V. R. di Palermo, V. L. di Siracusa e G. R. della provincia di Modena ci scrivono chiedendoci se sia corretta l’espressione tutte cose in frasi del tipo: ho lavato tutte cose, vorrei fare tutte cose, ho comprato tutte cose, o se, invece, sia obbligatorio l’uso dell’articolo (tutte le cose).
Tutte cose
Tra gli aggettivi indefiniti (alcuni, molti, nessuno, ogni, qualche, ecc.), tutto è l’unica forma a richiedere di norma l’articolo (determinativo o indeterminativo) oppure un dimostrativo (questo, quello) interposto tra tutto (-a, -i, -e) e il sostantivo cui si riferisce: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale; è stata tutta una messinscena; ho letto tutti quei libri (non prenderò in considerazione, invece, i casi in cui tutto accompagna un aggettivo o un pronome, poiché non riguardano il quesito in questione).
Al singolare tutto (-a), usato come aggettivo, indica un’intera quantità, equivale a ‘tutto intero, tutta intera’, mentre al plurale, tutti (-e), usato come aggettivo, ha un valore collettivo, indica la totalità, equivale a ‘ogni’. Si noti la differenza tra: Pierino ha mangiato tutta la mela (= ‘la mela tutta intera’) e Pierino ha mangiato tutte le mele (= ‘ogni mela che c’era’).
Come si può vedere da questi esempi, l’aggettivo tutto ha una posizione particolare all’interno della frase: non si trova subito prima o subito dopo il nome cui si riferisce, come quasi tutti gli aggettivi, ma precede sia l’articolo sia il nome: tutta la città (tutte le città, tutta una città), e solo in casi particolari, in un italiano di registro alto, può seguire l’articolo e il sostantivo: la città tutta partecipa al dolore dei familiari delle vittime.
La combinazione “tutto + articolo determinativo o indeterminativo (o dimostrativo) + sostantivo” è, insomma, abituale in italiano, tranne in alcuni casi:
1. Quando il sostantivo non richiede l’articolo: conosce tutta Roma, ha letto tutto Dante, ma ho girato tutta la Sicilia; è tutta una scusa, ma sono tutte scuse.
2. In certe espressioni cristallizzate che hanno un valore avverbiale: tuttora, tuttafiata, tuttodì, in tutta coscienza, di tutto cuore, di tutto punto, a tutta birra, a tutta velocità, ecc.
3. Quando tutto ha una funzione avverbiale: Maria è tutta intelligenza; Mario è tutto muscoli; il sapore risultava tutto aglio e cipolle.
4. Inoltre, quando precede un numerale (a parte uno), tutto si unisce a esso mediante la congiunzione e, ma l’articolo precede comunque il nome: tutte e cinque le dita.
Nell’italiano antico, però, tutto, aggettivo, poteva fare spesso a meno dell’articolo: «Radicie di tutto male è avarisia» (sec. XIII, Guittone, Lettere). E il Dizionario della lingua italiana (1865-79) di Tommaseo e Bellini, s. v. tutto (§6), coglie questa differenza tra l’uso o meno dell’articolo:
Tutto senza l’art., congiunto al sost., è esso quasi un articolo indicante universalità collettiva. Tutto con l’art., è agg. indicante l’interezza della cosa quanto alle parti che la compongono. Quando l’Allighieri dice «Il dilettoso monte Ch’è principio e cagion di tutta gioia», intende ogni specie di gioia, l’universalità della gioia; e dice ben più che Tutte le gioie e Ogni gioia: giacché questi modi denotano le gioie considerate ciascuna da sé, o anco tutte insieme, ma non nel grado supremo e in forma assoluta.
Tuttavia, già nel Seicento, il grammatico fiorentino Benedetto Buonmattei, nel trattato Della lingua toscana, avvertiva i suoi lettori che: «Si può aggiungere anche quest’altra regola di dar l’articolo a tutti que’ nomi, che vengon dopo tutto, tutta», giudicando l’omissione dell’articolo un «modo antico» e desueto. E l’articolo sembra ormai “d’obbligo” nell’Ottocento: «Tutto, nell’uso moderno, richiede per regola generale che il nome a cui precede o segue, sia accompagnato dall’articolo», anche se «Anticamente si ometteva spesso l’articolo» (Fornaciari, Grammatica italiana dell’uso moderno, 1879).
Fatta questa premessa ed entrando nello specifico del quesito che ci pongono i nostri utenti, va subito detto che la locuzione tutte cose – priva dell’articolo (o del dimostrativo), utilizzata in frasi come «ho lavato tutte cose; vorrei fare tutte cose; ho comprato tutte cose» (cioè ‘tutto, tutto quanto’) – risulta un po’ insolita nell’italiano comune, a meno che non sia seguita da un aggettivo: ho comprato tutte cose utili, o da una proposizione relativa: ho mangiato tutte cose che fanno bene.
Negli scrittori antichi fino al Cinquecento, però, si trova spesso adoperato tutte cose, anche nei casi in cui l’italiano di oggi prevederebbe l’uso obbligatorio dell’articolo, e qualche sopravvivenza di questa particolarità sintattica si riscontra nella lingua poetica fino all’Ottocento: «e involve / tutte cose l’obblio nella sua notte» (Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 17-18).
