Alcuni lettori ci chiedono perché il sostantivo attentato, nonostante etimologicamente indichi il solo tentativo di recare danno a qualcuno o a qualcosa, possa riferirsi a un crimine effettivamente realizzato.
Le domande poste dai nostri lettori riguardano tutte lo stesso dubbio: se è corretto indicare con attentato un’azione criminosa che ha effettivamente avuto un esito delittuoso, come ad esempio l’attentato a John Fitzgerald Kennedy o alle Torri Gemelle, che hanno visto rispettivamente la morte del presidente statunitense e il crollo dei suddetti edifici con moltissime vittime.
Cominciamo subito col dire che il sostantivo attentato è un esempio di conversione, ossia, in questo caso, il participio del verbo attentare ha subìto un processo di lessicalizzazione, che lo ha sganciato dalla sua funzione prevalentemente verbale (e poi aggettivale), rendendolo un sostantivo “autonomo”: esempi simili sono l’udito, l’abitato, ma anche l’affettato per indicare un salume tagliato a fette o l’allegato che spesso si acclude alle mail (cfr. D’Achille 2019, p. 134). Questo tipo di conversione, di solito, ma non sempre, può essere agevolato dall’ellissi del sostantivo a cui il participio passato, in qualità di aggettivo, si accompagna: il salume affettato > l’affettato. Nel nostro caso, possiamo ipotizzare un’ellissi definita da Staib (1989, p. 24) “arcilessematica”, perché il “sostantivo omesso, quale che esso sia [...], ha un valore semantico così generale, [...] da poter essere considerato un arcilessema” (Thornton 2004, p. 511): l’atto/gesto attentato > l’attentato.
Attentato deriva dal verbo attentare che proviene a sua volta dal latino adtemptāre > attemptāre, formato da ad- e dal verbo temptāre ‘tentare’ (l’Etimologico). Il significato primario del verbo latino attemptāre è ‘provare, saggiare, cercare di compiere un’azione’, che non è detto che si realizzi. Già in latino, però, lo stesso verbo aveva subìto un restringimento di significato, potendo indicare, per sineddoche, ‘assalire, attaccare’: dal significato originario di ‘tentare di ledere all’incolumità di qualcuno o qualcosa’ si è passati a quello che esclude qualsiasi possibilità di tentativo, e si concentra sulla sua realizzazione; quindi si è passati da un verbo più generico (che include il tentativo) a uno più specifico (un esempio analogo è costituito dal verbo cubāre, che, dal significato di ‘giacere’ è passato a quello di ‘covare’ in italiano, cfr. Dardano 2017, p. 159). Questo passaggio semantico è testimoniato in autori come Fedro, Tacito (riportiamo le citazioni del dizionario latino Bianchi-Bianchi-Lelli 1995: s.v. attentāre):
Curabo sentiat, quos attentarit (= attentaverit), ‘gli farò vedere io chi sono quelli che egli ha assalito’ (Fedro, Fabulae Aesopiae, 5,1)
quia (principem) vi attentantem reppulerat, ‘perché aveva respinto (il principe) che lo assaliva’ (Tacito, Ab excessu divi Augusti, XIII)
Grazie al dizionario di Du Cange (consultabile anche in rete) sappiamo, inoltre, che nella tarda latinità il sostantivo attemptatio, dal significato di ‘tentativo, prova’ era passato a quello di nefaria molitio ‘demolizione scellerata’ e anche scelus ‘delitto’, dunque azioni già compiute che semanticamente non rimandano al solo tentativo. Molto probabilmente, il significato di azione delittuosa è arrivato in italiano sia tramite il verbo lat. attemptare > it. attentare, che, come abbiamo visto, aveva assunto il significato, scevro da ogni riferimento al tentativo, di ‘assalire’, sia per influenza del latino tardo attemptatio, (nome femminile), che poteva indicare ‘delitto’.
