Diversi lettori aspettano chiarimenti sul significato e sul corretto uso delle locuzioni latine pro tempore e in illo tempore.
L’italiano è una lingua farcita di latino.(Gian Luigi Beccaria, Sicuterat. Il latino di chi non lo sa:
Bibbia e liturgia nell’italiano e nei dialetti,
nuova ed. ampliata, Milano, Garzanti, 2001, p. 11)
Dal latino, di cui è continuazione, la nostra lingua ha derivato buona parte del suo lessico: parole comuni, quotidiane (spesso arrivate per tradizione diretta) e voci dotte, specialistiche (recuperate per via cólta). Non solo, ma, intessute nella trama del vocabolario, parole e locuzioni latine nella loro forma originaria, latinismi cioè non adattati, proseguono la loro millenaria vita nell’italiano: talora quasi inavvertitamente, tanto la loro origine lontana è sbiadita, altre volte percepite invece come chiare citazioni.
Pro tempore
La locuzione, lett. ‘per (prep. pro) il tempo (tempore, ablativo di tempus)’, che nel latino classico ha il significato di ‘secondo il momento, le circostanze’, viene utilizzata nel linguaggio giuridico e amministrativo in riferimento a una carica o funzione per indicarne la vigenza: l’espressione “sindaco [direttore, presidente, ecc.] pro tempore” designa il sindaco ‘in carica’, ‘in quel dato momento’, ‘dell’epoca’; “esercitare pro tempore una funzione” significa svolgerla ‘in quel tempo’ a cui si riferiscono i fatti espressi nell’atto.
Un tecnicismo giuridico, dunque, che si riferisce a chi appunto ‘in un dato periodo’ occupa una certa carica o riveste un ufficio, suggerendone implicitamente la durata non definitiva (a vita), ma nel tempo stabilito dagli organi elettivi istituzionali previsti dalla legge; una formula del latino del diritto, che pure, in un’epoca lontana, ha trovato un perfetto equivalente nel volgare italiano, precisamente nel lessico degli statuti due-trecenteschi, spesso redatti originariamente in latino e poi tradotti, o, in rari casi, concepiti e scritti dapprima in volgare. Per esempio, all’interno del Breve di Montieri del 1219, il più antico statuto in volgare, leggiamo:
Tutti quell’omini ke a questo breve iurano sì iurano di guardare e di salvare tutti quell’omini ke in questa compagnia saranno per temporale, nominata mente loro persone e loro avere, se non fusse per sé difendendo, e non essare in consilio nè in facto nè in ordinamento cun alcuna persona ke ricevano danno nè in avere nè in persona. (cit. in Piero Fiorelli, La lingua del diritto e dell’amministrazione, [1994], in Id., Intorno alle parole del diritto, Milano, Giuffrè, 2008, p. 16)
Si tratta probabilmente di una minuta, in attesa di una trasposizione in latino, dove quel per temporale, scrive Piero Fiorelli, è traccia proprio del “latinissimo pro tempore, come anche il notaio di Montieri pensava senza scriverlo”. Lo stesso Fiorelli afferma:
Una locuzione come pro tempore, quando ricorreva nei vecchi statuti composti in doppia versione [latina e volgare], era tradotta di solito per li tempi o per lo tempo, se non pure, più bruscamente, allora: “i consoli che allora saranno” o “che fossono per li tempi” sono quelli “pro tempore existentes” o “qui pro tempore fuerint”; ora si preferisce lasciare anche in italiano la forma latina, per esempio “il cancelliere pro tempore”. (P. Fiorelli, L’italiano giuridico dal latinismo al tecnicismo, [1998], ivi, p. 102)
Una formula, per temporale (o per lo tempo), ben radicata e documentata (che sarebbe stata registrata poi da Giulio Rezasco nel Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo [Firenze, Le Monnier, 1881], l’unico dizionario giuridico italiano, costruito su fonti antiche). Più tardi, la formula volgare lascerà di nuovo il passo alla formula latina pro tempore, che permane ininterrottamente ancora oggi nelle scritture giuridico-amministrative. I volgarizzatori di alcuni statuti o leggi (così a Lucca nel 1539, a Genova nel 1576) avvertono i lettori di non aver tradotto alcuni termini legali, perché “non hanno volgare vocabolo che gli confaccia” e perché ormai in latino conosciuti e cristallizzati, quali sintetiche enunciazioni di principi e regole.
