Sono arrivate numerose richieste di chiarimenti da parte di medici, psicologi, studenti o studiosi di medicina che si interrogano sullo statuto delle forme comorbidità e comorbilità nel lessico medico-specialistico italiano: qual è la forma italiana corretta? Sono entrambe ammissibili? Si tratta di sinonimi? Qual è la loro etimologia?
Comorbidità e comorbilità sono due forme lessicali – entrambe attestate negli usi linguistici medico-scientifici italiani, a volte anche in grafia non univerbata (cioè con il trattino) – usate dagli specialisti in maniera intercambiabile: negli stessi contesti, con gli stessi significati, per indicare quindi uno stesso concetto o grappolo di concetti. Questa oscillazione fra comorbidità e comorbilità negli usi specialistici si spiega, più che in termini di sinonimia, come compresenza nel vocabolario medico italiano attuale di forme alternative e concorrenti, in competizione fra di loro per designare sostanzialmente la stessa cosa. Si tratta, dunque, di un caso di instabilità terminologica, accentuata dall’alternanza con una terza forma, comorbosità, che, sebbene meno frequente – e probabilmente per questo non menzionata nelle domande – è tuttavia attestata e registrata.
Il concetto, così come il termine che lo designa, proviene dalla ricerca medica statunitense ed è stato introdotto in tempi relativamente recenti. Secondo la letteratura di settore, il primo a usare e definire il termine co-morbidity (poi univerbato in comorbidity) è stato l’epidemiologo americano Alvan R. Feinstein in un articolo pubblicato nel 1970 (The pre-therapeutic classification of co-morbidity in chronic disease, “Journal of Chronic Diseases”, Vol. 23, Issue 7, pp. 455-468). Il nuovo termine viene definito come “the existence or occurrence of any distinct additional entity during the clinical course of a patient who has the index disease under study”. Nasce così un termine nuovo per circoscrivere e indicare il fenomeno della compresenza di patologie diverse in uno stesso individuo o, più precisamente, il fenomeno per cui un paziente (per lo più anziano), che è in cura per una patologia (generalmente cronica), presenta anche un’altra o più malattie, non direttamente causate dalla prima, che condizionano la terapia, gli esiti della patologia principale, la qualità di vita del paziente, la durata di un eventuale ricovero in ospedale.
Alla comparsa del termine e della sua definizione originaria sono seguite discussioni teoriche, precisazioni, distinzioni e rideterminazioni, che spiegano le oscillazioni di significato (prima ancora che di significante), registrate in dizionari e repertori mono- e multilingui. In fase di non avvenuta stabilizzazione terminologica – e cioè prima che la comunità scientifica di riferimento arrivi a circoscrivere in maniera univoca il significato e a formalizzare una definizione esplicita e condivisa del termine – può succedere che uno stesso tecnicismo venga adoperato da autori diversi con accezioni non del tutto coincidenti o che per uno stesso concetto non esista una parola unica e/o di forma stabile.
Restando sul piano del significato, il termine inglese – e così pure i suoi traducenti italiani – prevede un doppio uso: in alcuni contesti, infatti, la parola indica il fenomeno in astratto della ‘compresenza di patologie’, in altri denota invece, per slittamento metonimico, la ‘malattia concomitante’.
Si vedano i seguenti esempi italiani in cui il tecnicismo viene usato con i diversi significati indicati e in cui si propone anche l’alternanza delle forme nella resa dell’inglese comorbidity.
In questo senso è utile considerare qualche dato epidemiologico elementare: in Toscana il 9% della popolazione ultra 65enne ha oggi almeno tre condizioni morbose croniche. L’attenzione al rapporto tra comorbidità ed età ci porta dunque alla semplice constatazione del suo incremento. Una o più gravi comorbidità si presentano nel 50% della popolazione oltre gli 85 anni (La medicina della complessità. BPCO e comorbidità, a cura di G.F. Gensini et alii, Firenze University Press 2010, p. 7);
Dagli anni ’80 numerosi studi hanno evidenziato come il paziente psoriasico sia gravato di numerose comorbilità, ovvero “condizioni mediche coesistenti con la patologia primaria” (G. Manna et alii, Le comorbilità nel paziente psoriasico: analisi di 203 pazienti, in “Bollettino della Società Medico Chirurgica di Pavia”, vol. 122, n. 3, 2009, pp. 415- 431);
Con l’avvento e la diffusione dei criteri nosografici del DSM, l’interesse per la comorbilità psichiatrica [...] ha ricevuto un impulso sorprendente. (G.B. Cassano, P. Pancheri et alii, Trattato italiano di psichiatria, II ed., 3 voll., Masson, 1999, p. 1442)
La nostra ipotesi è che le malattie infettive, in generale, possano interessare, con aspetti di co-morbosità, almeno un detenuto su 10, ovvero almeno 4.000 detenuti allo stato attuale. (Malati in carcere. Analisi dello stato di salute delle persone detenute, a cura di M. Esposito, Franco Angeli, 2007, pp. 151);
I trials, infatti, reclutano i casi da studiare secondo rigidi criteri che escludono in buona misura quei malati che per età, comorbosità, inaffidabilità nel seguire le cure, ecc. si incontrano invece così spesso nella pratica corrente (V. Cagli, La crisi della diagnosi. Cosa è mutato nel concetto e nelle procedure della diagnosi medica, Armando, 2007, p. 77).
