Superlativi poco eccellenti

Molti lettori chiedono indicazioni sulla liceità di usare comparativi e superlativi di aggettivi che contengono già in sé un significato di qualità assoluta e massima, come perfetto o eccellente, e che quindi non dovrebbero essere soggetti a intensificazione.

Risposta

Siamo, con questi e altri analoghi aggettivi che accomuniamo in una risposta complessiva a numerosi e diversi quesiti, nell’ambito di quella vasta area di sovrapposizione tra grammatica e lessico che spesso sfugge a una linea normativa presentando variazioni nell’uso concreto, non solo di oggi ma anche del passato. In generale, prima di passare a considerare i singoli lessemi, possiamo osservare che il loro uso comparativo o superlativo deriva dall’indebolimento semantico del significato di eccellenza, che li avvicina ad aggettivi di grado positivo.

A proposito dell’aggettivo perfetto, i numerosi dubbi espressi dai lettori riguardano la possibilità di usare il comparativo di maggioranza più perfetto di e i superlativi perfettissimo, il più perfetto, il più perfetto possibile. Nel significato di ‘eccellente, ottimo, senza difetti’, e nei suoi altri significati, tutti riferiti a qualità di eccellenza assoluta o circoscritta a un ruolo o qualità (una segretaria perfetta), perfetto mal si adatta a essere declinato al grado comparativo più perfetto di e al superlativo relativo il più perfetto o assoluto perfettissimo. Ma la gamma semantica di questa parola, nell’ambito dei suoi significati più generali che rimandano a un senso di eccellenza, ne comprende alcuni che sono più vicini, potremmo dire, a un grado base, come possiamo vedere in questi casi: “Per dieci o dodici giorni il tempo si mantenne perfetto” (Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, Torino, Einaudi, 1962, p. 88), cioè ‘sereno, non perturbato’; “comunemente si definiva la sua condotta come «perfetta»” (Giuseppe Antonio Borgese, Rubè, Milano, Fratelli Treves, 1921, p. 116), cioè ‘ideale’. Per non parlare delle accezioni filosofiche o religiose, che lungo i secoli occupano una larga parte della documentazione letteraria:

essendo l’uomo più perfetto di tutte le cose mortali (Benedetto Varchi, Lezioni sulla pittura e scultura, 1590);

Inoltre chi può negare, che un ente senza passioni sarebbe più perfetto di coloro che le hanno? e se ciò non può negarsi egli è chiaro, che le passioni deformano l'uomo, e sono naturalmente cattive mentre più perfetto si stimerebbe colui, che ne fosse esente. (Giacomo Leopardi, Dissertazioni filosofiche, a cura di Tatiana Crivelli, Padova, Antenore, 1995, p. 260).

Esempi, questi, che mostrano come l’aggettivo perfetto non sempre contenga un’idea di assoluto, di eccellenza, e come possa quindi essere usato al comparativo o al superlativo ("Questo titolo di monarchia, perfettissimo sinonimo di tirannide", Vittorio Alfieri, Della tirannide, Torino, Stamperia filantropica, 1800, tomo I, p. 22). Appaiono dunque del tutto condivisibili le precisazioni che leggiamo nello Zingarelli 2024 e nel Vocabolario Treccani in rete, che fanno riferimento a questa particolarità dell’aggettivo perfetto:

Zingarelli 2024
L’aggettivo ‘perfetto’ esprime una qualità al massimo grado e non dovrebbe avere né comparativo né superlativo; tuttavia è talora percepito come aggettivo di grado positivo e la forma ‘più perfetto’ è spesso usata: il più perfetto tra i concerti di Mozart; nel più perfetto silenzio;  lo spirito è più perfetto della materia (G. Leopardi). Frequente anche l’uso di ‘perfettissimo’: Dio è l'essere perfettissimo;  lo cerchio è perfettissima figura (Dante);

Vocabolario Treccani
Sebbene per il suo stesso sign. perfetto indichi condizione o qualità che non si possono ulteriormente accrescere, è usato il comparativo più p., meno p., per indicare un grado maggiore o minore di perfezione, e anche il superl. perfettissimo (da cui si ha anche l’avv. perfettissimamente).