Così nel Cinquecento, appunto: “lassando la libera confirmatione di quelli [huomini] a noi o successori nostri pro tempore”; “la Abbadessa che serà pro tempore” (Gian Matteo Giberti, Constitutioni de le monache per la città et diocesi di Verona, utili anco alle altre città, Verona, Antonio Putelletto da Portese, 1539); oppure “el Viceré qui pro tempore serrà”; “[viceré o locotenente] quali al presente sono et pro tempore saranno” (Privilegij et capituli, con altre gratie concesse a la fidelissima cità de Napoli, et regno, Napoli, Giovanni Sultzbach, 1543).
La formula non si trova solo sulla penna di notai e giuristi, di amministrazioni e uffici: essa compare, fra l’altro, nel corso dell’Ottocento, in due contesti letterari che dei notai e degli uffici imitano lo stile e il lessico tecnico. Alessandro Manzoni, nell’Introduzione dei Promessi sposi (nelle edizioni del 1827 e del 1840), scrive, nell’invenzione dell’anonimo manoscritto secentesco: fra le terre dell’impero di Carlo V, a Milano “risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti”, con riferimento a don Gonzalo Fernández de Córdoba, governatore dello Stato di Milano negli anni 1626-1629; poi, sul finire del secolo, Federico De Roberto nei Viceré (1894) usa la locuzione all’interno del testamento di Teresa Uzeda, letto alla famiglia: “Cessando di vivere essa mia figlia, ordino che l’amministrazione resti affidata alla Madre Badessa, pro tempore, della prefata Badia, alla quale superiora intendo che resti conferita la facoltà di eleggere i sacerdoti celebranti, e non ad altri”.
Ma l’espresssione si incontra anche in un significato meno tecnico, quando si vuole indicare nel linguaggio comune una situazione temporale non definitiva. Questo valore emerge, fuor di diritto, per esempio nell’epistolario di Ugo Foscolo: “Ho ricevuto la tua quarta lettera in data 3 Agosto; nessun’altra nè a Baden nè qui [Berna]. Vero è che qui hanno il vezzo d’aprire le lettere; e sono certo che quelle arrivatemi oggi saranno state sequestrate pro tempore alla polizia” (lettera ad Andrea Calbo del 6 agosto 1816).
Un’altra spia di questa accezione spunta nel Vocabolario italiano della lingua parlata di Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani (Firenze, Barbera, 1875), s.v. economo: “economo spirituale, quel sacerdote che regge pro tempore una cura, o benefizio che sia vacante del titolare”.
E ancora Piero Fiorelli sottolinea, nelle medesime pagine già menzionate, che “i più dei dizionari moderni si dimenticano di quest’uso [giuridico], registrando pro tempore solo nel senso di ‘temporaneo, provvisorio’, o di ‘temporaneamente, provvisoriamente’, riferito a un incarico o a una concessione”.
Quasi tutti i dizionari moderni e contemporanei ripetono questa definizione, che provoca una distorsione del significato della formula, contaminandone il valore tecnico-giuridico: ne sottolinea il carattere di tempo limitato, determinato, talora provvisorio, anziché l’attualità, la vigenza, e tende ad avvicinarne, non correttamente, il senso a quello della locuzione ad interim, assai frequente in ambito politico, burocratico-amministrativo, mediato dal linguaggio giornalistico.
Ad interim (locuzione attestata dal XVII secolo, formata con la preposizione ad e il latino interim ‘frattanto, nel frattempo’) vale, difatti, ‘in maniera provvisoria, temporaneamente, momentaneamente’, “per il periodo di tempo che intercorre fra il momento in cui il titolare di determinate funzioni cessa la sua attività e il momento in cui il nuovo titolare assume le stesse funzioni” (Zingarelli 2024), ed è usata in generale in riferimento a qualunque situazione di conferimento temporaneo di cariche inerenti a un ufficio pubblico: per es. “ministro [ma anche: presidente, segretario, amministratore, ecc.] ad interim” è colui a cui vengono affidati temporaneamente competenze e incarichi di un determinato ufficio in assenza e nell’attesa del nuovo nominato; similmente “assumere, conferire un ministero, una carica ad interim”.