A testimonianza della forte instabilità, peraltro, si registrano alternanze di forma addirittura nel testo di uno stesso autore (probabilmente dovute a refusi, ma ugualmente significative):
Quando parliamo di comorbidità è implicita la decisione su quale sia la morbidità e quali le comorbilità, il che è non solo arbitrario ma soggetto a cambiamenti nel corso di un ricovero, anche breve. (La medicina della complessità. BPCO e comorbidità, a cura di G.F. Gensini et alii, Firenze University Press 2010, p. 8).
Per quanto riguarda le attestazioni lessicografiche, fra i dizionari dell’uso, soltanto GRADIT 2007 registra il tecnicismo medico nella forma comorbidità e, in effetti, già Luca Serianni, in un articolo del 2003, segnalava l’assenza dai maggiori dizionari italiani contemporanei di questo tecnicismo, individuato nella forma comorbilità nel testo di presentazione dell’edizione italiana del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali).
Anche fra i dizionari specialistici e i repertori di termini medici, non tutti registrano il neologismo e quelli che lo registrano non convergono su un’unica forma. Comorbilità è la forma registrata nel Dizionario di Medicina Moderna (2007) e nel Dizionario medico italiano-inglese, inglese-italiano (2007) dove compare insieme a patologia concomitante. La banca dati terminologica multilingue dell’Unione europea IATE, oltre a comorbilità e patologia concomitante, propone anche comorbosità, assegnando alle tre forme lo stesso grado di affidabilità, sulla base di attestazioni giudicate autorevoli. Il termine proposto nella versione italiana del MeSH - Medical Subject Headings (tesauro di terminologia medica della National Library of Medicine) è, invece, comorbidità.
In generale, questa proliferazione di varianti formali nella traduzione italiana di comorbidity dipende da diversi ordini di fattori, che hanno a che fare con la stratificazione di significanti e significati nell’evoluzione storica del lessico medico e con i rapporti che esso intrattiene, da un lato, con la lingua comune e dall’altro con le lingue classiche e moderne che, in tempi e modi diversi, hanno funzionato e funzionano da fonte e modello per il rinnovamento neologico.
La struttura del termine inglese di partenza è quella di un derivato, co + morbid + ity, in cui il prefisso co- è aggiunto alla base lessicale morbidity, che a sua volta è composta dall'aggettivo morbid e dal suffisso -ity.
Le tre forme comorbidità,comorbilità e comorbosità sono, secondo la terminologia linguistica, calchi, cioè parole equivalenti che vengono formate riproducendo la struttura e il significato del termine straniero di riferimento, attraverso la combinazione di elementi già esistenti nella lingua d’arrivo.
Nella scelta di un traducente, il problema nasce in relazione alla base morbidity, il cui corrispettivo lessicale si presenta in italiano con tre forme distinte: morbosità, morbilità e morbidità. Si tratta di forme che sono diventate sostanzialmente equivalenti dal punto di vista semantico, ma che sono entrate nel vocabolario medico in tempi diversi, con diverse accezioni e motivazioni. Morbosità e morbilità sono due forme autoctone, mentre morbidità è un calco semantico dall’inglese. La matrice comune è la voce latina morbus ‘malattia’, da cui derivano in latino gli aggettivi morbidus e morbosus e, da quest’ultimo, il sostantivo morbositas di epoca postclassica.
Le tre voci morbosità, morbilità e morbidità hanno acquisito, per vie diverse e in tempi diversi, due accezioni tecniche prevalenti: 1) il significato medico generale di ‘condizione patologica, stato di malattia’ e 2) il significato statistico ed epidemiologico di ‘frequenza percentuale di una malattia all’interno di un gruppo’. Va detto che anche la voce morbidity è polisemica e possiede, nell’inglese medico, questo doppio significato.
Morbosità discende da morbositas e, con il primo significato (‘condizione morbosa, stato di malattia’), entra nella lingua italiana nella prima metà del XV secolo. In questa accezione la voce circola ancora nel corso dell’Ottocento, in ambito letterario e in ambito medico-scientifico. Nella lingua comune, invece, morbosità acquista un senso figurato che diventa predominante (la morbosità di una passione, di un sentimento). Anche nella lingua medica il primo significato diventa obsoleto: il termine subisce, infatti, una specializzazione e una rideterminazione semantica e acquisisce il secondo significato, sopra indicato, di indice statistico.
Secondo le attestazioni dei dizionari, la forma morbilità compare nel 1900, coniata a partire dalla radice morb- di morbo + -ilità, sul modello di natalità, mortalità e simili (GDLI, GRADIT, l'Etimologico e altri). Il termine presenta un’accezione iperspecialistica, riconducibile all’ambito della statistica e della medicina del lavoro, laddove – anche inserito nella locuzione quoziente / coefficiente di morbilità – indica il ‘rapporto fra il numero di giorni di assenza dal lavoro per malattia durante un periodo di tempo e il numero degli individui esposti al rischio di malattia’. Nella letteratura medica, però, le attestazioni di gran lunga prevalenti sono quelle in cui il termine ha lo stesso significato di morbosità nella seconda accezione statistico-epidemiologica (la sinonimia è esplicitamente segnalata da GRADIT e Vocabolario Treccani). In questa accezione peraltro morbilità finisce per diffondersi e sostituirsi, anche se non del tutto, a morbosità.