È interessante vedere le testimonianze lessicografiche del sostantivo in questione: il GDLI riporta come significato disus[ato] quello di ‘tentativo’, non necessariamente vòlto a ledere l’incolumità di qualcuno o qualcosa, come dimostra la citazione più antica, che riportiamo di seguito (la citazione, come le altre tratte dal GDLI, è ampliata rispetto a quella del dizionario, e segue un’edizione differente):
Spintasi una donna tra la folla, gli tocca [a Gesù] il lembo della veste, per guarir del flusso del sangue, e in quel punto medesimo fluisce per quella dalle carne del Redentore, virtù che la sana. Ciò non ostante si dissimula il fatto; si domanda chi l’ha tocco; si dice essersi sentito uscire virtù d’addosso; colei vedendosi scoperta n’arrossisce, segue la confessione dell’attentato, e solamente dopo tutto questo rigiro di cose di manifesta il miracolo. (Lorenzo Magalotti [1637-1712], Lettera XI, in Delle opere di Lorenzo Magalotti, 2 voll., Milano, Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1806, vol. I, p. 212)
Il GRADIT riporta tra i significati di attentato quello più specifico, con accezione negativa, di ‘tentativo di recare danno a qualcuno o qualcosa con un atto violento’; il GDLI, invece, eliminando ogni accezione che faccia riferimento a ‘tentativo’ registra come primo significato quello di ‘misfatto, delitto’, dunque un atto illecito già compiuto e riuscito, non solo tentato. La prima attestazione riportata dal GDLI è del giurista e cardinale Giovan Battista De Luca (1614-1683) nel Compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale nelle cose più ricevute in pratica del 1673, come confermano il DELI e il GRADIT. Leggendo l’incipit del capitolo “Degli attentati; e dei loro effetti; e dei rimedj per rivocarli”, rileviamo, però, che la citazione del GDLI [1] segue una parte in cui il giurista si sofferma sul significato della parola attentato [2]:
[1] Che però, sebbene lo spoglio, ovvero il furto, particolarmente con qualche violenza, o l’offesa, o l’ingiuria, o la disobbedienza, o la ribellione, ed altre cose illecite, maggiormente quando seguano con qualche temerità, ovvero ardire con l’autorità privata, si dicano attentati, nondimeno ciò cammina nella suddetta larga significazione, ma non all’effetto del quale quivi si tratta, per il quale (come si è detto) vengono quelle innovazioni, le quali riguardino il disprezzo del giudice e del superiore, avanti il quale penda il giudizio, con il pregiudizio dell’altra parte collitigante, in quella cosa o ragione, sopra la quale sia la pendenza della lite. (Giovan Battista De Luca, Il dottor volgare ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale, 4 voll., Firenze, Tipi della Società Tipografica a spese dell’editore, 1843, vol. IV, p. 255)
[2] Questo vocabolo attentato, il quale deriva dalla parola attentare, nella sua larga significazione appresso i professori della lingua latina; ed anche dell’una e dell’altra legge, civile e canonica, si adatta ad ogni cosa, la quale sia mal fatta o tentata; però all’effetto di che quivi si tratta, significa solamente quella innovazione, la quale seguisse per uno de’ litiganti contro l’altro sopra la cosa, o la ragione, della quale si litiga, con un atto giudiziale, ovvero con l’autorità d’un altro giudice distinto da quello, avanti il quale sia la lite. (Ibidem)
Come leggiamo dai due brani, il termine attentato si può riferire a un’azione tentata ma anche a una “mal fatta” (quindi già compiuta) come una violenza, un’offesa, un’ingiuria o una disobbedienza.
