Un dolce mal d’Africa: storia di bongo

R. N. ci scrive da Firenze "per avere informazioni circa l'origine del nome bongo usato dai fiorentini per indicare il dolce profiteroles". Essendo fiorentina lo ha sempre sentito usare senza far caso all'origine, ma trovandosi a offrire il dolce ad amici africani, si è chiesta se l'uso di questo termine per indicare un dolce ricoperto di cioccolato fondente, non potesse far riferimento alle persone di pelle nera.

Risposta

Un dolce mal d’Africa: storia di bongo

Quando, come e perché sia apparso in città per la prima volta, non possiamo dirlo con certezza. Quello che è certo è che quel dolce ottenuto dalla composizione, assicurata da una copiosa colata di cioccolato fuso, di bigné ripieni di panna montata o crema (i quali, al riparo di questa coltre, possono a loro volta essere sovrapposti in forma di cono più o meno pronunciato), a Firenze si chiama soltanto bòngo. Il fatto, cioè, che quella stessa prelibatezza possa essere individuata dal nome profiterole, o addirittura profiteroles (come vuole tra gli altri il Grande dizionario italiano dell'uso di De Mauro, che ritiene di dominio generalizzato "italiano comune" proprio la voce che esibisce la marca del plurale), a Firenze viene registrato con un misto di sorpresa e scetticismo: come se questo inatteso e sospetto francesismo potesse incrinare il rapporto di familiarità che i fiorentini intrattengono con questo dolce anche in virtù del suo nome buffo e colorito, ritenuto capace di esprimerne in modo quasi onomatopeico l'avvolgente pastosità.

Da parte sua il dolce fa parte a tal punto del pantheon riconosciuto e condiviso della golosità locale che gli abitanti dell'Impruneta, paese alle porte di Firenze, si sono recentemente stretti attorno ai propri pasticcieri per confezionare "il Bongo più grande del mondo", puntualmente documentato dalla rete con la consueta dovizia di immagini.

Allo stesso modo in cui riconoscono subito la propria intimità con il dolce, i fiorentini tendono a collegare il nome – immediatamente percepito come un africanismo – al colore marrone scuro prodotto dalla coltre di cioccolata che avvolge interamente la composizione di bigné. Bongo, insomma, viene subito sentito come nomignolo antonomastico degli abitanti del "continente nero", che verrebbe opportunamente assunto per indicare quello che a Firenze è, altrettanto per antonomasia, il "dolce nero".


Intuitivamente, tutto sembra procedere senza difficoltà. Ma se vogliamo andare oltre l'intuito, e ricostruire le tappe del percorso identificativo e denominativo, le cose sono tutt'altro che semplici. Perché, infatti, un dolce di cui fanno esperienza comune i palati di tutta la Penisola, solo a Firenze si chiama bongo? Ora, gli studiosi della lingua italiana sanno bene che nel nostro Paese la gastronomia propone, accanto alla ricchezza delle diverse tradizioni "regionali", un proliferare di denominazioni riconducibile al faticoso imporsi di un inventario comune nei settori più quotidiani dell'esperienza, tra cui la sfera alimentare entra di diritto. Da un lato abbiamo così le diverse cucine regionali accompagnate dal loro "irriducibile" lessico, dall'altro possiamo osservare spesso il diverso modo in cui, nelle diverse aree linguistiche, ci si riferisce allo stesso piatto: anche restando in Toscana, quella che a Firenze è la schiacciata, a Siena è il covaccino, e a Grosseto la schiaccia; se poi valichiamo l'Appennino si parlerà di focaccia, che invece in alcune aree del Meridione è chiamata addirittura pizza. Allo stesso modo, per passare dal salato al dolce, non c'è un termine unico, in Italia, per indicare quelli che in Toscana sono i cenci, e che altrove sono invece (magari accompagnati da diversi dettagli culinari) bugie, o chiacchiere, o strùffoli.
Per tornare al nostro dessert, c'è però da chiedersi come mai solo i fiorentini si oppongano al resto d'Italia – che, stando alla lessicografia, dice profiterole o profiteroles (ma l'effettiva pronuncia della -s è ben difficile da cogliere nel "parlato comune italiano") – nel prevedere una denominazione che, con il riferimento alla "negritudine", isola come elemento distintivo del dolce il suo color cioccolata. Anche perché, se ci pensiamo un momento, è un'usanza diffusa, cioè non solo fiorentina, chiamare affettuosamente cioccolatini i nativi dell'Africa. In questo caso, invece, solo Firenze coglie ed esprime il richiamo per così dire "visivo" 'cioccolata = Africa'. E infine: perché bongo viene usato con il valore di 'africano'?


