adattamento dell’inglese impact ‘urto, effetto violento’, derivante a sua volta dal lat. impāctus (participio passato di impingĕre ‘sbattere, urtare, spingere contro’). Il DEI registra tuttavia anche un impatto come termine proprio della balistica, in uso in italiano già nel XIX sec., ma solo all’interno del sintagma angolo d’impatto, a indicare l’angolo di inclinazione di un proiettile rispetto al bersaglio: in questo caso la parola deriverebbe dal francese impact, e questo a sua volta dal latino. Il termine, quando “riferito alle esplosioni atomiche, ai veicoli spaziali, o in senso traslato”, e quindi nei significati che qui ci interessano, è però secondo i principali dizionari etimologici e per lo studio sugli anglicismi di Ivan Klajn, “certamente dall’ingl. impact”: infatti, come segnala Bruno Migliorini nella sua appendice al Dizionario moderno di Panzini, i primi a utilizzare la parola in questo significato sono stati i giornalisti che nel corso degli anni ’50 “hanno descritto gli effetti della bomba di Hiroshima sulla zona d’impatto”. E sarà proprio attraverso la lingua giornalistica che si diffonderà progressivamente l’impiego del termine, a indicare, prima, per estensione, un qualsiasi urto o scontro violento e, in seguito, a partire dagli anni ’60, nel significato figurato di ‘incontro, contatto’ e quindi di ‘forte effetto, influsso, impressione’. 

[…] infilo un paio di calzini, i più invernali che trovo nella valigia, e isolo per quella via le estremità soprattutto gli alluci esposti al terribile impatto delle lenzuola. (Giuseppe Cassieri, Un letto per dormire, Nuova Accademia, 1965, p. 139)

La politica della scienza, insomma, per dirla con una felice espressione di un ministro belga, è il pieno impatto della scienza in tutta la vita economica e sociale. (Saverio Avveduto, Leader, ottobre 1966)

L’impatto dell’uomo sulla natura ha prodotto ormai […] una sostanziale modifica del nostro “habitat”. (Felice Ippolito, La Fiera letteraria, 17/10/1968)

La diffusione capillare nella lingua d’uso di impatto nel significato figurato, promossa e veicolata dalla lingua dei giornali, si fa ancora più estesa e pervasiva nel corso degli anni ’80, tanto da divenire, secondo lo scrittore Sebastiano Vassalli, “uno dei termini più usati e, forse, abusati, della lingua italiana”. Lo stesso Vassalli, nel suo divertente repertorio di voci ed espressioni peculiari dei “banali anni Ottanta”, ironizza con queste parole sull’utilizzo ormai dilagante del termine, esteso e applicato a ogni ambito settoriale (politica, economia, società, ecologia, ecc.):

C’erano impatti di ogni genere (anche se il più ricorrente, grazie ai verdi […] fu quello “ambientale”: rappresentato dalla somma degli effetti e delle ripercussioni che la presenza dell’uomo aveva ed ha sull’ambiente naturale). Inutile cercare di circoscrivere con esempi l’area semantica dell’impatto; come già ho detto, i banali anni Ottanta furono anni d’impatto diffuso e generalizzato, degli scioperi sull’utenza, delle inchieste e degli arresti sulla malavita, della politica sulla Borsa, dei giovani con la realtà, delle automobili tra loro e con i “Tir”, del sindacato con le nuove realtà produttive, del rincaro delle materie prime sul mercato dei beni di consumo; di tutto contro tutti.

