Qual è l’uso e lo status di mo in rapporto a ora/adesso?
Tre avverbi per un solo concetto: ‘in questo momento’
L’italiano è una lingua che si caratterizza perché per molti concetti, anche di significato generale, dispone di più forme concorrenti, la cui distribuzione è cambiata nel corso del tempo e varia tuttora a seconda dello spazio (in rapporto alle diverse aree geografiche), del modo della comunicazione (parlata o scritta), della situazione comunicativa, ecc. Per esprimere il concetto di ‘in questo momento’ fin dal Medioevo, in sostituzione del latino NUNC, che non si è conservato in nessuna lingua romanza, si ebbero vari esiti nella nostra penisola: i tre più importanti, diffusi, con molte varianti, nei principali dialetti italiani, sono gli avverbi ora, adesso e mo. Sebbene la loro distribuzione sia particolarmente complessa, si può dire in generale che ora (dal latino (H)ŌRĀ o (H)Ā (H)ŌRĀ) è la forma tipica della Toscana (ma è diffuso anche in Sicilia), mentre adesso (dalla locuzione latina AD ĬPSU(M) [TEMPUS]) è proprio soprattutto dell’area settentrionale, e mo (o mo’, derivato dal latino MŎDO o *MŌDO) è presente tanto al Nord quanto, soprattutto, al Sud. Nell’uso orale, ma anche in molti esempi letterari, antichi e moderni, questi avverbi si combinano tra loro (adesso mo, ora mo, mo ora).
L’alternanza dei tre avverbi non resta però confinata a livello dialettale, perché tutti e tre vanno considerati italiani: sono infatti registrati tanto nei dizionari storici, quanto in quelli sincronici. Tuttavia, il loro status appare un po’ diverso: tanto ora quanto adesso sono stati accolti dall’italiano standard, si trovano entrambi nello scritto e convivono oggi un po’ dappertutto (sebbene la loro distribuzione e la loro frequenza nelle diverse regioni non sia sempre la stessa e ricalchi la soggiacente realtà dialettale). Qualche esempio recente: il prete “di strada” Andrea Gallo nel 2011 ha intitolato un suo libro “Se non ora adesso”, riprendendo polifonicamente il titolo del romanzo di Primo Levi “Se non ora, quando?”, titolo già riutilizzato in precedenza in una manifestazione politica femminile, nel corso della quale alla domanda si rispondeva appunto con “adesso”. Invece mo suona come regionale o addirittura dialettale e se ne trovano raramente tracce in testi scritti di oggi (come, per es., nel titolo del settimanale politico “Mo’ che il tempo s’avvicina”, pubblicato a Napoli nel biennio 1971-72 e nel quale c’era insieme il riecheggiamento di un verso di una canzone operaia e una sottolineatura, anche linguistica, dell’orientamento meridionalistico del periodico). In effetti, alcuni dizionari registrano, sì, anche mo, ma lo indicano come regionale oppure come antico. Analoghe posizioni sono espresse nella Grammatica di Serianni, che registra tra gli avverbi di tempo soltanto ora, ma rileva:
Nell’uso italiano attuale ora è sinonimo di adesso; mo (o mo’) si ha solo nei dialetti.
Adesso in epoca antica aveva il triplice senso di ‘sùbito’, ‘sempre’, ‘ora’. La sua presenza nel lessico della poesia toscana dei primi secoli sarà dovuta all’influsso dei poeti siciliani, dove è attestato con il senso di ‘sùbito’ in accordo col provenzale ades […]. Già nel Cinquecento il grammatico vicentino Giovan Giorgio Trissino qualificò adesso per ‘ora’ come voce non fiorentina e il Manzoni lo sostituì poi quasi sempre con ora nelle correzioni ai Promessi Sposi.
Mo ‘ora’, ‘or ora’, ‘tra poco’, pur non essendo di schietta origine fiorentina, ha avuto una certa fortuna nella lingua letteraria, e si trova spesso in Dante […]. Vive nei dialetti del Centromeridione e in Lombardia (dove è attestato sin da epoca antica).
