Un “delitto” contro la lingua?

Molti si interrogano se sono corrette espressioni come “il delitto di Yara Gambirasio”, “il delitto di Meredith”, ecc., che si leggono sui quotidiani e che soprattutto si sentono spessissimo alla televisione, nei numerosi spazi dedicati alla cronaca nera, in trasmissioni specifiche o all’interno di programmi-contenitore.

Risposta

 

Un “delitto” contro la lingua?

 

Non c’è dubbio che il significato originario di delitto, voce dotta, dal lat. delictu(m), part. pass. del verbo delinquere, è quello, documentato fin dal Duecento (cfr. TLIO), di ‘azione contraria alle leggi, alle norme di uno statuto o di una regola’; oppure quello, trecentesco, di ‘azione contraria alla norma morale o religiosa’. Il termine nel primo significato si è poi specializzato nel linguaggio giuridico (in cui si parla di delitti contro la persona, la proprietà, ecc.), mentre viene usato anche in senso generico nella lingua comune (rinunciare a un’occasione del genere sarebbe un delitto). Ma nel corso del tempo la parola ha sviluppato un significato più specifico, per indicare quello che si può considerare il delitto più grave, e cioè l’uccisione di una o più persone. Questo nuovo significato (registrato, per esempio, nel GRADIT) è l’unico possibile in espressioni, tutte novecentesche, come delitto passionale, delitto d’onore, delitto perfetto, ed è certo quello più frequente anche in collocazioni come commettere un delitto, compiere un delitto, scena del delitto (accanto a scena del crimine), ecc.

Naturalmente, la possibile restrizione di significato non dovrebbe comportare una sinonimia totale con assassinio, omicidio (o femminicidio, nel caso che la vittima sia una donna e l’uccisore un uomo) e simili. Questi termini infatti prevedono un “genitivo oggettivo”: il di introduce il nome della vittima (l’omicidio di Aldo Moro, l’assassinio di Trotsky, ecc.), tanto più perché il colpevole del misfatto potrebbe anche rimanere ignoto. Invece, il termine delitto richiederebbe un “genitivo soggettivo”: il di dovrebbe introdurre il nome del colpevole e non quello della vittima. Questo, in effetti, è l’uso più corretto, documentato in alcuni esempi letterari che ho tratto dal PTLLIN: «il delitto di Domanòv in Polonia aveva gettato un’ombra su tutto il popolo kazàk» (Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti, 1985); «Il delitto di Raskolnikov e quello di M., l’assassino di bambine del famoso film di Fritz Lang, non nascono da capricci, bensì da reali e straziate passioni» (Claudio Magris, Danubio, 1987); «Il vero delitto di Ipermnestra è il tradimento verso le sorelle, è il distaccarsi dell’Amazzone africana dalla sua tribù» (Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, 1989). Il nome della vittima, invece, andrebbe inserito senza la preposizione, come ogni tanto si trova (il delitto Scazzi) e come risulta anche in questo esempio giornalistico tratto dal Dia-CORIS: «il giudice per le indagini preliminari di Brescia Anna Di Martino ha archiviato la scorsa settimana l’inchiesta sul giudice Giangiacomo Della Torre, presidente del terzo processo d’appello per il delitto Calabresi, indagato per abuso d’ufficio» (Il Manifesto, 1997). Lo stesso PTLLIN ci offre però anche un esempio letterario di delitto di + nome della vittima: «Il delitto di Braunau, per usare le sue parole, non è altro che la fucilazione di quel disgraziato libraio, che aveva pubblicato libelli contro Bonaparte» (Alessandro Barbero, Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, 1996). È opportuno poi ricordare che non di rado capita di leggere esempi in cui di introduce il nome del luogo dove il crimine è avvenuto (il delitto di Perugia, il delitto di Avetrana, ecc.) e anche in questi casi delitto vale ‘omicidio’.

Che dire, allora, in conclusione? Che l’espressione delitto di + nome della vittima o luogo dell’omicidio costituisce un esempio di quelle che Tullio De Mauro (Dizionarietto delle parole del futuro, Roma-Bari, Laterza, 2006) ha chiamato neosemie, che nascono dall’uso approssimativo (tipico dei mass media) di termini non certo popolari, del significato dei quali non si ha una piena comprensione. Quando però usi del genere (abusi, secondo la tradizione puristica) si estendono e si generalizzano, è difficile contrastarli e anche i dizionari non possono che prenderne atto, registrando anche tali nuovi significati. Insomma, nel caso di delitto di ci sono buone ragioni per difendere l’uso tradizionale, senz’altro più corretto; va detto però che il nuovo uso si sta facendo strada e anzi c’è il rischio che, in un futuro non molto lontano, arrivi a far tramontare il primo: sembra difficile, infatti, che la preposizione di possa introdurre, a seconda dei casi, il nome del colpevole o quello della vittima, perché ciò potrebbe determinare confusioni, qualora non vengano in aiuto, per disambiguare, conoscenze enciclopediche o elementi contestuali o cotestuali. Va detto, inoltre, che l’identità della vittima è certa, mentre quella del colpevole no e anche questo sembra rafforzare la preferenza attuale per il genitivo oggettivo, almeno con riferimento a casi di cronaca nera non ancora risolti. Quando sono note entrambe le persone coinvolte, la soluzione potrebbe essere quella che si pratica quando si vogliono evitare due di consecutivi con valore diverso: come si dice la conquista della Gallia da parte di Cesare per evitare la conquista di Cesare (genitivo soggettivo) della Gallia (genitivo oggettivo), così si potrebbe dire il delitto di Luigi da parte dello zio. Ma anche in casi del genere (di cui peraltro non ho trovato esempi) sarebbe senz’altro preferibile parlare di omicidio, uccisione, assassinio e non di delitto.    

 

Paolo D’Achille

 

1 marzo 2016


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