Un po’ diverso è il caso di eccellente, per il quale i dubbi dei lettori si riferiscono soltanto all’uso del comparativo di maggioranza più eccellente di, e del superlativo relativo il più eccellente, come nell’esempio reale, riportato da F. G., “l’ospedale in cui lavoro è ritenuto il più eccellente”. L’estensione semantica di eccellente, meno ampia e sfaccettata rispetto a quella di perfetto, non ne giustifica allo stesso modo l’ulteriore intensificazione, e tanto il comparativo di maggioranza quanto il superlativo relativo sono da sconsigliare, anche se non ne mancano esempi letterari:

Ma facil cosa è ad intendersi perchè gli scrittori si accordino nel dar tante lodi a codesti virtuosi tiranni; e nel dire, che se gli altri tutti potessero ad essi rassomigliarsi, il più eccellente governo sarebbe il principato (Alfieri, op. cit.);

I quali influssi della religione sono tanto maggiori, quanto più le cose, di cui si tratta, hanno del morale, e alla parte più eccellente della nostra natura appartengono; quali sono appunto gli oggetti, in cui la filosofia si travaglia (Vincenzo Gioberti, Del primato morale e civile degli Italiani, Venezia, Tip. Elvetica, 1848, p. 13).

Altra cosa, poi, è Eccellentissimo, superlativo dell’aggettivo eccellente usato per cariche onorifiche, come gli “Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori” nominati dal Manzoni nei Promessi Sposi. Ma, ripetiamo, nell’uso comune dei nostri giorni queste forme, soprattutto più eccellente, sono da evitare.

Relativamente a infimo, il quesito posto all’Accademia va proprio a toccare il nodo problematico: può essere considerato aggettivo di grado positivo, e quindi avere il superlativo relativo il più infimo? Infimo appartiene al gruppo di superlativi organici di derivazione latina, da infimus superlativo di inferus ‘che sta sotto’ (gli Inferi!): un superlativo ‘fossile’, privo, in italiano, del grado positivo corrispondente, il cui significato proprio originario è ‘che si trova nel punto più basso’: “Dall’infima lacuna / dell’universo infin qui ha vedute / le vite spiritali ad una ad una” (Dante, Paradiso, c. XXXIII, vv. 22-24). Ma, come accade per forme come queste, l’uso affermatosi e comune nell’italiano non è tanto quello spaziale originario, quanto quello esteso e astratto, riferito a qualità materiale o morale, come ben sottolinea Serianni nella sua grammatica:

Per la mancanza di un grado positivo a cui fare riferimento, molti di questi aggettivi hanno finito per perdere in tutto o in parte i tratti semantici del compar. di maggioranza e del superlativo […] Infimo, piuttosto che ‘ciò che sta sotto in massimo grado’, qualifica in senso traslato ciò che è ‘spregevole’, ‘vergognoso’, o ‘di pessima qualità’ (e che quindi sta «sotto» in una ideale scala di valori astratti). (Serianni 1988, V, 83)

E proprio la mancanza del grado positivo ne ha facilitato il comparativo più infimo e il superlativo il più infimo, in quanto quello che in origine era un superlativo (il comparativo organico corrispondente è inferiore) è sentito come aggettivo di grado positivo, come appunto rileva giustamente il lettore G. P. È lecito usarle? Zingarelli 2024 le registra nell’uso giustificandole proprio con questa motivazione: “L’aggettivo ‘infimo’ deriva da un superlativo latino, ma nella lingua italiana è talora percepito come aggettivo di grado positivo; perciò la forma ‘più infimo’ è spesso usata: il gradino più infimo della scala sociale;  nel più infimo cittadino di Roma (V. Alfieri)”, e le attestazioni letterarie non sono certo poche. Dagli elementi raccolti emerge che la liceità della forma più infimo, che a qualcuno può suonare contraddittoria e quasi cacofonica, è difficile da negare.

Un altro aggettivo, infine, il cui significato è difficilmente intensificabile è eccessivo: alcuni quesiti dei lettori riguardano la possibilità di premettervi avverbi aumentativi, come molto e troppo. L’accostamento di molto e troppo a eccessivo crea una ridondanza semantica poco opportuna, e riteniamo sia da sconsigliare: rari, infatti, gli esempi dell’uno e dell’altro costrutto nella lingua della letteratura lungo i secoli (“Laonde, venute le cose sue in riputazione e pregio grandissimo, cominciarono i mercanti a fare incetta di quelle, et a mandarle fuori in diversi paesi, con utile e guadagno loro molto eccessivo”, Giorgio Vasari, Vite dei più eccellenti Pittori, Scultori e Architetti, 1568; “È molto temperata d’aria, non vi essendo caldo, né freddo troppo eccessivo”, Tomaso Porcacchi, Le isole più famose del mondo, 1620), mentre nell’uso odierno, possiamo dire trascurato, sia parlato sia scritto, sembrano avere una certa presenza, come mostrano i non pochi esempi reperiti in rete. Consigliamo, piuttosto, se si vuole in qualche modo sottolineare la valutazione soggettiva dell’eccesso, di premettervi un avverbio meno esplicito nella valenza quantitativa come davvero: il caldo, quest’estate, è stato davvero eccessivo. Nessuna indicazione contraria, invece, per l’espressione un po’ eccessivo, che non contiene alcuna ridondanza.

Ilaria Bonomi

17 gennaio 2024


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