Riportiamo di seguito anche altre due citazioni, rispettivamente del XVII e XVIII secolo (cfr. ancora GDLI):
La legge non si stende a discutere i desideri, ma gli attentati. E questi delitti sono tutti vergognosissimi [...]. (Paolo Segneri [1624-1694], La manna dell’anima, ovvero esercizio facile insieme, e fruttuoso per chi desidera in qualche modo attender all’orazione, in Id., Opere, 4 tomi, Venezia, Stamperia Baglioni, 1742, tomo I, p. 477)
Conosce il padre e intende, / che l’odio suo per sempre / si renderia coll’attentato indegno, / o vinto, o vincitor. (Pietro Metastasio [1698-1782], Il trionfo di Clelia, in Opere di Pietro Metastasio, tomo IX, Mantova, Co’ Tipi dell’Erede Pazzoni, 1817, p. 48)
Anche in questi casi attentato si riferisce a un’azione delittuosa dall’esito nefasto, non solo tentata. Sempre nel GDLI troviamo, inoltre, un terzo significato, che risulta essere proprio del linguaggio specialistico del diritto, registrato come “innovazione [nel diritto civile ‘cambiamento apportato a un bene economico (specie a un immobile) mediante modifiche o aggiunte’, cfr. GDLI] di fatto, tentata da una delle parti, pendente la lite (e vietato dalla legge)”, il quale trova le sue prime attestazioni in Lorenzo Lippi e nel giurista De Luca:
E se la parte intenta la lesione, / allora può condennarsi, avendo osato / di far causa pendente un attentato. (Lorenzo Lippi [1606-1665], Il Malmantile racquistato, Milano, Della Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1807, p. 280)
O pure, se tal sentenza si debba giustificare dagli atti col processo formale, attesoché il tutto dipende dalla distinzione, se vi siano o no gli oppositori, e gl’interessati, mentre non essendone, basteranno l’informazioni anche estragiudiziali, che il Vescovo abbia della verità, e per conseguenza l’atto si dice estragiudiziale, sicché non ammette l’appellazione sospensiva, ma se gli può dare l’esecuzione anche subito e durante il termine dato dalla legge ad appellare, senza che vi entri il difetto degli attentati. (Giovan Battista De Luca, Il dottor volgare ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale, nelle cose più ricevute in pratica, in Colonia, a spese di Modesto Fenzo Stampatore in Venezia, 1740, tomo IV, p. 465)
In questi esempi subentra l’idea dell’intenzionalità dell’azione, ma non della sua effettiva eventuale riuscita. Il GRADIT invece riporta l’accezione, anch’essa propria del lessico specialistico del diritto, di “reato contro l’incolumità o l’integrità di persone o cose perseguito dalla legge indipendentemente dal risultato voluto da chi lo commette”. È interessante la parte di definizione che cita “indipendentemente dal risultato voluto da chi lo commette” perché effettivamente il reato perseguito dalla legge italiana diventa tale in virtù dell’intenzionalità e non dell’effettiva riuscita dell’azione. Dunque potremmo dire che un attentato è un qualsiasi atto vòlto a ledere l’incolumità di qualcosa o qualcuno il quale può rimanere in fieri o non compiersi (come un attentato sventato dalla polizia), oppure può concludersi con un’azione delittuosa. Nel primo caso il significato rispecchia l’etimologia della parola (da tentare), nel secondo caso invece si è avuto un restringimento di significato, come avevamo già constatato a proposito del latino. Il codice penale italiano, infatti, punisce parimenti ma non con la stessa pena queste due tipologie di attentati, i quali rientrano nei cosiddetti “delitti di attentato, reati di pericolo e tentativo”; ossia tutti gli atti che rappresentano un pericolo per l’incolumità di persone e di cose, indipendentemente dalla loro riuscita, sono ugualmente perseguibili (con pene differenti) dalla legge:
I reati di pericolo concreto presuppongono quindi un giudizio di valutazione e di accertamento in concreto da parte del giudice, che dovrà verificarne la realizzazione anche se in via ipotetica seguendo un giudizio ex ante in ordine alla verifica della possibilità di aggressione/danno al bene giuridico tutelato. [...] La condizione di non essere al cospetto di un fatto materiale, estrinsecato nell’area della fenomenologia non deve indurre l’interprete a rifuggire da tale tipologia di tutela penale. [...] nello schema del fatto tipico dei reati di pericolo si ha la condotta della messa in pericolo che si caratterizza per essere offensiva e l’evento in senso giuridico del pericolo concreto. Cosa diversa avviene nel caso dei reati di pericolo astratto nei confronti dei quali non si richiede al giudice di compiere alcuna valutazione, essendo il pericolo un requisito che non appartiene all’area della tipicità del reato e che viene valutato direttamente in sede legislativa. (Francesca Fuscaldo, Delitti di attentato e tentativo di delitto a cospetto del principio di offensività, diritto.it, 30/4/2024)
Dei nove articoli del Codice penale italiano che contengono il termine attentato (artt. 241, 276, 280, 294, 295, 420, 432, 433, 565) ne riportiamo tre significativi:
Art. 276. Attentato contro il Presidente della Repubblica. Chiunque attenta alla vita alla incolumità o alla libertà personale del Presidente della Repubblica, è punito con l’ergastolo.