Dal sostantivo impatto deriva quindi il nostro impattare, formato con l’aggiunta del suffisso -are della prima coniugazione (in cui confluiscono la maggior parte delle neoformazioni verbali, sul modello dell’inglese to impact. Il verbo non è registrato nei principali dizionari della lingua italiana fino alle soglie del nuovo millennio, mentre erano presenti le voci omonime impattare ‘terminare alla pari, senza vincere né perdere’ (denominale da patta ‘pareggio nel gioco’, attestato in italiano dal 1533) e ‘stendere la paglia o altro per fare il letto alle bestie’ (forma desueta da ricondurre al sostantivo patto ‘pattume’). Impattare nel significato di ‘urtare, scontrarsi’ e in quello figurato di ‘avere un determinato impatto, effetto’ è accolto dalla grande maggioranza dei dizionari dell’uso solo a partire dalla fine del Novecento: il primo a registrare il verbo è lo ZINGARELLI 1997; segue il GRADIT (1999-2000), che pur accogliendo la voce, la ritiene però ancora di “basso uso” nell’edizione 2007; mentre il Vocabolario Treccani la introduce solo a partire dall’edizione 2003, segnalandola come non comune. Il verbo ha la sua prima attestazione in italiano nel 1966, quando viene impiegato dai giornalisti per descrivere la prima operazione di atterraggio di un veicolo spaziale sulla luna (“[la navicella] impatta sulla superficie lunare”, “l’Unità”, 4 febbraio 1966), ma comincerà a diffondersi e affermarsi nell’uso solo nel corso del successivo decennio, parallelamente al crescente impiego del corrispondente sostantivo impatto, di cui presenterà per altro anche la medesima evoluzione semantica: al significato originario di ‘urtare, colpire, investire’, riferito specialmente a un corpo meccanico in movimento, si affiancherà in seguito per estensione anche quello di ‘scontrarsi, urtare’ in senso figurato, da cui infine deriverà a sua volta quello di ‘avere o produrre un determinato effetto, esercitare una forte influenza su qualcuno o qualcosa’, sulla cui esistenza e legittimità si interrogano alcuni nostri utenti. 

Uno spoglio condotto negli archivi di due delle principali testate nazionali (“La Stampa” e “la Repubblica”) mostra come, dopo un’isolata attestazione in entrambe le testate nel novembre 1988, sporadici esempi di impattare (all’infinito) siano documentati  tra la seconda metà degli anni ’90 e i primi anni del 2000.

Nel corso del primo decennio del nuovo secolo si comincia ad assistere a un progressivo aumento dell’uso del verbo, la cui diffusione cresce ulteriormente nel corso del successivo decennio, arrivando a superare le trenta/quaranta occorrenze all’anno in entrambi i quotidiani. L’analisi dei differenti contesti di utilizzo della forma ci permette inoltre di individuarne gli ambiti d’uso prevalenti, ossia i settori dell’economia, della politica, dell’urbanistica e dell’ecologia, mentre l’osservazione in diacronia della natura semantica delle attestazioni ci rivela come il significato di impattare assuma fin da subito un’implicita connotazione negativa, solo occasionalmente esplicitata dalla presenza di avverbi come negativamente, pesantemente o simili: nella grande maggioranza dei casi, il semplice utilizzo del verbo ci indica cioè che l’influenza esercitata dal soggetto in questione è un’influenza negativa, che comporta ripercussioni più o meno gravi sulla situazione economica, politica, sociale o ambientale, senza la necessità quindi di ricorrere a ulteriori specificazioni.

Più sporadiche le attestazioni riscontrate in Google Libri, anche in questo caso con una ricerca circoscritta alla sola forma dell’infinito: una quarantina di esempi in un arco temporale compreso tra il 2001 e il 2015, quasi tutti rilevati all’interno di testi che trattano di economia, sostenibilità ambientale o strategie di marketing. Il dato indica che il nostro verbo, nel significato specifico di ‘influenzare’, è un termine caratteristico di determinati linguaggi settoriali, la cui diffusione nella lingua d’uso è stata mediata, come generalmente accade per tali parole, dai giornali, in cui ricorre appunto con discreta frequenza. Tramite la prosa giornalistica, la forma sarebbe in particolare divenuta tipica di un certo “politichese”, con una parabola di diffusione del tutto analoga a quella del corrispondente verbo inglese to impact, il cui uso, caratteristico di alcuni ambienti politici della capitale americana, è stato rimproverato anche a Barack Obama, che si era invece dichiarato estraneo a tali ambienti: 

Benché biasimi tuttora Washington, spesso Obama sembra più farne parte che contribuire a essere l’outsider che la critica. Un suo ex collaboratore è rimasto molto confuso sentendo Obama utilizzare il verbo ‘impattare’, termine di uso molto peculiare nella capitale. (“la Repubblica”, 21/01/2013)