Nei testi due-trecenteschi ora e mo hanno una presenza molto maggiore rispetto ad adesso, che nelle Tre Corone risulta d’uso assai marginale. È vero che Dante, nella Commedia, usò tutte e tre gli avverbi, come dimostrano i passi seguenti, che sono riportati per esemplificare le tre voci nella prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612):
O gente, in cui fervore acuto adesso / Ricompie forse negligenza, e ’ndugio (Pg. 18, 106).
Non hanno in altro cielo i loro scanni, Che quegli spirti, che mo t’appariro (Pd. 4, 32).
Ordirai tu, che ’l si dimostra tetro (Pd. 2, 91).
Mentre però le attestazioni di ora (anche apocopato in or, come nell’esempio appena citato) sono numerosissime, quelle di mo sono molto meno frequenti (a volte l’avverbio è usato dal poeta dopo pur, nel senso di ‘poco fa’: “Verdi come fogliette pur mo nate”, Pg. 8, 28) e quelle di adesso sono rarissime. Anche Petrarca e Boccaccio usano sistematicamente e quasi esclusivamente ora, che infatti, come si è detto, è la forma più genuinamente toscana (e fiorentina in particolare). Ancora nell’Ottocento Manzoni, nel processo correttorio per l’edizione definitiva (la “quarantana”) dei Promessi Sposi, accorda la preferenza a ora: le occorrenze di adesso si riducono dalle 67 dell’edizione precedente (la “ventisettana”) a 12 e non si ha più traccia di mo, che era attestato 46 volte e che peraltro non viene sostituito sempre da ora, ma a volte è rimpiazzato da altre congiunzioni (ma, poi), a volte cade semplicemente, come nei passi seguenti:
Mo via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto? > Ma via […](cap. II).
- Diavolo! il nome mo, come hanno fatto? > - Diavolo! il nome poi, come hanno fatto? (cap. XV).
Questa mo la mi spiace > Questa la mi dispiace (cap. XXXIII).
Ma prima delle scelte di Manzoni, le grammatiche italiane, grazie alle pur scarse presenze nelle Tre Corone, non condannarono l’uso di mo e adesso, che continuarono a essere usati, specie al di fuori della Toscana. Tuttavia, mo in area settentrionale iniziò ben presto a essere usato prevalentemente come connettivo avversativo-testuale, particolarmente frequente ad apertura di frasi interrogative o prima di verbi all’imperativo (“Mo sentite?”; “Mo’ vediamo un po’”; “Mo sta zitto!”), mentre adesso cominciò gradualmente a diffondersi, specie nei testi in prosa (forse favorito dalla sua maggiore “corposità” fonetica e dal fatto che ora poteva assumere anche, sul piano testuale, la funzione di semplice demarcativo, prendendo cioè il valore di ‘dunque’, ‘ebbene’).
Oggi adesso è diventato, probabilmente, la forma prevalente nel parlato, anche grazie al prestigio delle varietà settentrionali di italiano. Ora tuttavia resiste benissimo, sia nel parlato (e non solo in Toscana), sia soprattutto nello scritto. Invece mo risulta ancora vitale come avverbio temporale soltanto nel parlato di molte zone del Centro-Sud, in particolare a Roma (dove è pronunciato con la o chiusa) e a Napoli (dove invece la o è perlopiù aperta). È vero che anche molti parlanti di queste aree lo sentono come dialettale, ma la sua presenza si rileva pure all’interno di contesti in italiano (e pensiamo alla diffusione di espressioni come da mo ‘da tanto tempo’, ‘da quel dì’).
Nella lingua letteraria del pieno Novecento mo ha invece scarsissime attestazioni, quasi sempre nella sequenza pur mo ‘poco fa’ (che, come si è detto, è di ascendenza dantesca), fino a sparire completamente (tranne che nella narrativa che vuole riprodurre o simulare il parlato romano e meridionale). Non è escluso che a determinare il suo declino nello standard scritto abbia contribuito l’incertezza ortografica: accanto alle già ricordate forme mo e mo’ (quest’ultima, oltre tutto, omografa a quella del mo’ dell’espressione a mo’ di), si trovano infatti anche le grafie mò e mó e le grammatiche non forniscono indicazioni su quale sia la forma giusta. Nel dubbio, quindi, molti ritengono che sia meglio evitarne l’uso…
Per approfondimenti:
Paolo D’Achille e Domenico Proietti
Piazza delle lingue: La variazione linguistica
4 febbraio 2013
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