Prima di tutto, bisogna dire che le complesse caratteristiche della sua preparazione, che oltretutto non prevedono l'uso di ingredienti tipici del territorio, non consentono di annoverare il nostro dolce tra i piatti tradizionali, preparati anche tra le mura domestiche (pensiamo, per contrasto, al castagnaccio: cfr. Lorenzi 1978). Dunque, si tratta di un tipico prodotto di pasticceria. Possiamo allora chiederci quando questo dolce ha preso piede nelle pasticcerie d'Italia, e quando a Firenze ha cominciato ad assumere il nome di bongo.
A quanto si rileva dalla consultazione dei vocabolari, il dolce che ci interessa comincia a circolare in Italia nei primi anni Sessanta: è Bruno Migliorini a registrare profiterole nella corposa Appendice di parole nuove che, nel 1963, accompagnerà la decima edizione del Dizionario moderno del Panzini (un lessico che a sua volta, a partire dai primi anni del secolo, registrava periodicamente le parole considerabili in via di acclimatamento nell'italiano dell'epoca). In Francia, dove il termine ha origine con il valore di ‘piccola indulgenza, gratificazione’ (da profiter 'approfittare'), il riferimento al prodotto dolciario è attestato già a metà del Cinquecento.
Va peraltro rilevato che Migliorini descrive il profiterole come "dolce leggiero riempito di crema e glassato di zucchero cotto": quello che, si direbbe, noi siamo abituati a chiamare bigné, e che per Migliorini non prevede l'apporto di cioccolato come copertura. Dunque, la prima attestazione italiana di profiterole sembra rimandare solo al singolo componente-base del dolce che oggi (con -s o meno) si chiama in quel modo: insomma, perlomeno ai suoi esordi, profiterole sembra entrare in concorrenza con il già acclimatato bigné, il cui uso, come deprecabile francesismo, veniva stigmatizzato nel Settecento dall'erudito veronese Scipione Maffei.
Del resto, profiterole, nel suo percorso di faticosa acclimatazione (ancora all'inizio degli anni Settanta più di un vocabolario italiano non lo prevede tra le sue pagine) troverà una sua precaria autonomia semantica proponendosi semmai come 'sorta di piccolo bigné da guarnizione'. Soltanto dalla fine degli anni Ottanta, di fatto, la lessicografia mostra un consolidamento della presenza nella lingua comune di profiterole(s), e del suo valore di 'dolce composto da bigné ricoperti di cioccolato', che a partire da questi anni si propone (specialmente quando esibisce la -s finale) come equivalente "italiano" del fiorentino bongo.


Che però, a Firenze, con ogni probabilità circola ormai da qualche tempo, e in totale autonomia, se è vero che una delle prime fonti che ne parla, cioè il fortunatissimo ricettario del Petroni (1974), lo cita non come sinonimo locale di profiterole, ma a conclusione della procedura indicata per preparare i bigné: «Una volta cotti si potranno glassare e, con la siringa, riempire di crema, cioccolato o panna; potranno essere utilizzati anche per preparare un ottimo "Bongo"» (p. 68). D'altronde, l'illustrazione che accompagna la ricetta, presenta proprio i bigné interamente avvolti da un manto di cioccolato, dunque inequivocabilmente coinvolti nella formazione del nostro dolce.
Sembrerebbe insomma che, mentre l' "italiano comune" stava lentamente convergendo verso una sintesi di "parola e cosa" espressa da profiterole, a Firenze la "cosa" era invece già nota come bongo. In ogni caso, la denominazione non doveva contare su una lunghissima tradizione: manca infatti dai repertori dei fiorentinismi pubblicati tra Ottocento e Novecento, e sarà registrato solo da testimonianze molto vicine a noi (cfr. Rosi Galli 2009).