La valenza di pro tempore (per cui il soggetto riveste stabilmente una carica nei tempi istituzionali previsti) è dunque chiaramente diversa dalla straordinaria transitorietà che indica invece l’espressione ad interim.
Quanto alla grafia, si trovano anche attestate (in testi divulgativi, sui quotidiani o in disposizioni ufficiali) sia la forma con trattino (pro-tempore) sia la forma univerbata (protempore): la prima è senz’altro da evitare, nel rispetto della grafia latina originale. Qualche esitazione può sorgere nel caso dell’univerbazione (attestata sin dal XVII secolo), processo che unisce graficamente (e foneticamente) due parole, in origine separate, in un’unica parola, e che scaturisce dalla cristallizzazione di espressioni entrate nell’uso comune assimilate ai composti, quando il valore dei singoli elementi non è più percepito in modo netto e distinto. Spesso le due forme possono convivere nell’uso; nel nostro caso la grafia univerbata non sembra essersi diffusa abbastanza da attestarsi come pienamente corretta e accettata dalla norma (tra i repertori lessicografici, solo il dizionario di italiano Garzanti 2017 la riporta come variante), che vede prevalente la forma pro tempore.
Infine, come qualcuno si interroga, non è da mettere in contrapposizione temporale a pro tempore la locuzione latina eo tempore, per indicare chi “allora”, “in quel tempo” ricopriva un determinato incarico o esercitava un potere di rappresentanza, rispetto a chi lo ricopre o lo esercita “attualmente”, “in questo tempo” (per es. “ministro eo tempore / ministro pro tempore”). Dove appare in contesti italiani – i casi in verità non sono numerosi –, l’espressione eo tempore, ablativo di tempo determinato, non ha un valore tecnico giuridico, ma, inserita come elemento stilistico, indica più semplicemente l’istantaneità, il riferimento a un momento preciso in cui si svolgeva un incarico, una funzione o un’amministrazione, e non l’arco di tempo di durata di una carica determinato dal diritto, che esprime pro tempore.
In illo tempore
Propriamente ‘in (in) quel (illo, ablativo di ille) tempo (tempore, abl. di tempus), è l’espressione con la quale hanno inizio alcuni racconti evangelici, ripresa dal latino della Vulgata, denominazione con cui si indica la traduzione della Bibbia di San Girolamo, realizzata tra la fine del IV e l’inizio del V secolo.
La locuzione figurava negli evangeliari (o, meglio, negli evangelistari) che contenevano le pericopi, cioè i brani biblici destinati a essere recitati durante le sante messe, secondo il calendario liturgico, come formula introduttiva alle letture del Vangelo: In illo tempore o In illo tempore dixit Iesus discipulis suis…, così si declamava in latino, fino alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II (1965), e oggi, tradotta in italiano: “In quel tempo…”.
Il latino ecclesiastico in illo tempore ricalca fedelmente il greco en ekeíno tô kairô, in indicazioni cronologiche generiche che si leggono nei racconti della vita di Gesù (si trova in particolare in Matteo 11, 25; 12, 1; 14, 1) e nella storia dell’evangelizzazione (Atti degli Apostoli 12, 1; 19, 23 kat’ekeînon ton kairón / katà ton kairòn ekeînon).
L’espressione è passata in italiano (anche nella forma ablativa illo tempore, con cui si esprime l’indicazione temporale nel latino classico) a indicare scherzosamente un tempo molto lontano, ormai remoto, quasi dimenticato.
Attestata nell’uso in contesti italiani nel XVI secolo (lo Zingarelli 2024 la data al 1542), la formula liturgica latina compare nel commento alla prima traduzione a stampa del De architectura di Vitruvio da parte di Cesare Cesariano (1521): “queste cose astronomice che qua Vitruvio describe: quale erano da li vetusti astrologi et architecti usate in illo tempore”; nei capovolgimenti parodici di Pietro Aretino, nel Dialogo in cui la Nanna insegna alla figlia Pippa le arti seduttive e il mestiere della prostituta (1536): “uno di quei Todeschi vestiti da prelato, con la mitera in capo, suso una mula in illo tempore”; nella disputa letteraria con l’Aretino di Giovanni Alberto Albicante, Abbattimento poetico del divino Aretino (1540): “et spero vi risponderà, come egli fece in illo tempore, quando la fortuna gli accrebbe il nome”; nella commedia di Lodovico Dolce Il ragazzo (1541): “Absit il sospetto. Benché essendo questa in illo tempore stata calumnia di Cicerone, non te la doveresti prendere a verecundia tu, se io l’attribuissi a te”.