La forma è rimasta invece estranea alla lingua letteraria o a scritture più sorvegliate appartenenti ad ambiti settoriali differenti da quelli citati, oltre che apertamente osteggiata da chi vi riconosce l’influsso diretto dell’inglese o rifiuta di sottostare alla moda linguistica del momento. Del resto, l’uso del verbo già nel significato originario di ‘urtare, scontrarsi’ (così come quello del corrispondente sostantivo impatto) non aveva trovato un’accoglienza unanime da parte degli stessi giornalisti, che in qualche caso si erano apertamente schierati contro la diffusione del termine. Anche in tempi assai recenti si registra una certa resistenza: secondo gli autori di Lercio, l’uso del verbo dovrebbe addirittura far inorridire i membri dell’Accademia, come sostengono in un divertente brano intitolato “L’asteroide Umberto Smaila distruggerà il pianeta Terra?”: 

L’appello dell’Accademia della Crusca non si è fatto attendere: «Se il mondo deve finire, che lo faccia con stile e nel modo corretto. Per favore non dite che “Umberto Smaila impatterà”. Non usate il verbo impattare né l’aggettivo impattante. Forse scompariremo, ma sarà a testa alta». (Un anno Lercio: il 2014 come non l’avete mai letto, Milano, Rizzoli, 2014)

Tuttavia, l’utilizzo di impattare, anche nel suo più recente significato figurato, è legittimo e ormai accolto dai principali dizionari dell’uso: la scelta di un suo eventuale impiego sarà dunque da ascrivere unicamente a ragioni di gusto personale o di opportunità.

Quanto invece alla costruzione del verbo, la posizione dei lessicografi appare alquanto diversificata: il GRADIT e lo ZINGARELLI si limitano a registrarlo come verbo intransitivo, mentre il Vocabolario Treccani e il Sabatini-Coletti 2008 specificano che l’eventuale argomento debba essere introdotto dalla preposizione su. La reggenza preposizionale è poi evidenziata anche dal Devoto-Oli 2014, che però introduce la specificazione per il solo significato di ‘urtare, colpire’, senza segnalare nulla per quello figurato che ci interessa. I soli due dizionari ad accogliere la valenza sia transitiva, sia intransitiva della forma sono il Dizionario del nuovo italiano (1987) di Claudio Quarantotto (che è peraltro una raccolta di neologismi) e il GARZANTI 2017: il primo riporta tuttavia il verbo nel solo significato originario di ‘colpire, cadere su’, riferito nello specifico a un veicolo spaziale; il secondo ammette entrambe le costruzioni per i due diversi significati riportati, corredandoli con esempi per ciascuna tipologia (“un asteroide ha impattato la Terra, contro la Terra”; “la crisi ha fortemente impattato l’economia del Paese; l’iniziativa ha impattato positivamente sulle realtà locali”). La costruzione intransitiva con argomento introdotto dalla preposizione su viene comunque avvertita come più corretta, probabilmente per analogia con la costruzione del sostantivo impatto (che è sempre un impatto, un’influenza su qualcosa) e risulta di conseguenza largamente prevalente nell’uso: ricercando negli archivi della “Repubblica” e della “Stampa”, ritroviamo infatti solo sporadiche occorrenze della reggenza transitiva del verbo, circoscritte a appena un paio di casi, e la situazione non pare essere mutata neppure in anni più recenti, in cui il costrutto intransitivo continua a essere di gran lunga maggioritario. In un caso infine, datato giugno 2017, rileviamo la sostituzione della preposizione su con la meno usuale in

A svelare come i tempi della giustizia possano impattare negativamente nell’attività di recupero crediti è uno studio della Associazione Tsei, “Tavolo di studio sulle esecuzioni italiane”, presentato ieri alla Camera. (“La Stampa”, 13/06/2017)

Alla luce di quanto si è detto, sarà dunque forse consigliabile ricorrere alla sola costruzione intransitiva, che risulta ancora largamente prevalente nell’uso corrente e al momento l’unica a essere unanimemente accolta dai dizionari di italiano.