Art. 295. Attentato contro i Capi di Stati esteri. Chiunque nel territorio dello Stato attenta alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del capo di uno Stato estero è punito, nel caso di attentato alla vita, con la reclusione non inferiore a venti anni e, negli altri casi, con la reclusione non inferiore a quindici anni. Se dal fatto è derivata la morte del Capo dello Stato estero, il colpevole è punito con l’ergastolo, nel caso di attentato alla vita; negli altri casi è punito con l’ergastolo.
Art. 432. Attentati alla sicurezza dei trasporti. Chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, pone in pericolo la sicurezza dei pubblici trasporti per terra, per acqua o per aria, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Si applica la reclusione da tre mesi a due anni a chi lancia corpi contundenti o proiettili contro veicoli in movimento, destinati a pubblici trasporti per terra, per acqua o per aria. Se dal fatto deriva in disastro, la pena è della reclusione a tre a dieci anni. (Codice penale, Milano, Altalex/Wolters Kluwer, ediz. digitale 2024, pp. 37, 39, 59)
A livello penale si punisce l’effettiva presenza di un pericolo che può concretizzarsi in un tentativo tanto non riuscito, quanto riuscito e punibile in maniera differente (tranne nel caso dell’attentato al Presidente della Repubblica). Facendo un esempio in astratto, l’attentato a Cesare sarebbe stato perseguibile dalla legge anche se fosse avvenuto senza portare all’uccisione di Cesare (cioè se i responsabili lo avessero semplicemente assalito senza procurargli danni evidenti), sarebbe stato punibile nel caso in cui lo avessero ferito o, come è successo, ucciso. Sia che Cesare fosse stato solo assalito, sia che fosse stato ferito o ucciso, si potrebbe parlare di attentato.
Rientra all’interno delle tipologie giuridiche di attentato, l’attentato alla Costituzione, di cui può essere incriminato il Presidente della Repubblica, che indica ‘atteggiamento o atto vòlto a lèdere la Costituzione’.
Infine, il GRADIT riporta come significato quello figurato (e ancora più esteso) di ‘oltraggio, offesa’ riportando come esempi attentato alla morale, attentato alla libertà.
Concludiamo questa piccola trattazione con una considerazione che riguarda l’aspetto del verbo da cui deriva il sostantivo in questione: il verbo attentare rientra nella categoria dei verbi telici (Bertinetto 1986; Jezek 2011), ossia quei verbi caratterizzati da una finalità nell’azione (dal gr. τέλος, tèlos ‘scopo’, ‘fine’), che, nel nostro caso, è quella di ledere l’incolumità o l’integrità di persone o cose. La maggior parte di questi verbi prevede l’esplicitazione del fine dell’azione: ad es. preparare è un verbo telico perché ha bisogno dell’esplicitazione del fine, che si concretizza, in questo caso, nel complemento oggetto. Anche il verbo attentare ha bisogno di questa esplicitazione, che avviene, nel nostro caso, attraverso un complemento di svantaggio (con la preposizione a, simile al complemento di termine): non posso dire *il terrorista ha attentato senza specificare a chi/cosa abbia attentato. Stessa cosa per il sostantivo derivato per conversione: l’enunciato il terrorista ha fatto un attentato avrebbe senso solo se dal contesto precedente fosse desumibile a chi o a cosa lo abbia fatto, altrimenti andrebbe specificato. Esso mantiene in sé un certo grado di telicità proprio del verbo da cui deriva. Questa stessa telicità fa convergere tanto l’idea di intenzionalità quanto quella di concretizzazione dell’evento, e quindi, che l’azione porti o meno a un esito delittuoso, lo scopo era e rimane sempre lo stesso. Potremmo dire che è proprio la telicità del verbo, trasmessa al sostantivo, che ha agevolato il restringimento semantico di cui parlavamo.
Nota bibliografica:
Miriam Di Carlo
14 febbraio 2025
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