L’uso del latinismo liturgico in illo tempore (lo si trova nell’Ottocento anche nelle poesie di Giuseppe Giusti e nelle lettere di Alessandro Manzoni) è così commentato nel Tommaseo-Bellini (vol. II, pt. II, 1869), alla voce illo: “pronome pretto latino, che gl’Italiani, anco ignari di latino, usano familiarmente, come per celia, nella locuzione in illo tempore, dal cominciar che fa la lettura del Vangelo il prete nella Messa; e lo dicono di tempo iperbolicamente più o meno lontano […]. Ma meno lontano che in diebus illis, che intendesi recare a remota antichità, quando non sia per iperbole di celia”.
Riguardo a in diebus illis ‘in quei giorni’, il riferimento è all’espressione tardo-latina usata nei Vangeli (Marco 1, 9; 8, 1; 13, 24, in greco en ekeínais taîs hemérais; Luca 2, 1 en taîs hemérais ekeínais; frequente nell’Antico Testamento), da cui deriva busillis ‘punto difficile, problema, difficoltà’, deformazione formale e semantica a livello popolare e dialettale, scaturita da un’errata suddivisione delle sillabe delle parole (in die busillis): parola inesistente, quindi enigmatica.
Significato analogo a (in) illo tempore ha la locuzione con i due elementi al plurale, (in) illis temporibus, con la variante temporibus illis, ‘in quei tempi’, che allude in senso scherzoso o con tono enfatico a un’epoca lontanissima, indeterminata e quasi mitica, col valore di ‘tanto tempo fa’, ‘una volta’, ‘antichissimamente’.
Qualche esempio ricorre in alcune opere letterarie del Novecento: Giovanni Faldella, Nemesi o Donna Folgore (composta tra 1906 e 1909, e pubblicata postuma nel 1974): “In illis temporibus egli [Rinaldo Fromboliè] pure si era innamorato di tota Nerina e della Contessa De Ritz”; Carlo Emilio Gadda, Saggezza e follia (1950, poi edita nelle Novelle dal Ducato in fiamme, 1953): “una signora [Eulalia], della quale tanto lui [Prosdocimo] quanto Eucarpio erano stati, illis temporibus, cioè sui banchi del ginnasio, ammiratori giovinetti”; l’espressione è attestata anche in altre due opere di Gadda, Emilio e Narcisso (1950) e in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957).
Non appropriata o meno appropriata, è, da ultimo, per indicare un passato lontano, la locuzione ab illo tempore, che va tradotta ‘da (ab) tanto tempo’, ‘da quel tempo’, ‘molto tempo fa’, utilizzabile più opportunamente per evidenziare l’inizio di un’azione o di un evento accaduto in tempi ormai molto distanti.
Le espressioni esaminate rimandano, con lievi differenti sfumature, a un’età lontana, indefinita e quasi immemorabile, forse, con una vena di rimpianto, più felice del presente, migliore di quella in cui viviamo, o invece ironicamente a cose vecchie e superate; in ogni caso a un passato remoto, ormai perduto, a un tempo che non c’è più.
Molte altre espressioni del latino cristiano, ecclesiastico e liturgico si sono diffuse nel tempo nell’italiano scritto e parlato: voci bibliche e formule di fede, reiterate nelle celebrazioni rituali, sedimentate nella memoria dei fedeli, della popolazione, anche delle persone meno colte, attraverso l’assidua pratica religiosa, dal luogo sacro della preghiera si sono riversate nel linguaggio familiare e colloquiale, e anche nel dialetto, come proverbi, metafore, intercalari (come per es. nel caso del credo religioso e del passio, il racconto evangelico della passione di Gesù): talvolta incomprese e perciò storpiate o deformate, voltate in chiave ironica e scherzosa; in alcuni casi poi, divenuta opaca la semantica, allentato il legame con il latino, non più immediatamente comprensibili, rarefatte nell’uso, ma non dismesse.
Mariella Canzani
26 agosto 2024
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