Per quanto riguarda infine l’aggettivo impattante, derivante dalla voce verbale impattare, anche in questo caso su modello dell’inglese impacting, il primo a registrarlo è il GRADIT nel volume del 2003 riservato alle Nuove parole italiane dell’uso, che lo segnala come termine di uso comune, impiegato specialmente nel linguaggio della pubblicità per indicare qualcosa di particolarmente efficace o d’effetto (“un’immagine, un messaggio impattante”). Segue il GDLI, che lo include nel Supplemento del 2004, sempre nel significato di qualcosa ‘che colpisce, che provoca un determinato impatto, influenza o suggestione visiva o emotiva’; mentre tra i dizionari dell’uso l’unico ad accogliere la forma è il GARZANTI 2017, che aggiunge la specifica sfumatura semantica assunta dal termine in ambito ecologico (‘che ha un notevole impatto, specialmente negativo, sull’ambiente’). Gli esempi riscontrati negli archivi della “Stampa” e di “Repubblica” ci rivelano una parabola di diffusione dell’aggettivo in gran parte analoga a quella della corrispondente forma verbale: la prima attestazione di impattante risale al 1989 sulla “Stampa” (Pino Corrias, A caccia di consensi con una mela d’autore, “La Stampa”, 4/6/1989: “Dice Mignani: «il nostro compito è quello di sintetizzarli [i messaggi dei politici] e confezionarli in forma chiara semplice, impattante. [...]»), mentre per “laRepubblica” occorre aspettare il 1999. Al significato più generale di qualcosa ‘che provoca un determinato impatto, d’effetto’ nel corso degli anni si affianca progressivamente quello più specifico di qualcosa ‘che comporta degli effetti, per lo più negativi, sull’ambiente’: l’uso dell’aggettivo in tale specifica accezione, che diventerà in breve quella di gran lunga prevalente, aumenterà esponenzialmente nel corso del primo decennio di questo secolo.

Nonostante tale diffusione, in maniera del tutto similare a quanto osservato per la forma verbale, l’aggettivo impattante continua tuttavia a incontrare una certa resistenza anche da parte degli stessi giornalisti, che pure in anni recenti ne segnalano l’estraneità alla nostra lingua ponendo la forma tra virgolette, o ne condannano apertamente l’abuso e l’eccessiva genericità di significato.

Qual è la parola della settimana? Senza dubbio alcuno è impattante. Un termine prodotto dalla raccapricciante neo-lingua tecnocratica che s’è impossessata del nostro vivere quotidiano e ha generato altre perle del vocabolario come efficientamento. Per di più, trattasi di espressione dall’incerto contenuto valutativo. Il significato è infatti riferito a qualcosa che ha impatto su qualcos’altro, ma poi non si capisce se quest’impatto è giudicato in termini positivi o negativi. (“la Repubblica”, 29/12/2012)

Anche in questo caso, non esistono però specifiche ragioni linguistiche per condannare l’impiego del termine: l’unica raccomandazione che possiamo dare in proposito è di evitarne un utilizzo eccessivo, superfluo o non adeguato al contesto, che rischia di trasformare il nostro aggettivo in una di quelle parole abusate nella lingua contemporanea, prelevate specialmente dai linguaggi tecnici o dalla lingua burocratica, definite “plastismi” da Ornella Castellani Pollidori.

 

Per approfondimenti:

  • Giovanni Adamo - Valeria Della Valle, 2006 parole nuove. Un dizionario di neologismi dai giornali, Milano, Sperling & Kupfer, 2005
  • Gian Luigi Beccaria, I linguaggi settoriali in Italia, Milano, Bompiani, 1973.
  • Ornella Castellani Pollidori, La lingua di plastica. Vezzi e malvezzi dell’italiano contemporaneo, Napoli, Morano, 1995.
  • Maurizio Dardano, Il linguaggio dei giornali italiani, Roma-Bari, Laterza, 1973.
  • Il Neoitaliano. Le parole degli anni Ottanta, scelte e raccontate da S. Vassalli, Bologna, Zanichelli, 1989.
  • Ivan Klajn, Influssi inglesi nella lingua italiana, Firenze, Olschki, 1972.
  • Alfredo Panzini, Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni, con un’appendice di ottomila voci nuovamente compilata da B. Migliorini, Milano, Hoepli, 1950.

 

A cura di Sara Giovine
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca

 

3 novembre 2017


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