Inoltre, si trovano anche esempi assimilabili a quelli suggeriti dai nostri utenti, dove, cioè, prevale un uso avverbiale (vedi più su, al punto 2), indefinito, del sintagma tutte cose, che si usa in sostituzione del pronome tutto, di tutto quanto o di ogni cosa. Così scrive, ad esempio, il “maestro” di Dante, Brunetto Latini: «conduceano lor vita in modo di fiere, e facea ciascuno quasi tutte cose [‘tutto, tutto quanto’] per forza di corpo e non per ragione d’animo» (c. 1260-61, Rettorica); Cecco Angiolieri: «Di tutte cose mi sento fornito» (sonetto di fine sec. XIII); Matteo Villani: «affermando che sopra tutte cose [‘soprattutto’] desiderava d’essere in grazia de’ suoi maggiori» (1348-63, Cronica); il Boccaccio: «Essi l’avrebber per donna e onorerebbonla in tutte cose [‘in tutto, completamente’] sì come donna» (c. 1370, Decameron). E va notato che nella prima impressione del Vocabolario della Crusca (1612) si definisce la voce carestia come «mancamento di tutte cose».
Quest’uso di tutte cose, però, non era solo letterario, ma si ritrova anche in testi di carattere popolare e in diversi dialetti. In piemontese, ad esempio, troviamo frasi del tipo: tute còse a ciamo na rason ‘ogni cosa richiede una ragione’, e nel milanese il fenomeno dell’assenza dell’articolo è riconoscibile nell’espressione tuscos (o tusscoss) ‘tutto’, attestata fin dal ’600: «vorrevv fà tuscos a on bott» (Maggi, Rime), e ancora nell’800: «lassèm pür andà tüsscoss al diavol che l’è mej» (Fogazzaro, Piccolo mondo antico).
Tale uso è diffuso anche nei dialetti meridionali. In napoletano: «a tutte cose nc’è lo remedio» (1768, Cerlone, Il commediante onorato); ed ecco un esempio contemporaneo: «Avimme scassato tutte cose gridano nel comitato de Magistris». Nel dialetto partenopeo, inoltre, tutte cose, quando è usato in funzione di soggetto, richiede come predicato verbale la terza persona singolare, comportandosi sostanzialmente come il pronome tutto: «Va buo’ papà... Ccà è fernuto tutte cose...» (De Filippo, Napoli milionaria), distinguendosi così dall’espressione pure napoletana tutt’ ’e ccose, con articolo, letteralmente ‘tutte le cose’, che è riconoscibile all’ascolto perché pronunciata con la c di cose rafforzata («Tutt’ ’e ccose ’e Maria Rosa, songhe belle, songhe fresche», dice una canzone di Totò cantata da Claudio Villa) e anche perché richiede come predicato verbale la terza persona plurale («Tutt’ ’e ccose [...] songhe belle, songhe fresche» ‘sono belle, sono fresche’). In siciliano antico: «certamenti pussedi issu tutti cosi» (1321-37, Libru di Valeriu Maximu translatatu in vulgar messinisi); ma anche nel siciliano contemporaneo sono in uso frasi come: fa-tutticosi iḍḍu ‘fa tutto lui’, cû tièmpu pàssanu tutticosi ‘col tempo tutto passa’.
Ma, mentre nei dialetti tale espressione è rimasta sempre viva dai secoli passati fino a oggi, nella lingua letteraria e nell’italiano comune essa ha cominciato a uscire di scena in epoca moderna, tant’è che nel corso dell’Ottocento si fa sempre più rara e viene definitivamente emarginata dai grammatici e dall’uso scolastico. La sua emarginazione fu dovuta, probabilmente, alla sua somiglianza con la parallela formula del francese toutes choses: è possibile, infatti, che i grammatici (puristi) ottocenteschi vi abbiano sentito risuonar dietro l’eco della lingua straniera da evitare.
Ecco perché al Nord l’uso di tute cose, tusscoss per ‘tutto, ogni cosa’ è rimasto confinato nei dialetti e non è penetrato nell’italiano regionale settentrionale, che, a differenza di quello meridionale, nelle sue strutture grammaticali risente di più dell’italiano comune. Questo è accaduto, probabilmente, perché la scolarizzazione popolare – che comporta anche l’insegnamento grammaticale dell’italiano – ha interessato maggiormente e più precocemente le regioni del Nord rispetto alle regioni del Mezzogiorno, nelle quali, invece, la scolarizzazione ha avuto minor effetto e la resistenza dei dialetti (anche per reazione al processo unitario) è stata maggiore in ogni strato della popolazione.
E dato che l’italiano regionale meridionale risente di più dell’influenza dei dialetti sottostanti, al Sud quest’uso dialettale di tutte cose è emerso senza alcun problema nell’italiano regionale, non solo quello parlato ma anche quello che si trova ripreso in testi letterari, come dimostra l’uso che ne fa la Morante ne L’isola di Arturo (dove utilizza una varietà napoletana di italiano): «tutto pagato dal Comune: i cavalli, la corona e tutte cose». Da qui l’espressione ha cominciato a far capolino anche nella lingua comune, dove, però, è sentita ancora come un marcato meridionalismo.
Di conseguenza, frasi come quelle segnalate a mo’ di esempi dai nostri utenti («ho lavato tutte cose; vorrei fare tutte cose; ho comprato tutte cose») rientrano nei dialetti o nell’italiano regionale meridionale e sono sentite come meridionalismi quando vengono usate nella lingua comune, nella quale da tempo non si usa più tale espressione ellittica, che è stata sostituita da tutte le cose o, per i suoi valori avverbiali e indefiniti, da tutto o ogni cosa.
Per approfondimenti:
A cura di Antonio Vinciguerra
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
Piazza delle lingue: La variazione linguistica
11 febbraio 2013
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