Morbidità infine è, come già anticipato, un calco semantico. L’inglese morbidity che funge da modello è un derivato di morbid, che è un latinismo, in quanto continuazione dell’aggettivo morbidus ‘malaticcio, malsano’. Nel passaggio dal latino all’italiano morbido subisce invece uno slittamento semantico: da ‘malaticcio, poco sano’ a ‘afflosciato, cedevole’ e, quindi, già dalla fine del ’200, ‘che ha consistenza molle, tenera al tatto, soffice’ (DELI). Morbidità da morbido è dunque in sé una parola italiana, per quanto obsoleta, letteraria e originariamente portatrice di significati legati appunto a quelli di morbido. Rifluendo però nel vocabolario medico italiano dall’inglese, il termine si modella sull’esempio di morbidity assumendone i significati tecnici.
Detto questo, in combinazione con il prefisso co- per formare il traducente di comorbidity, tutte e tre le basi disponibili assumono il significato di ‘condizione patologica’, riattualizzandolo.
Uno dei possibili motivi per cui la scelta di un traducente italiano di comorbidity è problematica e non uniforme potrebbe essere proprio il fatto che nessuna delle basi è del tutto trasparente cioè riconducibile con immediatezza al significato fondamentale di ‘malattia, condizione patologica’: questo significato è sostanzialmente recuperato a partire dall’inglese, tranne nel caso di morbosità che però ha il “difetto” di essere parola anche del lessico comune, usata con un significato figurato che risulta comunque fuorviante.
Nel rispondere alla domanda su quale sia la forma italiana “corretta” o “ammissibile”, bisogna inoltre dire che spesso non è l’etimologia a determinare il consolidarsi di una forma invece che di un’altra. Come sostiene Serianni (2005, p. 111) “un eventuale etimo infelice non ha nessuna rilevanza sull’uso attuale, [...] influenza e malaria indicano oggi senza margine d’incertezza – e quindi con piena funzionalità per le esigenze di un linguaggio scientifico – due specifiche malattie infettive, causate rispettivamente da un virus e da un parassita”, a dispetto appunto dell’etimologia.
I fattori che contribuiscono all’incremento della frequenza e quindi allo stabilizzarsi di una certa forma a scapito delle concorrenti possono essere diversi. Fra questi sicuramente gioca un ruolo importante la pressione dell’inglese come lingua della comunicazione scientifica internazionale e la conseguente tendenza a conformarsi sui modelli formali da essa predisposti. Se prevalesse questa tendenza, la forma destinata ad accreditarsi sarebbe comorbidità in quanto calco omonimico, basato cioè sulla somiglianza fonica. Se, invece, prevalesse l’esigenza di mantenere una continuità di forma con elementi già esistenti nel vocabolario medico italiano, il “candidato” destinato a vincere la competizione terminologica sarebbe probabilmente la forma comorbilità. La forma comorbosità, pure legittima, è la meno favorita essendo già la base in disuso o scarsamente usata.
Per avere un’idea sulla frequenza d’uso delle tre forme allo stato attuale, alcuni dati possono essere ricavati, sia pure in modo approssimativo, facendo una ricerca su Google libri. Il motore di ricerca lavora, infatti, su un corpus di testi, sicuramente parziale ed eterogeneo, ma in certa misura indicativo. La ricerca delle tre forme (il 6 maggio 2013) ha dato i seguenti risultati:
- comorbosità: 101 risultati,
- comorbilità: 9.670 risultati,
- comorbidità: 14.700 risultati.
Per concludere, è vero che dal punto di vista terminologico, la presenza di forme diverse per riferirsi ad uno stesso concetto è uno svantaggio all’interno di un dominio specialistico, perché può generare ambiguità e fraintendimenti nella comunicazione, così come è altrettanto vero che spetta alla comunità degli specialisti arrivare a un accordo sul significato e la forma di un termine tecnico, dal momento che un vocabolario settoriale non è mai solo una nomenclatura, ma una complessa rete di concetti e relative designazioni. Tuttavia, se prendiamo in considerazione lo scenario di una potenziale diffusione del termine oltre i confini della comunicazione fra specialisti, in contesti discorsivi più comuni, allora la forma comorbilità si prospetta come la più vantaggiosa: nella lingua comune, infatti, la sua base (morbilità), diversamente da quella delle forme concorrenti (morbidità e morbosità), è meno ambigua perché meno insidiata dalla possibile, istintiva sovrapposizione di altri, preesistenti e diffusi significati (morbido e morboso).
A cura di Maria Cristina Torchia
Redazione Consulenza Linguistica
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Per approfondimenti:
Piazza delle lingue: Lingua e saperi
17 maggio 2013
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