Un indizio, invece, sembra indicare che il costituente-base del dolce aveva cominciato a circolare, a Firenze, con una denominazione che a suo modo prefigura gli sviluppi onomastici futuri. Infatti nel Nòvo dizionario universale della lingua italiana (1884-1890), impostato secondo la prospettiva manzoniana di uniformare sull'uso toscano (e soprattutto fiorentino) la lingua dell'Italia postunitaria, il pistoiese Policarpo Petrocchi registra, tra la lingua viva, la voce affricana (di cui, come si vede, viene proposta la pronuncia fiorentina, che prevede in questo caso la -f- geminata), come "Sorta di pasta collo zabaione dentro, e ricoperta di cioccolata". Con affricana, dunque, Petrocchi propone una forma della lingua "viva" (presumibilmente fiorentina) che di fatto costituisce una risposta anti-francese a bigné, e che, collegando l'aspetto del dolce caratterizzato dalla copertura di cioccolata a quell'Africa con cui gli italiani stavano familiarizzando per le vicende della colonizzazione, sembra anticipare in qualche modo l'avvento di un "africanismo" qual è bongo.
Del resto, sempre in area fiorentina (Chianti, Mugello), ma non a Firenze città, sono ancora oggi riconosciuti come dolci tradizionali i cosiddetti africani, che, come indicano i ricettari locali (naturalmente, dopo aver osservato che la pronuncia consueta è affricani), si ottengono facendo cuocere in forno, in piccoli stampi, uova sbattute con lo zucchero, finché il composto non assume un bel colore nocciola a cui – tanto per cambiare – viene ricondotta la suggestione onomastica sensibile al continente nero. Per quello che testimonia il mondo web, africani indica lo stesso prodotto nel Salento (precisamente a Galatina), di cui naturalmente sarebbe tipicissimo. A livello di lessicografia italiana, questo valore di africano è presente solo nel Vocabolario della lingua italiana di Pietro Fanfani (1865).


Ma non basta. A partire, come sembra, dall'edizione 1918 del già ricordato Dizionario moderno del Panzini, africano è il nome con cui i vocabolari dell'italiano, salvo pochissime eccezioni, registrano la presenza, tra i più comuni dessert, di dolci (in genere, ma non esclusivamente, di marzapane) che presentano una superficie di cioccolata. A questo proposito, bisogna rilevare che la registrazione dei vocabolari in questo caso non sembra rimandare a una pratica pasticcera effettivamente unitaria: di fatto questo africano che, stando al De Mauro, sarebbe addirittura “voce di alto uso”, non sembra corrispondere a uno specifico prodotto dolciario, diffuso con le stesse caratteristiche in tutta la Penisola, ma testimonierebbe – oltre che la ben nota inerzia lessicografica, che porta spesso a mantenere in vita nei vocabolari voci che, una volta accolte, rimangono attestate senza che ci si preoccupi di controllarne periodicamente l'effettiva fortuna nell'uso – una generica modalità di denominazione di torte o pasticcini cosparsi di cioccolato.
Ma, al di là della misteriosa attribuzione a tutta l'Italia di un tipo di dolce che sembra familiare e condiviso soprattutto tra i lessicografi (beati loro, verrebbe da dire), e di un'altrettanto curiosa consonanza tra "parole e cose" in Toscana e Salento, conta rilevare che esiste una consuetudine diffusa a collegare l'etichetta africano all'aspetto scuro dei dolci (che sia conseguito per cottura o per l'apporto del cioccolato in superficie).
In questo contesto è possibile che l'antica affricana, registrata come si ricorderà a fine Ottocento dal Petrocchi come sorta di bigné ricoperto di cioccolato, nel corso degli anni abbia cominciato a risentire a Firenze dell'interferenza negativa rappresentata dalla vitalità, in aree limitrofe, di affricano 'uovo sbattuto con lo zucchero e cotto in forno'; al tempo stesso, come ulteriore elemento di disturbo, il termine africano andava a quanto pare diffondendosi (perlomeno a partire dalla metà del Novecento) come modalità ampiamente diffusa di indicare la pasticceria ricoperta di cioccolato.


E allora, volendo continuare a esprimere linguisticamente l'africanità attraverso l'immagine della cioccolata, rispettando al tempo stesso gli specifici connotati di un dolce che a sua volta rappresentava uno sviluppo in termini di composizione dell'affricana del Petrocchi, si può pensare che a Firenze l'originale intuizione di un mastro pasticciere (di cui a quanto sembra si sono perse tracce) abbia risolto la questione battezzando l'evoluzione dell'affricana con il buffonesco pseudo-africanismo che in quegli stessi anni stava celebrando, con gran favore di pubblico, il protagonista di una canzone, "Bongo Bongo Bongo" (1947), a sua volta destinata, con la voce inconfondibile della star Nilla Pizzi, a spopolare a Firenze e nell'Italia intera, e a individuare in bongo, da quel momento in poi, un nome-simbolo dell'africanità.

 


Per approfondimenti:

 

  • Stefano Rosi Galli, Vohabolario del vernaholo fiorentino e del dialetto toscano di ieri e di oggi, Firenze, Romano editore, 2009.
  • Sergio Lorenzi, A tavola in Toscana, Pisa, Giardini, 1978.
  • Paolo Petroni, Il libro della vera cucina fiorentina, Firenze, Bonechi, 1974.
     

Neri Binazzi

17 febbraio 2014


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